È notizia di ieri: un medico che si dichiara obiettore di coscienza non può rifiutarsi di curare la paziente che si è sottoposta a interruzione volontaria di gravidanza in ospedale. Lo afferma la Cassazione, che ha confermato la condanna a un anno di carcere, per omissione di atti d’ufficio, con interdizione dall’esercizio della professione medica, a una dottoressa di un presidio ospedaliero in provincia di Pordenone, che, come medico di guardia la sera in cui la paziente ha abortito, si era rifiutata di visitare e assistere la donna, nonostante le richieste di intervento dell’ostetrica che temeva un’emorragia.
Quindi il diritto di obiezione di coscienza «non esonera il medico dall’intervenire durante l’intero procedimento» in quanto «il diritto dell’obiettore affievolisce, fino a scomparire, di fronte al diritto della donna in imminente pericolo a ricevere le cure per tutelare la propria vita e la propria». È l’ennesima eclatante conferma: il Sistema Sanitario Nazionale, nelle sue varie articolazioni territoriali, si sta rivelando incapace di gestire la corretta applicazione della legge 194 che regola l’interruzione volontaria della gravidanza.
Questa legge è il risultato importante raggiunto dal legislatore nello sforzo di equilibrare tutti i diritti coinvolti:
il diritto alla vita e alla salute fisica e psichica della donna, la tutela dei diritti del concepito e il diritto all’obiezione di coscienza.
Oggi lo Stato italiano si dimostra inerte di fronte alle difficoltà organizzative delle strutture sanitarie tenute all’applicazione della legge. Difficoltà determinate dal notevole numero, oltre il 70% su scala nazionale secondo i dati del Ministero della Salute, di medici obiettori in esse operanti. Questo stato di cose ha fatto nascere il dibattito, pericolosamente fuorviante e ideologico, sul presunto conflitto fra la tutela dei diritti riproduttivi delle donne e la tutela del diritto all’obiezione di coscienza. Ne sono la prova le mozioni presentate alla Camera, pur in presenza di quelle percentuali di obiettori, per chiedere di garantire la piena fruizione del diritto all’obiezione di coscienza in polemica con altre che denunciavano giustamente il disservizio delle strutture constatato quotidianamente dalle donne, soprattutto al Sud.
A soli due mesi dalla buona notizia di un potenziamento dei consultori pugliesi, ecco che qualche giorno fa obietta “in massa” l’equipe di ginecologia e ostetricia del San Paolo di Bari, ultima struttura pubblica dove era possibile accedere all’interruzione volontaria della gravidanza nel capoluogo.
Per far fronte al problema, la Direzione Sanitaria ha inviato d’urgenza (e temporaneamente) un medico non obiettore, che si farà carico di tutte le richieste di Ivg della città. Ad influire sulla scelta dell’equipe del San Paolo, è lecito supporre siano state anche le condizioni in cui si trovava ad operare. Com’è ovvio, questa non potrebbe comunque essere la sola motivazione, o parleremmo di una sorta di sciopero ad oltranza, e comunque le ragioni dell’équipe non devono essere messe in discussione.
La Legge 194/78, nel garantire l’esercizio dell’obiezione di coscienza, non prevede processi alle intenzioni dei dichiaranti, ipotesi che avrebbe implicazioni aberranti. L’obiezione di coscienza è un diritto consolidato, non solo per quanto riguarda l’interruzione volontaria di gravidanza, ma è responsabilità dello Stato far sì che non si traduca nella soppressione di altri diritti di pari dignità, come il diritto alla salute fisica e psichica della donna.
Il caso di Bari non coglie di sorpresa. Di fronte al problema posto, di fatto, da una maggioranza di medici obiettori spesso riluttanti a svolgere i compiti di assistenza previsti dalla Legge 194, con la delibera 735 del 2010 la Giunta Regionale pugliese aveva tentato la strada del reclutamento selettivo di medici non obiettori, per integrare gli organici dei consultori. Dato che l’articolo 9, formalmente, garantisce il diritto all’obiezione di coscienza solo per quanto riguarda le attività specificamente dirette all’Ivg, ma non dall’assistenza antecedente e conseguente all’intervento, il Tar della Puglia annullò la parte della delibera considerata discriminatoria.
Il Tar dichiarò che“la presenza o meno di medici obiettori ex art. 9 legge n. 194/1978 nei Consultori istituiti ai sensi della legge n. 405/ 1975 [sia] assolutamente irrilevante, posto che all’interno dei suddetti Consultori non si pratica materialmente l’interruzione volontaria della gravidanza (…) bensì (…) attività e funzioni che qualsiasi medico (obiettore e non) è in grado di svolgere ed è altresì tenuto ad espletare senza che possa invocare l’esonero di cui alla disposizione citata”.
