mercoledì 14 novembre 2018

L’ITALIA NON È UN PAESE PER DONNE Mattea Guantieri

Italia fanalino di coda nella contraccezione d’emergenza: c’è un nocciolo di resistenza che si aggira intorno al 46% tra i farmacisti che considerano le pillole del giorno dopo abortive e non contraccettive nonostante Oms, Aifa ed Emea abbiano chiarito da tempo che si tratta di pillole che spostano l’ovulazione. In Italia la percentuale di donne che ha dichiarato di avere utilizzato, almeno una volta nella vita, il farmaco per evitare una gravidanza indesiderata è la più bassa di altri Paesi Europei: il 20%, contro, per esempio, il 33% del Regno Unito. La mappa che la piattaforma Obiezione Respinta ha delineato in un anno di lavoro fotografa quanto sia scoraggiato nelle farmacie e nei pochi consultori presenti l’uso della contraccezione d’emergenza. Altro anello debole della catena è l’informazione sulla contraccezione, in particolare su quella d’emergenza, inesistente nelle nostre scuole, mentre in Francia le minorenni possono avere gratuitamente ogni contraccettivo dal 2013.

L’Italia non è un paese per donne. La trincea contro l’aborto non passa soltanto dal difficile accesso all’interruzione di gravidanza ma anche attraverso la negazione della cosiddetta pillola del giorno dopo, o di quella dei 5 giorni dopo (che si chiama EllaOne). Non ci sono statistiche precise su quanti siano i farmacisti obiettori in Italia. Ma la resistenza c’è e i tentativi di sottrarsi alla vendita pure. Secondo un sondaggio dell’Unione Cattolica Farmacisti Italiani, almeno il 20% dei farmacisti non venderebbe mai una pillola contraccettiva senza ricetta e il 46% è stato contrario alla scelta dell’Aifa che ne ha permesso la vendita senza prescrizione medica, spiegando come essa sia contraccettiva e non abortiva “perché agisce inibendo o spostando l’ovulazione in avanti di qualche giorno”. Che la pillola del giorno dopo sia contraccettiva e non abortiva lo dicono anche le associazioni scientifiche, ma le proteste di coloro che sacralizzano il “concepito” sono all’ordine del giorno da parte delle galassie di associazioni, forum e movimenti numerosi e agguerriti che organizzano persino momenti di preghiera “per far cessare gli aborti in tutta Italia”.

“La pillola dei 5 giorni dopo – spiega ad Estreme Conseguenze Fabio Romiti Vicepresidente per il Movimento Nazionale Liberi Farmacisti – in libera vendita solo alle maggiorenni (il farmacista è tenuto ad accertarsi della maggiore età), già approvata dall’EMEA, l’Autorità Farmacologica Europea, non è la RU-486. Il principio attivo utilizzato appartiene alla categoria degli anti-progestinici, ovvero a quelle molecole che contrastano l’effetto del progesterone, ormone fondamentale per creare le condizioni adatte alla fecondazione e all’annidamento. Se assunta entro 5 giorni dal rapporto la pillola ha la funzione di interferire con i meccanismi dell’ovulazione. E, siccome l’Organizzazione Mondiale della Sanità afferma che la gravidanza ha inizio quando l’ovulo fecondato s’impianta nell’utero, non possiamo definirla pillola abortiva. Il discorso è leggermente differente per quanto riguarda la pillola del giorno dopo. Ha efficacia se assunta entro 72 ore dal rapporto. Da un punto di vista farmacologico è in grado di bloccare o ritardare il processo di ovulazione, ovvero il momento in cui l’ovocita viene espulso dalle ovaie per cominciare il suo viaggio attraverso le tube e raggiungere l’utero e, se fecondato, impiantarsi. Il Comitato di esperti europeo, dopo un lungo e approfondito percorso durato anni, ha stabilito che il farmaco è sicuro e affidabile e può essere tranquillamente gestito dalla professionalità del farmacista, come del resto già avviene per molti altri medicinali.

