L’occupazione cresce e con 23,7 milioni di lavoratori abbiamo raggiunto il livello record degli ultimi 40 anni. Ma dentro i numeri ci sono differenze sostanziali: le donne, seppur più istruite, continuano a essere penalizzate : contratti a termine, demansionamenti e anche le metà ore «imposte»
I posti di lavoro in Italia aumentano e - in base al dato Istat di inizio gennaio - ci sono 23 milioni e 183 mila occupati: il record in 40 anni. Ma è tutto oro quello che luccica? Per le donne, questo «oro» luccica un po’ meno. L’Istat, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico e il World Economic Forum in tre report diffusi nell’autunno scorso hanno mostrato il lato oscuro del lavoro per le donne. «L’Italia - scrive l’Ocse - continua a registrare un tasso di occupazione femminile tra i più bassi dei Paesi membri». Secondo dati Istat, dal 1977 a oggi il tasso di occupazione è passato dal 33,5 al 48,1 per cento (gli uomini sono al 67,5 per cento), un livello lontano dal 61,6 per cento della media dei 28 Paesi europei e ancor di più dai record di Svezia (74,6 per cento ), Norvegia (71,9 per cento ) e Germania (71 per cento ).
Se e quando lavorano, le donne sono svantaggiate. Hanno più spesso contratti a termine in essere da almeno cinque anni (19,6 per cento rispetto al 17,7 per cento gli uomini), una busta paga più bassa e un livello di istruzione più alto di quello maggiormente richiesto per il lavoro svolto (25,7 per cento in confronto a 22,4 per cento gli uomini). E soprattutto è quasi tripla rispetto a quella degli uomini (rispettivamente 19,1 e 6,5 per cento) la quota di occupate in part time involontario. «Le aziende – dice Loredana Taddei, responsabile politiche di genere della Cgil – utilizzano la pratica del part time involontario, cioè mettere o assumere le donne a metà tempo, al posto del full time. E poi c’è il solito problema: la penalizzazione a causa della maternità, con le donne che di fatto rientrano demansionate o che sono costrette a dimettersi per accudire i figli».
La maternità continua a essere uno spartiacque. A causa degli scarsi servizi per l’infanzia - dice l’Ocse - il 78 per cento delle donne che ha rassegnato le dimissioni nel 2016 sono madri e il 40 per cento del totale delle domande ha avuto, come motivazione, l’impossibilità di conciliare il lavoro e la famiglia. In base a un rapporto dell’Ispettorato del lavoro nel 2016 sulle 29.879 donne che si sono licenziate, 24.618 hanno addotto motivazioni legate alla difficoltà di conciliare la vita privata con il lavoro. «Servirebbero aiuti fiscali per far restare al lavoro le donne e per pagare servizi di cura - spiega Paola Profeta, docente in Bocconi ed esperta di Economia e Politiche di genere- ma adesso paradossalmente gli incentivi funzionano al contrario: quando una donna lascia il lavoro ha diritto alla Naspi (Nuova assicurazione sociale per l’impiego, un’indennità mensile di disoccupazione, ndr). Poi c’è un tema di condivisione delle responsabilità genitoriali: oggi i congedi di paternità sono limitati a due giorni soltanto». C’è un altro dato da segnalare, dice Taddei: «Le donne sono più scolarizzate, ma sono impiegate nei lavori meno qualificati».
Infatti, alla voce «istruzione» la situazione si ribalta: nel nostro Paese le donne sono mediamente più istruite degli uomini. Se la quota di 30-34enni con un titolo di studio terziario è pari al 26,2 per cento, le donne sono al 32,5%, gli uomini al 19,9 per cento (dati Istat). «E il gap delle ragazze laureate in discipline tecnico-scientifiche tradizionalmente usato come indicatore dell’influenza di stereotipi di genere – ha osservato il presidente dell’Istat Giorgio Alleva - in Italia è più basso che in molti Paesi d’Europa».
Il World Economic Forum nella sua classifica sulla differenze di genere continua a far retrocedere il nostro Paese. Su 144 Paesi siamo scivolati in 82esima posizione, dalla 50esima del 2016 e dalla 41esima del 2015. Dopo anni in cui la disparità uomo-donna si stava assottigliando, nel 2016 l’Italia ha invertito la rotta: il gap, invece di ridursi come continua a fare nella maggioranze degli altri Paesi, aumenta e ci stiamo allontanando dalla parità. Il punteggio complessivo ottenuto dall’Italia - il Global Gender Gap score in cui 1 corrisponde alla parità e 0 alla massima disuguaglianza - nel 2015 era a 0,726, nel 2016 a 0,719 mentre nel 2017 è sceso allo 0,692. Quello che colpisce non è tanto la retrocessione in classifica, e quindi il paragone con gli altri Paesi, quanto il punteggio in sé: l’Italia peggiora anche nei confronti di se stessa. Che fare? Servono leggi. «Quella sulle quote di genere ha funzionato molto bene - commenta Paola Profeta - e le donne nelle posizioni di vertice in azienda sono arrivate al 30 per cento, mentre i Paesi che non hanno introdotto una legge sono rimasti indietro. In maniera spontanea non c’è cambiamento, si rischia di andare indietro».
http://www.corriere.it/buone-notizie/18_gennaio_25/part-time-involontario-disuguaglianze-lavoro-donne-pagate-meno-uomini-4acca2ec-01e1-11e8-9ff2-341a2fe0297c.shtml
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