giovedì 9 maggio 2019

Il bisogno della storia delle donne Maria G. Di Rienzo

Le donne hanno governato e profetizzato, hanno coltivato e costruito, creato arte e scienza, lottato per i loro diritti e per i diritti dei loro popoli. Sono state diplomatiche e spie, sacerdotesse e mediche, reazionarie e rivoluzionarie, guerriere e pacifiste. C’erano sempre, eppure le «cronache ufficiali» hanno rimpiazzato la loro storia con un elenco interminabile di uomini nel quale fa capolino ogni tanto una regina o una cortigiana. La storia delle donne, avverte Maria G. Di Rienzo, femminista e pacifista, non si può trovare con il solo ausilio dei libri, va ricercata in storie orali, nelle fiabe e nei miti, nelle lettere e tra i reperti archeologici. Una storia interdisciplinare di chi la vita la dà, la nutre, la gode e mette in questo modo sottosopra la storia nota, quella fatta solo di guerre e di conquiste economiche. Ecco perché abbiamo bisogno della storia delle donne.
Relazione nell’Incontro nazionale separato Memoria collettiva, Memoria femminista, organizzato a Roma il 15 dicembre 2012 da Coordinamenta femminista e lesbica di Roma nella sezione  Trasmissione della memoria.

Circa dieci anni fa, tenevo un corso di storia delle donne nella mia città. Lo avevo basato su alcune figure storiche non molto indagate, e poco considerate nonostante la loro importanza, in vari campi dello scibile umano. Nell’incontro dedicato a Ipazia di Alessandra, in cui il mio scopo era parlare di donne e scienza, citai la vicenda di Maria Gaetana Agnesi (foto a lato), l’inventrice o la scopritrice (a seconda di come si veda la matematica) della Curva di Agnesi. Si tratta di una funzione matematica rappresentata graficamente come un «cappello di strega», il che tra parentesi me la rende simpatica anche se sono negata per i numeri.

Una donna fra il pubblico fece un salto sulla sedia e mi interruppe. Era eccitata e commossa. «Io sono un’insegnante di matematica – disse – Ho studiato la “Curva di Agnesi”, ma nessuno mi aveva mai detto che Agnesi era una donna». Perché l’amica fra il pubblico provava un’emozione così forte? Perché aveva dovuto combattere per tutta la vita con gli stereotipi di genere, i quali sostenevano (e sostengono) che le donne non sono portate per le scienze esatte e che quindi lei sarebbe stata un fallimento se si fosse dedicata a ciò per cui provava interesse. E perché nessuno le aveva mai detto che «il matematico italiano Agnesi» era femmina? Perché senza queste omissioni intenzionali nella narrazione storica risulterebbe chiaro che le donne hanno determinato quanto gli uomini il corso degli eventi e le forme dell’umana cultura. Nel bene e nel male, a seconda di che significato si voglia dare a questi due termini. Abbiamo governato, profetizzato, fondato stati, abbiamo coltivato e costruito, creato arte e scienza, lottato per i nostri diritti e per i nostri popoli. Siamo state diplomatiche e spie, sacerdotesse e mediche, reazionarie e rivoluzionarie, guerriere e pacifiste. C’eravamo, sempre. Ma le «cronache ufficiali» ne tengono scarso conto. La nostra storia è stata rimpiazzata con un elenco interminabile di uomini in cui fa capolino ogni tanto una regina o una cortigiana.

Io ricordo con precisione il mio primo incontro con la storia che si insegna a scuola. All’inizio di tutto sta una figurina sul sussidiario delle elementari: un disegno che avrebbe dovuto rappresentare la preistoria, la vita dei nostri antenati cavernicoli. In primo piano c’è un uomo che lavora una scheggia di selce, in secondo piano un gruppo di uomini insegue un dinosauro con le lance, e sullo sfondo, in lontananza, donne e bambini stanno attorno a una pentola sul fuoco, all’imboccatura della caverna. Osservando le punte delle lance degli improbabili cacciatori si capiva subito che erano punte di selce come quella in primo piano. Il messaggio d’insieme era inequivocabile. Il suo primo tratto era: agli uomini il fuori, l’attività, la lotta, il provvedere sostentamento; alle donne il dentro, la cucina, la cura, i bambini. Il secondo tratto: i primi manufatti umani sono stati pensati solo dai maschi, e principalmente per uccidere. Il terzo tratto: in tutto ciò vi è una gerarchia valoriale, e cioè quel che gli uomini fanno è in primo piano, importante e fondamentale per la civiltà, quel che le donne fanno è meno importante, sta sullo sfondo.