L’esperienza negli altri Paesi europei, dove la contraccezione d’emergenza è già un presidio controllato dal farmacista, dimostra che un accesso facilitato non porta ad un suo uso incontrollato. Il caso di Monfalcone, in cui una farmacista è stata assolta durante due gradi di processo per essersi rifiutata di consegnare Norlevo (con regolare ricetta) durante il servizio notturno, apre grandi interrogativi e mette a nudo l’esistenza del problema. La farmacista è stata assolta perché nel codice deontologico della professione di farmacista c’è scritto (Art. 3) che «Il farmacista deve operare in piena autonomia e coscienza professionale conformemente ai principi etici e tenendo sempre presenti i diritti del malato e il rispetto per la vita». Peccato che nello stesso articolo, al punto successivo si reciti: «nel rispetto del principio costituzionale di uguaglianza assicurare, con diligente professionalità, la presa in carico di ogni paziente, senza alcuna discriminazione, e perseguire il principio di universalità del Servizio Sanitario nella tutela della salute». Sulla supremazia di un codice deontologico e la sua interpretazione rispetto ad una legge dello Stato lasciamo ai giuristi la spiegazione, ma è chiaro che il sistema ha delle “falle” e che esse debbono essere chiuse privilegiando il diritto del soggetto più debole che a nostro avviso è sempre quello di chi ha bisogno di un farmaco. Quindi assicurando sempre, anche in presenza di obiezione di coscienza, la disponibilità del farmaco”.

La chiarezza scientifica non basta però quando a circolare sono le gigantografie di numeri fisiologici che vanno contestualizzati, proprio alla luce della scelta di Aifa: Federfarma Verona (città da dove ricordiamo è partita la crociata contro l’interruzione di gravidanza) ha diffuso pochi giorni fa un comunicato nel corso di un convegno organizzato dalle Pari Opportunità in cui si è parlato di “impennata di vendite della pillola del giorno dopo del 700% e di bombe ormonali”.  Abbiamo recuperato i dati di vendita: circa 94mila confezioni di EllaOne sono state vendute in Italia nel 2015 dopo l’abolizione dell’obbligo di ricetta medica per le maggiorenni, avvenuta per mezzo di una delibera Aifa emanata a maggio 2015. L’anno precedente, in totale, erano circa 16mila, sebbene a fronte non solo della richiesta di una ricetta medica ma anche di un test di gravidanza obbligatorio, unico in Italia in tutto il panorama Europeo. Che i dati di mercato non lascino intravedere deragliamenti della contraccezione d’emergenza, del resto lo ha precisato la stessa Federfarma (Nazionale) dicendo che “se l’analisi si allarga da un solo farmaco alla totalità del mercato della contraccezione d’emergenza – che comprende non solo EllaOne ma anche Norlevo, la cosiddetta pillola del giorno dopo – l’incremento sfiora il 24%”. E se è vero che EllaOne ha mostrato un deciso incremento nel 2016 (+60%) con 189mila pillole vendute altrettanto vero è che, invece, l’altra accusata – Norlevo – ha subito una flessione di vendita di circa la metà (-28%). Nel nostro Paese, inoltre, la percentuale di donne che hanno dichiarato di avere utilizzato il farmaco per evitare una gravidanza indesiderata almeno una volta nella vita è più bassa rispetto agli altri Paesi Europei: il 20% Italia, contro il 33% del Regno Unito.

Del resto va detto e ricordato che nel nuovo elenco dei medicinali da tenere obbligatoriamente in farmacia, varato nell’ambito della revisione della Farmacopea ufficiale, purtroppo non è inclusa una voce specifica dedicata ai farmaci per la contraccezione d’emergenza. Si prevede che il farmacista debba avere almeno uno dei farmaci della categoria contraccezione ormonale, ma dentro questa tipologia unica sono mischiate le pillole anticoncezionali ordinarie di uso quotidiano con quelle d’emergenza, con effetti e modalità di utilizzazione diversi e assolutamente non intercambiabili.

Uno spaccato di verità che riguarda quanto sia difficile e scoraggiato, anche alla luce di questa manovra, l’uso della contraccezione d’emergenza ci è fornito da Obiezione Respinta, una piattaforma autogestita ideata un anno fa da un collettivo femminista di Pisa che fornisce indicazioni pratiche sugli orari dei consultori, sulla presenza o meno di obiettori e, appunto, su farmacie in cui trovare o meno la pillola del giorno dopo. Sono circa 600 ad oggi le segnalazioni arrivate da tutta Italia attraverso i social, come via mail, la metà delle quali riguarda le farmacie dov’è difficile se non impossibile ottenere la pillola del giorno dopo o, peggio, una qualsivoglia forma di contraccettivo libere da giudizi che non ammettono repliche.

