martedì 12 marzo 2019

Alla faccia della parità. La mamma stira, non parla di calcio. E nemmeno di porti Da Collovati a Isoardi, da Emma a Strumia, da Prestigiacomo a Di Battista, pattiniamo su un tappeto di sessismo. Breve rassegna di ciò che le donne non possono dire, e di ciò che invece si sentono dire DI SUSANNA TURCO

Alla faccia della parità. La mamma stira, non parla di calcio. E nemmeno di porti
A fare impressione è l’estrema costanza, l’assoluta linearità. La facilità con cui si uniscono i punti. Una roba da scuola elementare, letteralmente. Nel sussidiario per la classe seconda, all’esercizio in cui si deve cancellare il verbo fuori contesto, le opzioni sono tre. La mamma «stira», «cucina» o «tramonta». Il papà «lavora», «legge» o «gracida». Sembra un universo superato, non lo è: siamo oltre solo in teoria, in pratica è persino peggio che niente. Lo dicono le parole, prima di tutto. Le parole che sono potere: perimetrano, descrivono, disegnano la realtà. Quello che viene nominato, è. L’orizzonte implicito nel sussidiario – alla faccia della revisione dei testi scolastici che si fece anni fa per eliminare, appunto, gli anacronismi - non è diverso da quello di Fulvio Collovati, 61 anni, ex calciatore, allorché a Quelli che il calcio ascoltando Wanda Nara, procuratrice e moglie dell’attaccante dell’Inter Mauro Icardi, dice: «Quando sento una donna parlare di calcio mi si rivolta lo stomaco». I bambini di 7 anni si alimentano quindi, via sussidiario, della stessa cultura sputata fuori dall’ex campione del mondo. È preistoria? Ma chiamiamola pure eternità. La mamma non parla di calcio: la mamma stira, cucina o tramonta. Fa anche altro, ormai: ma quello deve farlo, sicuro. Del resto stirava anche Elisa Isoardi, da conduttrice Rai e fidanzata di Matteo Salvini, nella famosa immagine postata su Instagram lo scorso aprile. Stirava, Isoardi, e neanche da madre: e infatti - si è poi scoperto - stirava una camicia sua propria, stirava per sé. Anche se tutti abbiamo dato per scontato, giacché stirava, che stirasse per lui, per Salvini. E già questo la dice lunghissima su dove siamo.

Vagamente storditi dalla risacca della marea del #Metoo, nell’anno di grazia 2019 si sperimenta in Italia la consistenza di un genere di sessismo che non è nuovo per niente, ma adesso risalta ancor peggio: un sessismo ulteriore, quello della parola. Strisciante e inestirpabile, si direbbe. Certamente esorbitante. Dal (ora ex) consigliere leghista di Bolzano Kevin Masocco che ha esclamato: «Venite, c’è una dj da violentare!», fino alla puntata delle Iene nella quale passava come un innocuo scherzo la prova palmare della fobia di Lorenzo Insigne, capitano del Napoli, verso qualsiasi libertà personale di sua moglie (nello specifico colpevole di voler fare un provino). Misura di quanto la questione sia innervata nel profondo, nell’amigdala di cervelli che sono cresciuti e tutt’ora crescono – è cronaca – a colpi di «la mamma cucina, stira o tramonta». Si concentra forse quasi tutto qui, il differenziale tra ciò che ci piacerebbe fosse o ci raccontiamo che sia, e ciò che è davvero, in termini di sessismo e disparità. Nella parola-sciabola, l’insulto, per un verso. Nella parola interdetta, l’argomento off-limits, per l’altro. Tra quello che le donne non possono dire, e quello che invece si sentono dire.

A destra e a sinistra il machismo è trasversale
Figure paterne come quella invocata da Prodi. Grandi conquistatori alla Berlusconi. Leghisti circondati da deputate obbedienti. Partitelli di sinistra intasati dai maschi. E le donne sono le grandi assenti della politica

«Aprite i porti», ha urlato la cantante Emma durante un suo concerto a Eboli. «Faresti bene ad aprire le tue cosce facendoti pagare, ad esempio», ha risposto in un commento su Facebook il consigliere di Amelia Massimiliano Galli. Sospeso dalla Lega per le polemiche, si è ostinato adire che la sua «era una iperbole» e non voleva mica dare a Emma «della mignotta», no no. Lo ha spiegato lui stesso, in una intervista: «Stava in una foto, con le cosce larghe mentre cantava, voleva farsi vedere, no?». Ecco il perché lui le ha risposto così: è lei che l’ha provocato. Per sommo dell’ironia, giusto a chiarire di cosa si parli, la notizia («aprite i porti») è finita sui quotidiani nello stesso giorno in cui Vincenzo Boccia, presidente di Confindustria, esortava: «Aprite i cantieri». Nessuno si è neanche sognato di rispondere a Boccia «faresti bene ad aprire le tue cosce». E non per anatomia, e non per reverenza, ma perché nessuno, mai, attacca un uomo prendendo di mira il suo corpo. Emma, oltre ad essere donna, pretendeva essere presa sul serio. Aprire i porti? Torna in mente Collovati, basta cambiare la materia:«Quando sento una donna parlare di immigrazione mi si rivolta lo stomaco».