Ciononostante, dimostrando attenzione verso un problema ineluttabilmente emerso dai fatti, il Tribunale suggerì la possibilità di predisporre bandi “per i singoli Consultori che prevedano una riserva di posti del 50% per medici specialisti che non abbiano prestato obiezione di coscienza ed al tempo stesso una riserva di posti del restante 50% per medici specialisti obiettori. Sarebbe quest’ultima un’opzione ragionevole che non si porrebbe in contrasto con il principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost”. Alla giurisprudenza amministrativa fecero eco l’AIED e l’Associazione Luca Coscioni, con una lettera aperta alle Regioni, ma ad oggi non risulta che la proposta sia stata accolta da alcuna amministrazione italiana.
Per risolvere il problema su scala nazionale, sarebbe sufficiente prevedere forme di mobilità del personale e reclutamento differenziato, che riequilibrino il numero degli obiettori e dei non obiettori in servizio nelle strutture pubbliche. Eppure, non solo problema e soluzione sono stati ripetutamente identificati in Italia e da parte di autorevoli istituzioni sovranazionali (si veda Risoluzione 1763/2010 del Consiglio d’Europa), ma il nostro Paese è già stato citato in due reclami di fronte al Comitato Economico e Sociale: IPPF EN v. Italy, 87/2012, riguardo la mancata previsione di misure che garantiscano la presenza di personale non obiettore nelle strutture pubbliche, e il Reclamo 91/2013, che denuncia il mobbing subito dai medici non obiettori.
L’obiezione di coscienza, come i diritti riproduttivi delle donne, fa parte di quei nuovi diritti riconosciuti con l’evoluzione sociale e culturale del nostro Paese. Garantisce la possibilità di astenersi dall’assolvere un compito altrimenti obbligatorio. Non implica un giudizio sulla legittimità o moralità del compito in questione, ma ne internalizza la complessità. Non affrontare il problema in modo da rimuovere gli ostacoli all’applicazione della legge, implica l’imposizione a terzi di un giudizio morale individuale.
Mentre in Italia ricorrere all’interruzione volontaria di gravidanza in una struttura pubblica diviene sempre più difficile, l’obiezione di coscienza sulla Legge 194 viene sollevata con estrema leggerezza, con esiti spesso imprevedibili. Quando nel 2007 Benedetto XVI esortò i farmacisti a sollevare l’obiezione di coscienza sulla contraccezione d’emergenza, in molti accolsero l’invito di rifiutarne la vendita, fino a che non si chiarì che tale condotta si poneva in violazione dell’art. 38 del Testo Unico delle Leggi Sanitarie. Nel 1999, il caso Pichon e Sajous in Francia arrivò fino alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. I ricorrenti erano due farmacisti, che rivendicavano il proprio diritto a negare la vendita della pillola contraccettiva per motivi religiosi.
Sottolineando la natura individuale dell’obiezione di coscienza, la Corte escluse che le convinzioni religiose potessero prevalere fino ad imporsi su terzi, in un contesto in cui il rifiuto di vendere contraccettivi d’emergenza, reperibili solo in farmacia e dietro prescrizione medica, impediva di fatto l’accesso a tali medicinali. La richiesta dei due farmacisti fu dichiarata manifestamente infondata.
Alla Corte europea dei diritti dell’uomo potrebbe appellarsi una donna discriminata dall’impossibilità di fatto di accedere all’interruzione volontaria di gravidanza in una struttura pubblica italiana, non potendo nemmeno ricorrere, magari per problemi economici, ad una clinica privata. Perché questa possibilità sia percorribile, è necessario che prima si esauriscano tutte le vie giudiziarie interne, in cui le istituzioni pubbliche italiane potrebbero trovarsi a dover rispondere della loro responsabilità e obbligati ad un risarcimento e alla ricerca di una soluzione.
Una donna che ha subito questo tipo di violenza fisica e psicologica dovrebbe quindi, innanzitutto, denunciare in Italia la violazione di un suo diritto fondamentale, come fecero in Francia le ragazze che videro negato un diritto indiscutibile. Sappiamo che, per ovvi motivi, l’ipotesi che una donna in quelle condizioni intraprenda la via del ricorso giudiziario è tenue. La soluzione potrebbe trovarsi in una campagna di sensibilizzazione, volta a raccogliere le testimonianze di questi casi e ad offrire sostegno professionale a tutte coloro volessero contribuire a porre le istituzioni pubbliche di fronte alle proprie responsabilità. Le conseguenze estreme di una persistente resistenza passiva del nostro Paese, porterebbero alla denuncia d’avanti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
Concludiamo manifestando una (altra) preoccupazione, che nasce costatando il persistere di una condizione di subordinazione della donna in Italia, e delle sue drammatiche conseguenze.
È femminicida un Paese in cui le istituzioni non garantiscono alle donne la protezione del loro diritto alla salute fisica o psichica, qualora non aderiscano al ruolo che la società attribuisce loro? È femminicida l’inerzia dell’Italia che, calpestando ogni bilanciamento di diritti fondamentali, lascia al caso l’applicazione della Legge 194/78.
da http://27esimaora.corriere.it/articolo/aborto-e-obiezione-di-coscienza-due-diritti-da-riequilibrare/
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