“Sul territorio pisano da dove siamo partite – racconta ad Ec Eleonora Mizzoni di Obiezione Respinta – abbiamo notato che non erano poche le farmacie che non vendevano la pillola del giorno dopo, che non avevano preservativi, per non parlare delle pressioni, i giudizi che una ragazza, una donna, subiva quando chiedeva un contraccettivo. L’obiezione di coscienza non è prevista per le farmacie, essendo la pillola del giorno dopo non un farmaco abortivo, ma fin da subito (e in circa un anno di mappatura) abbiamo notato come invece sia molto diffusa in territorio italiano. Molto spesso ci capita che alcune ragazze ci chiamino per sapere a che medico o ospedale possono rivolgersi senza il rischio che si trovino davanti un obiettore, o di subire violenza ostetrica. In questi casi o utilizziamo i dati che abbiamo con le segnalazioni, oppure ci rivolgiamo a strutture, collettivi, associazione femministe che lavorano su quel territorio e che possono, oltre a dare informazioni, anche aiutare la ragazza di persona. Sono le stesse Agenzia italiana del farmaco (Aifa) e Agenzia europea del farmaco (Ema) a specificare che si tratta di contraccettivi d’emergenza e non di un metodo abortivo. Solo questo dovrebbe essere sufficiente a fugare ogni dubbio sul fatto che nessun farmacista possa in alcun modo rifiutarsi di vendere tale farmaco, altrimenti potrebbe fare lo stesso con qualsiasi altro contraccettivo. A farne le spese, i diritti, la salute e l’autodeterminazione delle donne, le quali si ritrovano a non poter gestire liberamente la propria sessualità. Non si parla nemmeno della possibilità di interrompere la gravidanza, ma dell’accesso alla contraccezione d’emergenza”.

Del resto, secondo un’indagine dell’Osservatorio nazionale sulla salute della donna e di genere (Onda) l’87% delle donne italiane sono consapevoli dell’esistenza della contraccezione d’emergenza, ma solo la metà sa che va assunta il prima possibile dopo il rapporto sessuale non adeguatamente protetto. Nonostante le maggiorenni possano acquistare i farmaci per la contraccezione d’emergenza senza ricetta medica, ancora 1 donna su 3 non sa che è possibile farlo in farmacia e parafarmacia, con il 9% che pensa che sia dispensata solo in ospedale, e oltre un’intervistata su 2 non è al corrente che la prescrizione medica serva solo per le minorenni.

“La contraccezione d’emergenza – sottolinea Francesca Merzagora, presidente dell’Osservatorio nazionale salute della donna – è un presidio di prevenzione validato e conosciuto, ma, alla luce dei dati, emerge come questo diritto sia fortemente messo in discussione, c’è una sorta di blackout della comunicazione sulla contraccezione d’emergenza che porta a credere erroneamente che l’azione del farmaco sia assimilabile ad un aborto. L’insufficienza dell’informazione sulla contraccezione, in particolare su quella d’emergenza, continua ad essere la maglia debole della catena e di fatto questo rappresenta un fallimento verso qualsiasi forma di prevenzione e pianificazione della salute sessuale”.

Che “laici e cattolici debbano contribuire alla riduzione della gravidanza indesiderata e dell’aborto volontario estendendo la contraccezione d’emergenza” ne parla anche Emilio Arisi, Presidente della Società Medica per la Contraccezione che ci dice “le informazioni dovrebbero entrare di diritto all’interno dei curricula formativi scolastici pur con un dettaglio di informazioni modulato in relazione con le classi di età. La pillola del giorno dopo è un farmaco sicuro, e dovrebbe essere gratuito, per tutte le donne”.  In Francia, per esempio, la contraccezione emergenza può essere distribuita nelle scuole dalle infermiere gratuitamente e in modo anonimo già dal 2002, e nelle farmacie le minorenni possono avere gratuitamente ogni contraccettivo dal 2013. Secondo Arisi una politica laica della contraccezione consentirebbe anche un risparmio economico per il servizio sanitario nazionale, su cui gravano i costi delle interruzioni volontarie di gravidanza. La SMI ha, infatti, calcolato che si recupererebbero dai 7 ai 10 milioni di euro, risorse che potrebbero essere investite in campagne informative e nella prevenzione. La Gran Bretagna ha calcolato che investendo 1 sterlina nella contraccezione circa 10 ne vengono risparmiati sull’intero sistema sanitario nazionale.

