Qualche anno fa feci qualcosa di davvero coraggioso, o come direbbero alcuni, davvero stupido. Mi candidai al Congresso degli Stati Uniti.
Per anni ero rimasta al sicuro dietro le quinte dello scenario politico in qualità di organizzatrice di raccolte fondi, ma nel mio cuore avevo sempre desiderato candidarmi. La congressista in carica occupava quel posto dal 1992. Non aveva mai perso un’elezione e nessuno si era mai realmente candidato contro di lei in una primaria democratica. Ma questo, nella mia testa, era il mio modo per fare la differenza, per sovvertire uno status quo. I sondaggi però raccontavano una storia del tutto diversa. I sondaggisti con cui parlai mi dissero che era una pazzia candidarmi, che non avevo alcuna possibilità di vincere.
Reshma SaujaniMa mi candidai lo stesso, e nel 2012 divenni una parvenu delle elezioni newyorkesi. Ero davvero convinta di vincere. Avevo l’approvazione del New York Daily News, il Wall Street Journal mi fece un servizio fotografico il giorno delle elezioni, e la CNBC definì quelle elezioni tra le più combattute della storia. Raccolsi fondi da chiunque conoscevo, incluse le zie indiane che erano così felici che ci fosse una ragazza indiana candidata per quel posto. Ma il giorno delle elezioni i sondaggi si rivelarono nel giusto e ottenni solo il 19% dei voti. Gli stessi media che mi avevano definita una stella nascente della politica ora mi rimproveravano il fatto di aver gettato al vento 1.3 milioni di dollari per 6.321 voti. Non fate i calcoli. Fu umiliante.
Ora, prima che vi facciate un’idea sbagliata, sappiate che questo non è un discorso sull’importanza del fallimento. E nemmeno sul buttarsi a capofitto. Vi sto raccontando la storia della mia candidatura perché avevo 33 anni ed era la prima volta in tutta la mia vita in cui facevo qualcosa di veramente coraggioso, in cui non mi preoccupavo di essere perfetta.
E non sono sola: così tante donne con cui parlo mi confessano di gravitare attorno a carriere e professioni in cui sanno che sarebbero perfette, e non c’è da stupirsi. Alla maggior parte delle ragazze viene insegnato a evitare i rischi e i fallimenti. Ci insegnano a sorridere, essere cordiali, stare al sicuro, prendere bei voti. I ragazzi, d’altra parte, vengono educati a giocare, sporcarsi, rotolarsi e buttarsi a terra. E quando diventano adulti, sia che stiano negoziando un aumento di stipendio sia che stiano invitando qualcuno a uscire con loro, sono abituati ad affrontare i rischi uno dopo l’altro. Vengono premiati per questo. Alla Silicon Valley si dice spesso che nessuno ti prende sul serio se non hai almeno due startup fallite alle spalle. In altre parole, stiamo crescendo le nostre ragazze insegnandogli ad essere perfette e i nostri ragazzi ad essere coraggiosi.
Alcune persone si preoccupano del nostro deficit federale, ma io mi preoccupo del deficit di coraggio. La nostra economia, la nostra società, tutto sta andando a rotoli perché non insegniamo alle ragazze il coraggio. Il deficit di coraggio è la ragione per cui le donne sono poco rappresentate nei consigli di amministrazione, in politica, nelle forze dell’ordine, e più o meno ovunque guardiate.
Negli anni 80, la psicologa Carol Dweck studiò il comportamento dei bambini di 10 anni quando veniva assegnato loro un compito troppo difficile. Notò che le ragazze si arrendevano molto in fretta. Più era alto il loro QI, più era probabile che si arrendessero. I bambini, d’altro canto, trovavano le difficoltà stimolanti. Erano più propensi a raddoppiare i loro sforzi per arrivare alla soluzione.
Cosa sta succedendo? Beh, a quell’età le bambine surclassano i maschi praticamente in ogni materia, incluse matematica e scienze, quindi non è una questione di abilità. La differenza sta nell’approccio. E purtroppo questo tipo di atteggiamento non finisce alle scuole elementari.
Una ricerca svolta da HP ha evidenziato il fatto che gli uomini solitamente si candidano per una posizione lavorativa quando hanno il 60% dei requisiti richiesti, mentre le donne lo fanno solo se sono certe di averne il 100%. Cento per cento.
Questa ricerca è spesso portata ad esempio di quanto le donne abbiano bisogno di più confidenza. Ma penso che sia ovvio, a questo punto, che le donne sono state cresciute per aspirare alla perfezione e che questo le rende terribilmente prudenti.