Per circa 4.000 anni alle donne si è raccontata questa favola. Tramite la storia, ma anche tramite la letteratura, la storia dell’arte, e tramite religioni e leggi e usi e costumi. In molte ci crediamo ancora e la perpetuiamo. In molte ci abbiamo creduto, per poi scoprirne i limiti e le menzogne e contestarla. In molte non ci abbiamo mai creduto, e alcune hanno indagato le origini della favola e altre no. Ed è grazie a coloro che si sono prese la briga, e credo anche il gusto, di indagare che noi oggi sappiamo che non è andata come nella rappresentazione grafica che vi ho descritto, e che ad esempio dalla nostra comparsa sul pianeta circa 990.000 anni orsono, per i primi 900.000 anni non abbiamo mangiato carne, e quando ci siamo decisi a farlo le «cacce» non erano ai dinosauri, ma a vermetti, lucertole e animali di piccola taglia. E sempre sulla scala dei 990.000 anni la guerra abbiamo cominciato a farla circa 5.000 anni fa, quindi non c’è modo di considerarla il motore della civiltà e della storia. Se l’umanità è sopravvissuta ai disastri naturali e poi a quelli orchestrati dall’umanità stessa è in virtù della cooperazione e della condivisione, che sono poi i tratti originari delle più antiche civiltà che conosciamo.

Io sono comunque una di quelle donne a cui la favola non suonava giusta, fin da piccola (soprattutto perché produceva un ammontare allucinante di sofferenze). Così mi sono domandata: Eva ha mangiato la mela della conoscenza e poi ha avuto una crisi d’amnesia? È vero che tutto quello che uso, dalla lingua agli attrezzi, è frutto della genialità di una sola parte dell’umanità, mentre l’altra scodellava marmocchi e restava a guardare? Ora, a scanso di equivoci, chiarisco subito che produrre deliziosi marmocchietti e marmocchiette e aver cura di loro, aiutarli a crescere, eccetera, qualora tu lo voglia, ne ricavi piacere e senso, e possa gestire senza intralci la tua fertilità, è semplicemente il continuare la vita umana sulla terra, e direi che è un lavoretto importante.

Comunque, per rispondere alle domande di cui sopra sono diventata una studiosa di storia, e nello specifico di storia delle donne. Che è materia necessariamente interdisciplinare perché le fonti diciamo «standard» sovente non forniscono alcuna informazione sulle vite delle donne e quel poco che si trova è altrettanto sovente venato da pregiudizi, visto attraverso gli occhiali degli stereotipi di genere e in tal modo narrato. La storia delle donne non si può trovare, e non si può raccontare, con il solo ausilio dei libri sugli scaffali, ma necessita che con la stessa accortezza si valutino le storie orali e il folclore, le fiabe e i miti, i diari e le lettere, i reperti archeologici, eccetera. Questo perché cancellazioni e dimenticanze intenzionali, e proibizioni vere e proprie, hanno posto tutta una serie di dati e testimonianze fuori dall’ufficialità. Alle donne europee non fu consentito neppure consultare biblioteche e fonti documentali sino al XVIII secolo e in molte università, europee e non, alcune biblioteche resteranno chiuse all’ingresso delle donne sino al XX secolo (che è l’altro ieri, tanto per dire). Il mio percorso di ricerca ha seguito, senza volerlo ma fedelmente, quello che è stato il percorso della storia delle donne in senso ampio: il recupero della cultura e della simbologia femminile, l’indagine sui modi e sulle cause dell’oppressione storica delle donne, l’indagine su come l’assortimento di ruoli di genere assunti di volta in volta da uomini e donne, in società e periodi diversi, funzioni come mantenitore dell’ordine sociale o innovatore e trasformatore dello stesso. Più di trent’anni di studi di genere, in tutto il mondo, hanno prodotto una mole immensa di lavoro, di cui però, tristemente, si continua a usufruire molto poco se si eccettuano alcuni ambiti specializzati.