Di appropriatezza di prestazioni in una generale idea di salute riproduttiva che liberi la sessualità dalla paura, legandola invece alla consapevolezza e alla libertà di scelta (la regione Lazio ha bloccato per esempio il progetto avanzato per la sperimentazione dell’IVG farmacologica nei consultori) parla Michele Grandolfo, epidemiologo, già dirigente di ricerca dell’Istituto superiore di sanità (ISS) e per anni direttore del reparto di salute della donna e dell’età evolutiva, oggi in pensione, ma lucidissimo nelle considerazioni sui limiti che hanno sempre messo in discussione quello che lui definisce l’empowerment delle donne, puntando il dito contro interessi economici e sprechi sanitari attorno alla salute della donna.

“Nessuno parla della scelte delle donne e nessuno parla di garanzia del servizio: voglio ricordare che l’interruzione di gravidanza non è una concessione, anche se in molti la considerano tale. Si dice comunemente che il medico certifica o autorizza, ma è la donna che sceglie, il medico dovrebbe limitarsi ad attestare. Il fenomeno dell’obiezione di coscienza presenta sfaccettature che di scelta etica hanno poco a che vedere. Le donne sono soggetti forti, vanno favorite le loro competenze. Ma spesso l’obiezione è invocata per le ragioni più assurde. Non dovremmo mai dimenticare che chi svolge una funzione pubblica non può limitarsi a dire “sono obiettore” (ove sia consentito), ma deve garantire il servizio. Ha l’obbligo di prendere in carico la richiesta, e se lui non è disponibile deve trovarne un altro operatore sanitario. La situazione appare però fuori controllo. È una responsabilità politica far applicare le leggi. Quella amministrativa è invece di farlo nel modo più appropriato. Quella dirigenziale, infine, è di garantire che l’intervento avvenga nei tempi e nei modi raccomandati. Il risultato dovrebbe essere la garanzia del massimo di sicurezza e benessere – con il minimo della spesa. Finché restiamo sul piano della discussione morale non sembra esserci alcuna prospettiva di miglioramento. Potrebbe forse cambiare qualcosa se cominciassimo a ragionare sul risparmio economico?”

Grandolfo si riferisce in particolare ai consultori: “Doveva esserci un consultorio ogni 20.000 abitanti, in realtà, la legge non è mai stata attuata; i consultori sono in media uno ogni 100.000 abitanti. Non solo in questi ultimi anni si è cercato di trasformare quei pochi attivi in agenzie dei “movimenti per la vita” stravolgendone quel ruolo fondamentale di sostegno «per conseguire le finalità liberamente scelte in ordine alla procreazione responsabile nel rispetto delle convinzioni etiche e dell’integrità fisica degli utenti», previsto dalla legge 405/ 1975 che li ha istituiti come «servizio di assistenza alla famiglia e alla maternità»; «per la preparazione alla maternità ed alla paternità responsabile», dando «informazioni idonee a promuovere, ovvero a prevenire la gravidanza, consigliando i metodi ed i farmaci adatti a ciascun caso».

Organizzare in forma integrata i servizi direttamente implicati nell’applicazione della legge 194/78 richiede solo volontà politica, alla luce delle informazioni e delle risorse disponibili. I consultori familiari – dice ancora Grandolfo – sono stati tanto boicottati perché promuovono interventi per ridurre le malattie e di conseguenza la spesa sanitaria. Il problema è che i sistemi sanitari pubblici universali non sono sostenibili se non si controlla l’espansione dell’inappropriatezza. In Italia l’85% delle interruzioni volontarie di gravidanza viene praticata in anestesia generale, che secondo evidenze statistiche aumenta i rischi per la salute, mentre quella locale li riduce”.

