lunedì 7 marzo 2016

Donne, lavoro e discriminazioni DI SIMONASFORZA



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Durante questi anni di crisi economica ci siamo concentrati sulle ricadute occupazionali, sulla difesa dei posti di lavoro a qualunque costo. Forse questo impegno ha lasciato da parte il discorso del contrasto a fenomeni di discriminazioni nei luoghi di lavoro. La partecipazione al mercato del lavoro ci vede sempre in posizioni molto basse nelle classifiche internazionali. Ricordo che l’Italia è al 111° posto (del segmento economic participation and opportunity, siamo al 91° posto per labour force participation) su 145 paesi del Global gender gap report 2015 del WEF, con il 13% di disoccupazione femminile, 2 punti sopra quella maschile, solo il 54% delle donne contro il 74% che partecipa al mercato del lavoro (è occupata o sta cercando) e che guadagna però la metà del suo collega. Nessun paese avanzato è messo male come il nostro, ci collochiamo tra gli ultimi insieme a Cuba, Messico, Arabia Saudita, Bangladesh. Negli ultimi dieci anni abbiamo solo peggiorato.
Lo scorso 22 febbraio ho seguito il convegno organizzato dalla Consigliera di Parità della Lombardia presso l’Auditorium Testori di Milano. Questa figura, poco conosciuta e valorizzata, in qualità di pubblico ufficiale, ha l’obbligo di agire in giudizio per accertare e rimuovere gli effetti delle discriminazioni collettive e individuali (che coinvolgono uomini e donne). Inoltre, promuove concrete politiche di pari opportunità di genere, coinvolgendo tutte le figure che operano nel mercato del lavoro: dalle lavoratrici e lavoratori alle istituzioni, dalle parti sociali ai soggetti privati.
Il Fondo nazionale per le Consigliere di Parità per il triennio 2015-2017 è stato azzerato, da qui la domanda che ha aperto il convegno: ha ancora senso parlare di parità di genere nel mondo del lavoro? Il convegno è stato anche l’occasione per fare un bilancio di chiusura del mandato della consigliera di parità Carolina Pellegrini e della sua supplente Paola Mencarelli.
Qui una presentazione che riassume chi si rivolge alla Consigliera di Parità, quante segnalazioni arrivano all’ufficio regionale e cosa denunciano, i canali informativi che portano a rivolgersi all’ufficio, i settori lavorativi (spesso sono anche le P.A. a discriminare), le tipologie di approccio per risolvere i vari casi, l’esito delle denunce.
32 accessi nel 2012, diventati negli anni 70, 73, 66 nel 2015. I numeri sono importanti, ma vanno contestualizzati. Se li esaminiamo insieme al fatto che in tante aziende, in alcuni settori, la rappresentanza sindacale manca o ha poco potere, per cui spesso il dipendente discriminato si trova da solo a fronteggiare questi problemi e non sa nemmeno della possibilità di rivolgersi all’ufficio della Consigliera di Parità, capiamo quanto ogni singolo accesso è un successo, una importante possibilità di far valere i propri diritti. Cosa viene denunciato: violenze di genere 2%, vessazioni/molestie/mobbing 12%, mobilità/C.i.g. 2%, licenziamento 10%, normativa/servizi/progetti 6%, discriminazione economica 4%, demansionamento 10%, convalida dimissioni 2%, contrattazione 3%, conciliazione lavoro famiglia 32%, carriera 2%, altro 16%.
Il dato più elevato è quello che corrisponde alle questioni di conciliazione, un segnale forte di sofferenza reale. Dietro ogni numero c’è una storia, una persona. Ci siamo noi. Avevo da poco rassegnato le dimissioni dal mio lavoro quando partecipai a un incontro in cui era presente Carolina Pellegrini. Eppure tornare a sentir parlare di questi temi mi provoca una sofferenza che gli anni non hanno saputo attenuare. Ogni volta che ne scrivo provo le stesse sensazioni laceranti, quella sensazione di solitudine e sconfitta che provai al momento della convalida delle mie dimissioni. Sconfitta perché dovevo dichiarare la