In effetti, non solo il calcio pare argomento per soli uomini. Quando Stefania Prestigiacomo ha usato le sue prerogative di parlamentare (di Forza Italia) per andare a verificare - con altri due deputati maschi - le condizioni dei 47 migranti bloccati dai veti di Salvini sulla Sea watch 3, è stata perimetrata dentro i confini della mamma che «stira, cucina o tramonta». Antonio Tajani, praticamente il capo del suo partito dopo Silvio Berlusconi, ha derubricato il gesto come quello di «una madre mossa da forte emotività». Dal quotidiano Libero, Prestigiacomo si è presa direttamente della «nonna». Epiteto evidentemente considerato la naturale prosecuzione di quello riservato ad Emma. Da «apri le cosce» ad «apri nonna» - par di capire - è un attimo, il volgere di qualche anno. In mezzo, per ben che vada, può esserci una Wanda Nara, che Selvaggia Lucarelli ha definito «rivoluzionaria» nella «lotta al patriarcato», ma che per dei lettori del Fatto è solo «castrante» e «narcisista»: «E di un uomo castrato, una donna non se ne fa più nulla e prima o poi lo abbandona. La crisi di gol sul campo che Icardi ha attualmente ne è la prova», è la lettera con cui le ha risposto un Aurelio Scuppa. Ecco, parliamo di cose così. Non eccezioni.

Luciana Littizzetto e quello che le donne non possono dire
Piovono accuse di volgarità sulla comica di "Che tempo che fa". Eppure le stesse battute dette da un uomo non scatenano alcuna indignazione

Un tappeto a sottofondo della vita di tutti, impostazione sulla quale (salvo gli insulti) pattiniamo largamente inconsapevoli. È normale, ad esempio, trovare sui social il video del tipo “Venticinque consigli alla donna che comanda per farsi accettare dagli uomini”. È normale ascoltare, per il femminicidio, l’invocazione per par-condicio del maschicidio (modello: «e allora il Pd?»), in una sorta di malinteso sul termine, che indica non tanto il genere della vittima, quanto il perché sia stata uccisa. È normale ascoltare lamentele sull’ossessione per la correttezza. «La storia del politicamente corretto a tutti i costi porterà la morte di questa nazione», è l’unica frase che oggi è dato leggere sul profilo Facebook di Galli - quello dell’«apri le cosce».

Con queste promesse, la scivolata finale è sempre dietro l’angolo. A ottobre, al Cern lo scienziato Alessandro Strumia ha tentato di dimostrare con slide e formule matematiche che nell’area scientifica le donne sono sotto-rappresentate perché sono meno brave, a causa di una innata differenza legata al genere. A Sanremo, Francesco Renga si è inerpicato a descrivere una minor gradevolezza della voce femminile («una questione fisica») per spiegare il motivo per il quale c’erano in gara solo 6 donne su 24. A Roma, non c’è nessuno che si scomodi neanche a chiarire il perché, nella compagine di governo, ci siano solo 11 donne su 63. E quindi come mai a Palazzo Chigi vada peggio che a Sanremo. Il retroterra culturale, certo, può aiutare. Se di quello leghista s’è detto, per i Cinque stelle si ricorda come Alessandro Di Battista abbia scelto l’epiteto di «puttane» per insultare i giornalisti - un mondo, il giornalismo, nel quale le donne che firmano in prima pagina sono all’incirca quelle che governano a Kabul. Tutti «puttane», comunque.

«Per Di Battista è la parte femminile della stampa quella che si prostituisce. I giornalisti buoni sono veri uomini, gli altri si prostituiscono come fanno le donne» ha notato il blogger Lorenzo Gasparrini. Pur avendo portato in Parlamento una buona quota di donne, anche in M5S il modello resta maschile. E se la titolare della Difesa Elisabetta Trenta, dal palco grillino, rivendica la preferenza a farsi chiamare ministro, il pubblico le fa la ola. «Quando firmo una sentenza “la giudice” spesso devo spiegare il perché», ha raccontato la giudice Paola Di Nicola, in un incontro al liceo Socrate di Roma. Anche declinare il genere dei mestieri viene sminuito considerandolo un vezzo, ridicolo: «Sindaca e assessora fanno ridere soprattutto quelli per cui non è un problema che esistano fioraia e cassiera», spiega Di Nicola. La misura della difficoltà è la vicinanza delle donne al potere, in un mondo che pure ormai le contempla, ma fatica a trovare le parole per dirlo. E non facendo passi avanti, va indietro. Mentre Isoardi, che da fidanzata stirava («un venerdì da leoni»), da ex si selfa in abito da sirena con scollatura vertiginosa ( «Buon sabato sera ragazzi #saturdaynight #siesce», è il suo commento), e anche questo andrà messo da qualche parte.
http://espresso.repubblica.it/plus/articoli/2019/03/01/news/donnesindaco-o-sindaca-1.332226?fbclid=IwAR1jTXlsMAr-X1ihOEit2scLHkunBZ1BhktcbmYvEzpH2lpQrc0O6uJBO8o

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