Da anni Grandolfo pone infatti la questione di come sia applicata in modo inappropriato economicamente la 194: il problema dell’obiezione di coscienza si ridurrebbe drasticamente, per esempio, se si impiegasse l’anestesia locale – raccomandata e praticata a livello internazionale per la tutela della salute della donna – piuttosto che l’anestesia generale, che richiede più personale per esempio anestesisti, più strutture e infrastrutture, soprattutto se condivise con altre attività; se si estendesse l’offerta dell’aborto medico (farmacologico); se si estendesse, come raccomandato e praticato l’aborto medico fino alle 9 settimane gestazionali, invece dell “inconcepibile” limite fissato in Italia a 7 settimane.

“Le pratiche inappropriate non solo rappresentano sprechi di risorse, ma sono sempre associate a danno di salute. L’inappropriatezza si mangia almeno il 30% delle risorse e l’assenza della valutazione permette ruberie, corruzione e sprechi: facciamo qualche esempio. Il 70% delle IVG potrebbe avvenire in anestesia locale. Oggi è vero il contrario come ho detto sopra. L’anestesia generale richiede strutture di terzo livello, con camera operatoria e anestesista: un ricovero ospedaliero con un tale impegno strutturale costa moltissimo (a questo dobbiamo aggiungere moltissime analisi – spesso superflue – e l’impegno della camera operatoria). Per l’IVG è sufficiente una struttura ambulatoriale o un presidio ospedaliero con costi nettamente inferiori. Quanto si risparmierebbe? IVG in generale vs IVG in locale: circa 150 milioni di euro l’anno. Se fossero anche solo 100 milioni, penso io. Se poi moltiplichiamo il possibile risparmio annuale per tutti gli anni che la legge è stata in vigore forse potremmo salvare non solo l’Italia ma tutta l’Europa. Se poi pensiamo alla RU486, i costi si abbatterebbero ancora di più. Ma non è solo una questione di costi: è una questione di offrire i migliori servizi. L’approccio del Ministero della salute al problema dell’obiezione di coscienza non è mai stato realistico, perché la congruità tra risorsa disponibile e risorsa necessaria deve essere valutata a livello locale e non su una media astratta ignorando il fatto che il personale che garantisce le cure non è diffuso in modo omogeneo”.

L’inappropriatezza è stata più volte denunciata dall’Iss, fin dagli inizi degli anni ‘80. Come ci ricorda Grandolfo, menzionando il lavoro fatto da Simonetta Tosi che ha passato la sua vita lavorativa cercando di modificare questa situazione. “Tra l’altro – aggiunge Grandolfo – qualcuno mi spieghi dove sta l’etica quando le scelte sono obbligate. Chi vuole seguire un’impostazione ideologica lo faccia pure, ma quando accredito un servizio di sanità pubblica che risponde ad una ideologia ho minato i fondamenti della sanità pubblica”.

Di mine sulla sanità pubblica parla anche Elisabetta Canitano, ginecologa e Presidente di Vita di Donna da sempre in prima linea nella difesa dei diritti delle donne e sulla laicità delle cure, e che ha portato anche a teatro con Io Obietto non solo il tema dell’obiezione di coscienza (il testo si ispira alla storia tragica di Valentina Milluzzo, una giovane donna alla 19 settimana, che morì nel 2016 devastata da più di 15 ore di setticemia, nell’ospedale di Catania dopo diversi giorni di ricovero, in una sequenza di eventi in cui malasanità, omissione di soccorso, obiezione di coscienza si mescolano tra loro finchè “non si ferma il battito della vita”), ma anche quello dell’influenza della Chiesa sul sistema sanitario nazionale “che sta depauperando – come ci spiega – tutti i presidi di prossimità, come quelli di emergenza urgenza. Il servizio pubblico deve riprendersi il controllo e la capacità di finanziamento delle proprie strutture. La nostra sanità pubblica vive affamata mentre un fiume di soldi arriva direttamente alla sanità privata e convenzionata, usando la scusa del pareggio di bilancio. Faccio un esempio: in tutta Italia nei reparti dei punti nascita religiosi, e dei punti nascita a schiacciante maggioranza religiosa, si usa quella frase “non si ferma il battito della vita” per mettere a rischio le donne. Anche quando è evidente che la gravidanza è ormai irrimediabilmente compromessa, come nel caso di Valentina, con feti che secondo i protocolli internazionali, non vanno rianimati in quanto incompatibili con la sopravvivenza”.