E anche quando siamo ambiziose, persino quando abbiamo ruoli di leadership, questo schema sociale che ci impone la perfezione ci porta ad affrontare meno rischi nella nostra carriera. Per questo le 600.000 posizioni aperte nel settore informatico non attirano candidate donne, e ciò significa che le stiamo lasciando indietro. L’intera industria è un passo indietro se non può beneficiare delle idee, del problem solving e delle abilità femminili che potremmo portare alle aziende se solo fossimo abbastanza coraggiose.
Nel 2012 ho fondato una società per insegnare alle ragazze a programmare, e ho scoperto che al contempo stavo insegnando loro ad essere coraggiose. Programmare è un continuo processo fatto di prove ed errori, di tentativi di inserire la giusta linea di codice al giusto posto, dove spesso una parentesi in più o in meno segna la differenza tra successo e fallimento. Il codice si rompe e si sgretola, e spesso servono molti, moltissimi tentativi prima che arrivi il momento magico in cui ciò che stavi cercando di fare prende vita. Programmare richiede perseveranza. Richiede imperfezione.
Ci accorgiamo immediatamente che le ragazze nel nostro programma hanno paura di sbagliare qualcosa, di non essere perfette. Ogni insegnante di Girls Who Code mi racconta la stessa storia. Nella prima settimana, quando le alunne si stanno approcciando al codice, c’è sempre una studentessa che la chiama da parte per dirle “non so che codice scrivere”. L’insegnante guarda il suo monitor e vede l’editor di testo totalmente bianco. Se non conoscesse a fondo la storia, potrebbe pensare che la studentessa ha passato gli ultimi 20 minuti a fissare lo schermo. Ma se preme il pulsante per annullare le modifiche un paio di volte si accorge che la ragazza ha scritto del codice per poi cancellarlo. Ci ha provato, ci è andata vicina, ma non ha azzeccato totalmente. Anziché mostrare all’insegnante i progressi fatti, preferisce non mostrare nulla. Perfezione o fallimento.
Le ragazze sono molto brave a programmare, ma insegnare loro a farlo non è abbastanza.
Il mio amico Lev Brie, un professore all’università della Columbia che insegna Java, mi racconta della sua routine lavorativa con gli studenti di informatica. Quando i ragazzi hanno difficoltà su un compito, vanno da lui e dicono “prof, c’è qualcosa che non va nel mio codice”. Le ragazze dicono “prof, c’è qualcosa che non va in me”.
Abbiamo bisogno di cessare questa cultura della perfezione, e cercare di combinarla con la costruzione di una sorellanza che permetta alle ragazze di sapere di non essere sole. Perché provarci più duramente non riparerà un sistema che non funziona. Non potete immaginare quante donne mi dicono “Ho paura ad alzare la mano, ho paura a fare domande, perché non voglio essere l’unica che non capisce e che si sta sforzando”. Quando insegniamo alle ragazze ad essere coraggiose e le circondiamo di altre ragazze che le supportano, riescono a costruire cose incredibili, e lo noto ogni giorno.
Prendete, per esempio, due studentesse delle superiori che hanno creato un gioco intitolato “Tampon Run” (la corsa degli assorbenti) contro il tabù delle mestruazioni e il sessismo nel mondo del gaming. O la rifugiata siriana che ha voluto dimostrare il suo amore per il suo nuovo Paese creando un’app per aiutare gli americani a votare. O la ragazza di 16 anni che ha costruito un algoritmo per aiutare a distinguere un cancro maligno da uno benigno con l’intenzione di salvare suo padre che ne è affetto. Questi sono solo pochi esempi su migliaia, migliaia di ragazze a cui è stato insegnato a essere imperfette, a continuare a provare, ad essere perseveranti. E sia che diventino programmatrici, oppure le prossime Hillary Clinton o Beyoncé, non rinvieranno i loro sogni.
E questi sogni non sono mai stati così importanti per il nostro Paese. Per la crescita dell’economia americana, per quella di qualsiasi economia, per innovare sul serio, non possiamo lasciare indietro metà della popolazione. Abbiamo bisogno di educare le nostre ragazze ad essere a loro agio con l’imperfezione, e dobbiamo farlo ora. Non possiamo aspettare che imparino ad essere coraggiose come ho fatto io a 33 anni. Dobbiamo insegnarlo loro a scuola e all’inizio delle loro carriere, quando hanno il potenziale per stravolgere le loro vite e quelle altrui, e dobbiamo mostrare loro che saranno amate ed accettate non per essere perfette ma per essere coraggiose. Per questo ho bisogno che ognuno di voi dica ad ogni giovane donna che conosce – sorella, nipote, impiegata, collega – di essere a suo agio con le sue imperfezioni, perché quando insegniamo loro ad essere imperfette e ad accettarlo, diamo vita a un movimento di giovani donne che costruiranno un mondo migliore per loro stesse e per ognuno di noi.
http://www.forelsket.it/ragazze-coraggiose-non-perfette/
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