In Italia, poi, rispetto ad altri paesi europei o agli Stati uniti, abbiamo qualche difficoltà particolare nel gestire la faccenda. Un problema sono le esternazioni di alti esponenti del Vaticano, i quali periodicamente (l’ultimo di cui io so è il messo papale Cordes, la data è il 4 febbraio scorso) attaccano il concetto di «genere» come la fonte di ogni male per gli esseri umani di sesso maschile: sapere che i ruoli vengono dalla socializzazione degli individui e non dalla biologia è cosa che secondo il Vaticano ha castrato i maschi (sono le esatte parole del messo), li ha svirilizzati, li induce a lasciare le proprie famiglie, a commettere crimini e addirittura a suicidarsi. Naturalmente la colpa è delle femministe, ed eroicamente lo stato vaticano si oppone a questa tragedia rifiutando ad esempio di firmare la Cedaw, ovvero la Convenzione per porre fine a tutte le discriminazioni contro le donne del 1979, e attaccando, quando può, i paesi che stanno per firmarla (ne mancano un po’ fra le nazioni del mondo, fra cui gli Stati uniti, anche se Obama ha detto che la firmerà).

In realtà, queste esternazioni non sarebbero un problema, per gli studi di genere, se a esse non fosse accoppiato un alto grado di sudditanza da parte delle gerarchie politiche italiane. Per cui qualsiasi cosa un cardinale, un vescovo o il papa dicano i politici di tutte le parti si affrettano a dichiararsi d’accordo o ad assicurare che ne verrà tenuto debito conto, e poiché la maggior parte di quel che passa nelle scuole lo decide il ministero della Pubblica istruzione credo che prima di vedere l’educazione al genere come materia della scuola dell’obbligo, o la proliferazione di studi di genere nelle università italiane, dovrà passare ancora del tempo.

Un secondo problema riguarda specificatamente gli studi sulle società matrilineari. C’è una sorta di rigetto, da parte di molte donne magari interessate a periodi storici e studi storici diversi, ed è un rigetto che ha motivazioni molteplici, ma per farla breve il principale è la presenza, o la menzione, di un sacro o di un divino femminile. Tante non ne vogliono sentir parlare perché l’associazione che fanno subito, mentalmente, è quella di un rovesciamento speculare di ciò che conoscono come religione: e poiché ciò che conoscono come religione non è di solito affermativo o positivo per le donne, il loro rifiuto ha una sua logica. Comunque, non abbiamo tracce di oppressione semplicemente rovesciata di segno in nessuna delle società umane più antiche di cui abbiamo evidenza scientifica, e la presenza di questo divino femminile non si può paragonare in alcun modo alle religioni monoteiste organizzate odierne. Il solo nominare la spiritualità però tende a mettere a disagio alcune persone, soprattutto negli ambiti politici della sinistra, ed è per questo che una partecipante a un circolo di streghe, formatosi nell’ambito di un partito di sinistra, mi ha detto: Facciamo queste cose, ne ricaviamo senso, piacere e conoscenza, indaghiamo la nostra storia passata, ma non ne parleremmo mai con i nostri compagni. Io credo che queste donne sarebbero d’accordo con Bonnie Raitt, quando dice: La religione è per le persone che hanno paura di andare all’inferno, la spiritualità è per chi all’inferno c’è già stato.

Il terzo problema riguarda la legittimazione. E cioè hanno status e valore solo i prodotti che provengono da determinate associazioni, o da particolari persone, o che possono vantare la presentazione o la prefazione di tal madrina o tal padrino. Sarà che in Italia siamo tutti un po’ mafiosi, ma il problema in sostanza è che non si riesce a far senso comune delle cose che gruppi e individui elaborano sulla storia delle donne anche a causa di veti e scomuniche.