Gli esempi che fa Elisabetta Canitano, da qualcuno definita Trotula* per le sue battaglie sull’autodeterminazione, sono in realtà moltissimi: il potere del Moige (Movimento italiano dei genitori), l’invadenza del Campus Bio-medico (Università Campus Bio-Medico di Roma è un’università privata italiana nata nel 1993 e legata all’Opus Dei), la sistematica distribuzione di primari “cattolici” in tutti gli ospedali pubblici della regione…

In un altro articolo la Canitano ha raccontato per filo e per segno come è stata lasciata morire Valentina, in nome di un mantra che “è privo di qualsiasi senso clinico” che, tutti i giorni, infligge rischi alle donne. Quelle che aspettano, come quelle che scelgono, e ne hanno diritto, di non aspettare mai.

*ginecologa dell’XI secolo, autrice di numerosi trattati di ostetricia e ginecologia, arrivati sino a noi solo perché attribuiti al marito, medico, Giovanni Plateario

DA SAPERE
Si stima che 225 milioni di donne in tutto il mondo non abbiano accesso ai moderni metodi di contraccezione di base, aspetto che comporta frequentemente gravidanze non pianificate. A causa di aborti non sicuri, ogni anno muoiono circa 47 mila donne e altri 5 milioni soffrono di invalidità temporanea o permanente. Sono alcuni dei dati che l’Ufficio dell’Alto Commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite (UN Human Rights) ha pubblicato in occasione dell’edizione 2018 della Giornata internazionale per l’aborto sicuro (International Safe Abortion Day) che si è svolta lo scorso 28 settembre. L’Onu ha sottolineato come i dati dell’Oms hanno chiaramente dimostrato che la criminalizzazione dell’interruzione volontaria di gravidanza non riduce il numero di donne che ricorrono all’aborto, ma ha come conseguenza il loro ricorso all’aborto clandestino e insicuro. È tra l’altro noto che i tassi di aborto più bassi si registrano nei Paesi in cui le donne possono avere accesso a informazioni e a tutti i metodi di contraccezione.
Sul fronte dei costi, va detto che quelli relativi ai contraccettivi non sono trascurabili. Per farsi un’idea, basta dare uno sguardo all’offerta sul mercato. Una spirale terapeutica o medicata (Ius), costa 250 euro e ha una durata di 5 anni, più il ticket per l’inserimento. Stessa cosa per l’inserto sottocutaneo, che in Italia dura 3 anni per 195 euro (più il costo del ticket per applicarlo). Più economica la spirale al rame (Iud), che va dai 40 ai 70 euro più il ticket e il costo della visita, per la durata di 5 anni. Altri costi, però mensili, hanno le pillole, gli anelli vaginali e i cerotti, che vanno dai 7 ai 20 euro, ma che moltiplicati per la durata di un anno, arrivano comunque tra 100 e i 200 euro. Solo per fare qualche esempio, in Belgio, Francia e Regno Unito esistono i rimborsi per diverse tipologie di contraccettivi, ci sono politiche per facilitare l’accesso alla contraccezione di giovani e donne a basso reddito, oltre a siti web sull’argomento. Requisiti assenti in Italia, che non è tra gli 11 Paesi che offre gratuitamente mezzi di contraccezione.
Uno Studio del Choiche Project su 10mila donne nell’area di Saint Louis in Usa del 2012, ha dimostrato l’efficacia del mix di informazione, counseling e gratuità. Le ragazze, molte studentesse universitarie, hanno potuto scegliere tra tutti i metodi contraccettivi senza badare al prezzo, e il 75 per cento di loro ha scelto i cosiddetti Larc (reversibili di lunga durata come le spirali e gli impianti sottocutanei).
https://estremeconseguenze.it/2018/11/09/litalia-non-e-un-paese-per-donne/?fbclid=IwAR0uODb-Yy0qkm4IgDL2mupqqewE3_emDEF84tnJQjucIXHBgiu5oWGDyZ8

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