mia volontarietà, pur sapendo che quella era una scelta obbligata da una serie di risposte negative del mio datore di lavoro, da mesi passati a resistere e dalla mancanza di supporti che mi permettessero di conciliare vita privata e lavoro. Mi sentivo e mi sento schiacciata da una mancanza di alternative, schiacciata da un sistema che mi stava espellendo come se improvvisamente la mia maternità mi avesse trasformato in un corpo estraneo, una scoria da smaltire e da rigettare. Io non mi sono rivolta alla consigliera di parità, e se lo avessi fatto sarei finita nella schiera di coloro che dopo una prima consulenza decidono di non proseguire. Perché le pressioni sono tante e perché non sempre hai la forza di opporti, di affrontare l’ennesimo scontro, quando sai che le hai veramente provate tutte. Nella mia vita ho resistito alla precarietà, a stipendi da fame, a singhiozzo, a c.i.g., a tutto, ma non ho saputo fronteggiare e reagire di fronte alla “scelta” di dimettermi. Non è la strada giusta, la strada giusta è lottare e farsi aiutare. Per questo si dovrebbe tornare a pretendere che quel fondo per le Consigliere di Parità si torni a riempire.
Non essendoci una consigliera di parità provinciale, dopo la decadenza della Provincia, la consigliera regionale ha dovuto occuparsi anche degli atti di carattere individuale, non solo collettivo. L’approccio ha sempre privilegiato la collaborazione con altri enti, organismi e assessorati, cercando di intervenire attraverso interventi programmati. Ci sono state importanti collaborazioni, ma non è sempre stato facile.
Le risorse azzerate non facilitano certo il compito di questa importante figura. Mancano i soldi per sostenere le spese degli avvocati che devono difendere le persone in caso di causa in tribunale, quando la conciliazione e gli accordi informali tra ditta e lavoratore falliscono.
Ogni anno viene inviata una relazione al Ministero del Lavoro
Le segnalazioni arrivano dal singolo dipendente, dal suo legale o dal delegato sindacale. Gli interventi autonomi della Consigliera sono altresì possibili, se si individuano discriminazioni in seguito all’esame delle relazioni sul personale che le imprese con più di 100 dipendenti sono tenute a presentare, ma che in poche presentano. La prassi prevede l’audizione del denunciante e del datore di lavoro, che solitamente è disponibile a collaborare. Si cerca di privilegiare una conciliazione condivisa, che permetta di conservare il posto di lavoro, rimuovendo gli atti discriminatori.
Si interviene per esempio su richieste di part-time negato, di premi produttivi non erogati a donne a causa di periodi di astensione dal lavoro per maternità obbligatoria. Altri problemi si riscontrano nell’usufruire dei congedi parentali. Insomma i diritti legati alla maternità e alla paternità continuano ad essere vissuti come oneri insostenibili dai datori di lavoro, nonostante la Costituzione, il Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, aggiornato, da ultimo, con le modifiche apportate dal D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 80 e, successivamente, dalla L. 7 agosto 2015, n. 124. QUI
Si fa fatica con una legislazione disordinata, che fatica a individuare quale sia la misura utile per garantire parità di genere, con troppi gradi di giudizio e una difficoltà a intervenire in casi di discriminazioni multiple (genere, nazionalità ecc.). Questo l’intervento dell’avv. Alberto Guariso. Prendiamo in esame casi di discriminazione per genere e per età. L’anzianità di servizio va premiata, secondo il contratto a tutele crescenti previsto dal Jobs Act. Sappiamo che le donne sono coloro che più sono soggette a interruzioni e quindi risultano le più svantaggiate da un sistema che premia la permanenza e l’anzianità aziendale. Questi sistemi penalizzano le donne. Ancora troppo ambigua la norma che riguarda l’onere della prova:

Codice delle pari opportunità (Dlgs 198/2006)Art. 40.Onere della prova(legge 10 aprile 1991, n. 125, articolo 4, comma 6)
1. Quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico relativi alle assunzioni, ai regimi retributivi, all’assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera ed ai licenziamenti, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso, spetta al convenuto l’onere della prova sull’insussistenza della discriminazione.

Finché le sanzioni saranno esigue, discriminare converrà ai datori di lavoro. La paura di intaccare la libertà di contrattazione del datore di lavoro incide sul tipo di intervento e sul tipo di sanzione. Ci devono essere sanzioni diverse da quelle pecuniarie e che devono dissuadere dal compiere comportamenti discriminatori. Discriminare costa molto in termini economici, ma culturalmente non è ancora una questione percepita dai datori di lavoro.
Andrea Rapacciuolo della Direzione Interregionale del Lavoro di Milano sottolinea l’importanza di diffondere le informazioni per consentire alle persone di sapere a chi rivolgersi in caso di abuso. Ci ha parlato di un nuovo modello per la convalida delle dimissioni per genitori con figli fino ai tre anni. Hanno aumentato le domande, ci dicono che questo serve a far riflettere maggiormente il dipendente dimissionario. Non siamo noi a dover riflettere, quando arriviamo a convalidare le dimissioni ne abbiamo passate già tante, siamo stremati, siamo ormai in balia della rassegnazione, abbiamo le lacrime agli occhi, è come se stessimo firmando la nostra condanna. Le strade per noi si sono già chiuse. Se questo questionario ha solo finalità statistiche e ti trovi davanti un funzionario annoiato che non vede l’ora che tu finisca la compilazione per passare alla persona successiva, mi spiegate a che serve tutto questo? Sono solo parole al vento. Più domande? Caspiterina, ci dimettiamo perché costrette e senza alternative, voi leggete che abbiamo chiesto un part-time per problemi legati a un figlio, non ce lo hanno concesso e non intervenite, ci porgete solo un questionario più prolisso? Pensate che questa sia una prassi sufficiente per contrastare pratiche discriminatorie? Infatti, il fenomeno è in costante crescita:
10.400 dimissioni con convalida, di cui circa 7.000 in Lombardia (1.200 padri), 2.500 circa in Piemonte, 220 in Liguria, 103 in Valle d’Aosta. Da marzo 2016 è prevista la convalida telematica
Carolina Pellegrini e Paola Mencarelli e Graziella Carneri, Segretario CGIL Lombardia, ci riportano l’esperienza del corso di formazione dedicato ai delegati sindacali per consentirgli di svolgere attivamente il processo di prevenzione e individuazione precoce delle situazioni di discriminazione legate al genere. Un corso in cui si sono illustrate le leggi in materia, i diritti, gli organismi e gli strumenti di difesa.
Carneri dice che le donne devono poter lavorare, far carriera e fare figli. Ci parla di condivisione e di congedo di paternità obbligatorio, di come sono stati fatti passi in avanti, anche nella cultura aziendale. Ripeto che a mio avviso la realtà non è rosea: tante aziende sbandierano la loro responsabilità sociale, ma poi mobbizzano e discriminano silenziosamente i propri dipendenti. Quindi se il lavoratore/la lavoratrice viene lasciato/a solo/a, che probabilità ha di difendersi e di impugnare un licenziamento per giustificato motivo che in realtà copre la discriminazione? I delegati sindacali intervenuti parlano proprio di questa necessità di non lasciare i lavoratori da soli.
Si è parlato anche di sicurezza nei luoghi di lavoro, in ottica di genere: Paola Mencarelli e Nicoletta Cornaggia, Regione Lombardia, con Mariarosaria Spagnuolo, Assolombarda. Perché l’approccio del D.L. 81 su salute e sicurezza QUI è generalmente neutro, come se tutti i corpi fossero uguali e reagissero allo stesso modo agli agenti chimici, alle sostanze, come se l’usura non fosse contemplata in mansioni ripetitive, tipicamente femminili a causa della segregazione orizzontale. L’usura da lavoro è difficilmente dimostrabile, spesso gli effetti si vedono quando si è già in pensione. Si è accennato a una indagine qualitativa su alcune aziende, su focus group (non campioni rappresentativi) in tema di sicurezza, che rispecchia i risultati degli studi di settore. Nelle aziende sono sentiti i temi relativi alla conciliazione, allo stress, alla fatica. Non c’è consapevolezza della diversità dei rischi uomo-donna, dell’importanza di dispositivi di sicurezza differenziati in base al genere. Le norme sono utili più a sanzionare che a prevenire. È importante adeguare la sorveglianza sanitaria, introducendo statistiche di genere, considerando chi svolge le mansioni. Soprattutto considerando gli oneri familiari e di cura che ancora pesano sulle donne.
Infine problemi relativi alla sicurezza riguardano il nuovo disegno di legge sullo smartworking. La stessa rappresentazione del lavoro agile delle donne è ancora stereotipato, alle prese con figli e cura della casa, mentre lo smartworking al maschile è sempre iperprofessionale e business oriented.
C’è da auspicare una maturazione culturale, che faccia diventare le aziende più propense a valutare forme di flessibilità positive.
Cosa fa la Regione Lombardia? Qui qualche info sul programma per la conciliazione famiglia-lavoro.
Intanto, come emerge da questo articolo, “tra il terzo trimestre del 2014 e lo stesso trimestre del 2015 le donne inizialmente disoccupate e successivamente divenute occupate sono diminuite dello 0,9%, mentre quelle rimaste disoccupate sono diminuite del 6,1 per cento. L’inevitabile conclusione è che, in un anno, la percentuale di donne inizialmente disoccupate che hanno abbandonato il mercato del lavoro nel trimestre successivo è aumentata del 7 per cento.”
Non è una maggiore flessibilità contrattuale, con una semplificazione in uscita e incentivi all’ingresso, che può portare a un incremento della partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Si tratta di fornire strumenti, servizi e mettere a sistema pratiche di conciliazione per uomini e donne, di cambiare la cultura aziendale. L’inattività non è un destino, una scelta obbligata, lo diventa se più fattori rendono più oneroso lavorare, se gli oneri familiari e di cura non vengono condivisi e gravano in gran parte sulle donne, se i servizi di sostegno mangiano una fetta cospicua di stipendio, se la flessibilità richiesta significa lavorare senza limiti orari e regole certe, se lavorare diventa incompatibile con la vita personale.



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