Alla bambina, o al bambino, che oggi chiedono «Perché non posso far questo e perché devo far quello? Perché va così?», si risponderà ancora, spesso, «Perché è sempre andata così». E se i piccoli seccatori insistono si potrà aggiungere «Queste sono le nostre sacre e originarie e pure tradizioni (laiche o religiose non importa, il confucianesimo è un esempio di patriarcato laico che non ha bisogno di dio per stabilire una gerarchia). Per cui noi facciamo le cose in questo modo e tu ti adegui».

Ma c’è un problema. Chi può davvero dire quando le nostre pure e sacre tradizioni hanno avuto inizio? Vi svelo uno schemino sociologico. Per dare a un uso lo status di «sacra tradizione» ci vogliono grossomodo tre generazioni. La prima è quella dei pionieri, diciamo così, quelli e quelle che stabiliscono: da oggi, nel nostro gruppo la tal cosa la facciamo così. Sono degli innovatori, sostanzialmente: tutti i profeti delle maggiori religioni monoteiste hanno stabilito nuovi costumi atti a sostituire quelli che c’erano già. Se chiedete ai pionieri perché la tal cosa la fanno così, risponderanno: il nostro profeta ci ha detto… è la volontà di dio… i saggi anziani hanno deciso… eccetera, eccetera. Non parleranno di tradizioni, perché sono ancora tutti vivi coloro che potrebbero rispondergli: col fischio che questa è la nostra tradizione, è da giovedì scorso che abbiamo deciso questa cosa. Allora passiamo a chiederlo alla generazione successiva: la quale, ancora, non si azzarderà a parlare di tradizione sacra del nostro popolo, dirà di usi e costumi appresi dai padri e dalle madri. È vero, ammetteranno magari, prima facevamo in altro modo, ma era un modo impuro, eretico, pagano, sbagliato, socialmente dannoso o che ne so: l’uso derogatorio del linguaggio comincia a erodere i fatti, a mischiare interpretazioni, a costruire leggende. Ma è solo con la terza ondata, diciamo così, che la memoria di ciò che è stato precedentemente, a livello storico, scompare. I nipoti dei pionieri risponderanno alla domanda «perché fate così» con: perché abbiamo sempre fatto così, sono le nostre sacre tradizioni! Marlene Starr, per farvi un esempio, è una discendente degli abitanti originari del Canada, gli indiani canadesi se volete. Se voi oggi esaminate le relazioni tra i sessi nel suo gruppo osserverete uno sbilanciamento a favore degli uomini, la specializzazione dei ruoli, un discreto tasso di violenza di genere. Potreste concludere che sono le loro tradizioni e che volete rispettarle. Ecco però cosa racconta Marlene: «Nelle società aborigene tradizionali, donne e uomini avevano ruoli di eguaglianza. Questo è stato distrutto dal colonialismo, in special modo dall’Indian Act che ha creato e stabilito le scuole che noi dovevamo frequentare. Ci è stato ossessivamente ripetuto, in queste scuole e altrove, sia tramite insegnamenti diretti, sia tramite la proposta di modelli, che dovevamo accettare come giusta e inevitabile l’inferiorità delle donne. La filosofia de “la forza fa il diritto” ha fatto danni incommensurabili alle nostre comunità, e ci vorranno anni di ri-socializzazione prima che noi si possa riacquistare l’equilibrio che avevamo prima».

