È l’articolo 19 della legge 194 sull’interruzione volontaria della gravidanza.
Il decreto legislativo dello scorso gennaio prevede che “La sanzione amministrativa pecuniaria, di cui al primo comma, è così determinata: a) da euro 5.000 a euro 10.000 per i reati puniti con la multa o l’ammenda non superiore nel massimo a euro 5.000”.
Usando il calcolatore delle rivalutazioni monetarie dell’Istat, centomila lire del 1978 equivalgono a poco più di 345 euro. Se per qualche motivo ci sembrasse un calcolo per difetto, potremmo raddoppiare e ci ritroveremmo comunque molto lontani dal minimo previsto dal recente decreto.
Non sono mancate le proteste, che giustamente hanno sottolineato quanto la legge 194 sia maltrattata e spesso ignorata. E che prevedere una sanzione così cara per le donne che ricorrono all’aborto in modo illegale sembra essere più una punizione che una giusta sanzione. Sembra superfluo ricordare che, verosimilmente, a ricorrere a mezzi illegali e clandestini sono in genere le donne più fragili e meno protette.
L’inasprimento della sanzione renderebbe poi le donne che hanno fatto ricorso a un aborto illegale ancora meno inclini a rivolgersi a un medico in caso di complicazioni. È quello che è già successo e succede negli Stati Uniti con le assurde criminalizzazioni dei comportamenti tenuti durante la gravidanza e dell’attribuzione di personalità giuridica al feto. Le donne in difficoltà, con qualche dipendenza o con altri comportamenti giudicati a rischio evitano di cercare aiuto, se non quando magari è troppo tardi. Il rischio di finire in galera per “spaccio di sostanze stupefacenti” (nel caso di donne che fanno uso di droghe o alcol) o per maltrattamenti di minore (il feto) non costituisce di certo un incentivo né verso comportamenti meno a rischio né verso la richiesta di aiuto.
Gli ostacoli all’applicazione della legge
Uno dei problemi più grossi per la corretta applicazione del servizio di interruzione volontari di gravidanza (ivg) è, naturalmente, il ricorso massiccio all’obiezione di coscienza.
Come abbiamo detto già molte volte, la media nazionale è oltre il 70 per cento e in alcune regioni arriva al 90 per cento. Alcune strutture non hanno proprio il reparto e nelle città più piccole è sempre più frequente che sia necessario andare altrove perché l’ultimo non obiettore è andato in pensione, è in vacanza oppure è morto.
Ma non c’è solo l’obiezione di coscienza. Ci sono tanti ostacoli alla corretta applicazione di quello che, ricordiamo, è un servizio medico ma che è spesso considerato quasi solo un problema morale. Oppresso dallo stigma e dalla retorica del dolore eterno e necessario.
Mirella Parachini, ginecologa del San Filippo Neri e tra le fondatrici di Amica, Associazione medici italiani contraccezione e aborto, mi racconta una vicenda che può essere considerata esemplare:
La legge 194 non obbliga le donne che vogliono abortire a ricorrere allo psicologo e all’assistente sociale. La donna può chiederlo, ovviamente, o può esserle suggerito in casi complicati o resi difficili da alcune circostanze. È una possibilità che si può valutare tra la donna e il medico, e lo scopo non è quello di influenzare, ma di aiutare a capire e a risolvere eventuali conflitti. Penso agli aborti decisi dopo una diagnosi prenatale, alle donne immigrate, a problemi economici o determinati da pressioni altrui.
Ma a volte sembra diventare una procedura di default, un passaggio obbligato e burocratico, un intervento svuotato di senso e applicabile a tutte le persone senza distinzione.
Qualche giorno fa una paziente si rivolge a un consultorio romano per chiedere la RU486, cioè la procedura farmacologica per abortire. Il consultorio, dopo la consulenza ginecologica, dà parere favorevole e la manda in ospedale. Lì le somministrano il primo step della procedura, la RU486. La paziente mi rivela poi di avere appuntamento per l’indomani – cioè nel giorno intermedio tra le due somministrazioni farmacologiche necessarie per l’aborto medico – con lo psicologo e l’assistente sociale. Mi dice di essere in difficoltà e di non capire la necessità di quell’incontro. Ho chiamato e disdetto, dicendo loro che a procedura iniziata non aveva davvero alcun senso. Non solo. In questo caso si trattava di una persona assolutamente dotata di empowerment cognitivo e culturale. Aveva già altri figli e non ne voleva altri, anche per una questione di età. Non c’erano quindi gli estremi per questo incontro.
Un episodio insignificante rispetto alle difficoltà che molte donne incontrano per abortire, ma rivelatore dello spreco e della ritrosia a migliorare le condizioni di un servizio giudicato quasi come un corpo estraneo nel dominio della medicina.
“Il metodo farmacologico”, continua Parachini, “è talmente lontano dalla mentalità di molti operatori che si fanno spesso cose bizzarre. Inutili e assurde. Non è solo una difficoltà logistica e organizzativa, ma anche un problema di formazione del personale. Di fronte a una tecnica nuova, che potrebbe abbassare drasticamente i costi e i tempi, si inciampa in difficoltà inesistenti”.
Aggiungiamo che la RU486 è anche importante perché offre la possibilità di scegliere una tecnica meno invasiva di quella chirurgica.
“Eppure basterebbe adeguare il nostro sistema agli standard di cura e di assistenza sanitaria del resto del mondo – o meglio di quei paesi avanzati che l’Italia pretende di rincorrere in tutti gli altri ambiti della medicina, ma non nell’ivg. Perché non dovrebbe valere in questo caso?”.
Perché l’aborto sembra essere diventato un problema quasi esclusivamente morale e se proprio non potete fare a meno di ricorrere a un rimedio tanto ripugnante, accontentatevi delle vecchie procedure.
da http://www.internazionale.it/opinione/chiara-lalli/2016/02/26/aborto-servizio-medico
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