Generalmente le donne sono state addestrate a non aver relazione con la storia, e a non reclamarla per se stesse. La mancanza di una consapevolezza storica ottiene che le donne continuino a fare tutto, invece di cambiare tutto. L’equazione è semplice: se sei senza passato, sei pure senza futuro. Ci sono quattro modi principali in cui la nostra cultura si impegna contro la consapevolezza storica delle donne. Il primo è la ferma omissione delle donne dalla storia presente, ovvero dalle notizie. Circa il 15 per cento dell’informazione di cronaca riguarda le donne, usualmente come vittime di violenza o come autrici di crimini. Chiunque abbia mai organizzato qualcosa sulle donne e per le donne e delle donne lo sa: se non hai l’aggancio giusto o il seno scoperto sei invisibile. Il secondo modo, complementare, è l’omissione della storia dai giornali e dagli inserti cosiddetti «femminili» (quelle cose che si chiamano «Donna e Mamma», «Donna Moderna» e così via). Si ha, leggendoli, la curiosa sensazione che il tempo non esista. Un cronosisma, come avrebbe detto Kurt Vonnegut. Qui le notizie sono pettegolezzi, chi ha sposato chi, chi ha lasciato chi, eccetera. Il tuo destino come donna è sicuramente nelle tue mani: ci sono diete per te, e cosmetici per te, e test per insegnarti ad acchiappare il principe azzurro. Non hai passato, non hai futuro, è un eterno presente nella casetta di Barbie. Dal che emerge semplicemente il terzo tipo di pressione: ovvero il tema ideologico che se le donne si prendono sul serio perdono la loro femminilità. Questo è un tema ricorrente e sempreverde. Ho perso il conto degli studi psico-socio-tuttologi creati per spiegarci che abbiamo voluto tutto, e quindi abbiamo perso la nostra vera natura, siamo diventate uomini, abbiamo messo in crisi gli uomini e quindi gli uomini scappano da noi e il nostro orologio biologico ticchetta impazzito, solo e triste. «Ormai comandano le donne», di sicuro l’avete sentito o letto da qualche parte. Pensate che qualche tempo prima di Cristo lo diceva pure Catone il censore, e non avrete bisogno che sia io a dirvi che è propaganda. E per chi crede che il termine post-femminismo sia qualcosa di vent’anni fa rendo noto che esso fu coniato già nel 1919, per dare l’avvio a una campagna di denigrazione delle suffragiste.

Il quarto modo in cui la nostra cultura si impegna contro la consapevolezza storica delle donne è l’erosione della memoria. I libri di testo non riportano la storia delle donne, i media non la conoscono, l’arte la ignora. In grazia di ciò, molte giovani pensano che la discriminazione sessuale sia cosa che non le riguarda direttamente. O che il diritto di voto l’hanno sempre avuto. O che sia sempre stato legale interrompere una gravidanza e divorziare. Ignorano tutte quelle madri, reali e simboliche, che si sono incatenate davanti ai parlamenti, che hanno fatto scioperi della fame, che si sono autodenunciate per aver abortito (anche quando non era vero), che hanno scritto e parlato e proposto e perseverato. E così queste ragazze, quando si trovano di fronte alla lettera di dimissioni in bianco da firmare per essere assunte, o quando al colloquio di lavoro chiedono loro se sono fidanzate o se pensano di far figli sono seccate, ma sono soprattutto scioccate. E pure quelle che non si arrendono, non avendo passato sono costrette ogni volta a ripartire da zero, a reinventare modelli di attivismo e di resistenza, o a fare affidamento su modelli altrui. Questo è il rischio nel rimanere indifferenti alla nostra propria storia: perdere quel che abbiamo ottenuto, e consegnare un futuro indecente alle bambine di oggi. Forse impareremo, prima o poi, a onorare le nostre eroine, magari mentre sono ancora vive, a pretendere le loro facce sui francobolli, e le loro vicende nella narrazione storica, di modo che le nostre figlie abbiamo qualcosa di meglio da sperare che diventare veline.

Spero non vi urti se a questo punto vi recito parte di una poesia. Sono versi del primo poeta della storia umana, della cui esistenza storica siamo scientificamente certi; una persona che visse, scrisse e insegnò 2.000 anni prima di Aristotele. I 153 versi originari furono vergati in caratteri cuneiformi su tavolette di creta e potevano essere letti sia dall’alto in basso che trasversalmente.

Sapiente, Saggia, Signora di tutte le terre,

che fai moltiplicare ogni creatura vivente e le genti,

io ho reso nota la tua canzone sacra.

Dea che dà la vita, appropriata per me,

di cui si acclama.

Compassionevole, donna che dà la vita, cuore raggiante,

io ho detto questo in tua presenza, in accordo con i divini poteri.

Di fronte a te sono entrata nel luogo sacro del tempio.

Io, l’Alta Sacerdotessa, Enheduanna,

reggendo il cesto delle offerte, ho liberato la mia voce in un canto gioioso.

(…) Mia signora, io proclamerò la tua grandezza in ogni paese.

Il tuo sentiero e le tue azioni loderò per sempre.

Io sono tua! E lo sarò per sempre.

Io, Enheduanna, l’Alta Sacerdotessa della Luna.

Di sicuro a scuola vi hanno parlato dell’alfabeto cuneiforme sumero. Fu creato attorno al 3200 a.C., specificatamente per ragioni contabili (quante pecore, quanti vasi, e via così). Le prime tavolette che contengono liste di nomi datano a circa cento anni dopo. Quando Enheduanna compone le sue poesie (che venivano cantate) la scrittura nel suo paese, l’odierno sud dell’Iraq, ha circa 350 anni e gli ideogrammi sono una novantina. Le precedenti tavolette che abbiamo sono del tutto anonime: Enheduanna è la prima a identificare se stessa nello scritto, ed è la prima a scrivere poesia. Di sicuro a scuola non vi hanno parlato di lei. Il primo poeta della storia umana è una donna. Lo sappiamo dal 1927, ma non sono notizie da dare alla leggera, forse ci stanno ancora pensando su: a che età inserire l’informazione per non sconvolgere le giovani menti? Gli scolaretti potrebbero restare turbati? Le scolarette potrebbero diventare arroganti? Naturalmente nessuno si fa mai gli scrupoli al contrario, e cioè se a sentire ripetere a oltranza «le conquiste dell’uomo», «le scoperte dell’uomo», «le invenzioni dell’uomo», le scolarette pensino di non esistere, o che le donne non sono mai esistite, o che l’essere femmine dev’essere una disgrazia o cattivo karma per le dissolutezze della loro vita precedente.

Scherzi a parte, sono al termine del mio intervento e poiché la forma del cerchio è quella che mi piace di più, tanto che anche il mio corpo tende ad assomigliarle, vorrei chiudere come ho aperto, e cioè con Maria Gaetana Agnesi. Siamo nel 1700, ci sono sette sorelle e un padre che crede nell’istruzione femminile, tant’è che una sorella di Maria Gaetana, Maria Teresa, diventerà anch’ella famosa, come musicista. I maligni dicono che se il padre avesse avuto anche un solo figlio maschio non avrebbe riversato tanta ambizione sulle figlie: comunque, era deciso a «dimostrare» che le donne potevano fare matematica e scelse Maria Gaetana per la sua dimostrazione. Come sappiamo, la ragazza si rivelò più che eccellente in tal campo. Ma quando suo padre morì, Maria Gaetana abbandonò gli studi matematici per fare quello che le piaceva fare, e che sentiva giusto fare, e cioè aiutare gli altri, in particolare le altre donne, a stare meglio. Così si dedicò ad aprire ospedali e asili e in genere a prestare assistenza. Non sappiamo quante vite abbia salvato, e se non fosse per il «cappello da strega» non conosceremmo neppure il suo nome. È l’incursione in un campo considerato «maschile» a lasciare una tenue traccia di lei, nulla di quel che compì dopo.

Perché se la storia è solo storia di guerre, di conquiste economiche o territoriali, di imperi e contro-imperi, di grandi navigatori e nuove frontiere, di mirabolanti congegni sempre più perfetti nell’uccidere (dalla punta di selce all’uranio impoverito o al fosforo bianco), se la storia è storia di mortali e di una valle di lacrime, allora in questa storia non c’è posto per le viventi e i viventi, per chi la vita la dà, la nutre, la gode. Ecco perché abbiamo bisogno della storia delle donne.
(fonte: Womenews.net)
https://comune-info.net/2013/01/perche-abbiamo-bisogno-della-storia-delle-donne/?fbclid=IwAR3b6mwiXYnw1q4BgEGqHAyBgCvoeBIp-YotXMX_WclB7goh5cAScFamHEk

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