Succede ogni giorno.
Che firme più o meno note dei nostri quotidiani e voci più o meno
autorevoli della nostra radio deridano e insultino la presidente
della Camera, “rea” di porre l’accento su distorsioni
dell’immaginario che in altri Paesi non sarebbero mai ammesse.
Che
una scriva nei suoi articoli «la ministra» e il giorno dopo si
ritrovi sul giornale «il ministro» perché qualche solerte collega
ci ha messo le mani.
Che mentre una o uno richiama l’attenzione
sull’importanza del linguaggio e dei modelli che ogni giorno
contribuiamo a veicolare con il nostro lavoro ci sia un’altra o un
altro che prende a ridacchiare, ad alzare gli occhi al cielo e a
replicare con i soliti argomenti: “non sono questi i problemi”,
“non facciamo moralismi”.
E se invece fosse qui la chiave per
rilanciare l’autorevolezza della nostra professione?
Se partissimo
da una profonda comune riflessione sul tema dei linguaggi, ignorato,
dimenticato e dileggiato proprio da noi che con le parole e le
immagini contribuiamo a creare i codici per l’accesso delle persone
alla conoscenza del mondo?
Le spinte in questa direzione cominciano a
essere numerose: il successo di un blog come «La 27esima Ora», le
iniziative della rete Giulia, i contributi variegati del movimento
“Se non ora quando”, le indicazioni di Loredana Lipperini e
Michela Murgia per una narrazione corretta delle storie di violenza,
il lavoro documentaristico di Lorella Zanardo sul corpo delle donne
in televisione, l’occhio critico di Giovanna Cosenza, la denuncia
costante del gruppo di “Un altro genere di comunicazione”. Fino
all’appello di questi giorni della presidente Rai Annamaria
Tarantola a interrogarsi sulle strade più adeguate «per ridare
dignità alla donna agli occhi degli uomini e delle donne stesse».
Che i vertici del servizio pubblico radiotelevisivo si pongano
finalmente il problema è un segnale che non possiamo trascurare. Non
si tratta soltanto di ragionare sugli stereotipi di cui il nostro
stesso logos continua a essere infarcito: sarebbe estremamente
riduttivo. In gioco c’è una sfida più ampia e più difficile:
smarcarsi sia dal potere dominante, ancora maschile nelle logiche e
nei metodi, sia dalle subculture che spopolano incontrollate sulla
rete, a cui troppo spesso ci limitiamo a fare da cassa di risonanza,
e recuperare ai giornalisti un ruolo diverso, più credibile e di
nuovo autorevole.
Non inseguitori
trafelati di cinguettii e status, non i postini senza diritti e senza
contratti di cui parla giustamente Stefano Corradino, non i cronisti
dimezzati deplorati da Corradino Mineo. Ma «storici del presente»,
per riprendere la felice definizione di Umberto Eco: documentati e
capaci di raccontare i cambiamenti culturali in atto, a partire dalle
relazioni tra donne e uomini che stanno destabilizzando il sistema
patriarcale tradizionale. Usiamo questo tema come cartina di
tornasole della nostra tenuta: oggi come oggi stiamo dando prova di
saper tracciare la rotta del presente? O stiamo affogando arroccati
sul vecchio che affonda, paralizzati nella riproposizione di modelli
e schemi che non reggono più il confronto con il reale? Siamo
stremate e stremati dal precariato, dagli stati di crisi, da un
mercato del lavoro asfittico. E le giornaliste, ve lo assicuro,
pagano lo scotto due volte. Ma se non rialziamo la testa subito siamo
spacciati.
Sono passati 26 anni
dalle «Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua
italiana» di Alma Sabatini, nate dall’esigenza di «dare
indicazioni affinché i cambiamenti linguistici possibili registrino
correttamente i mutamenti sociali», orientandosi a favore della
donna. Ripartiamo da lì. E allarghiamo lo sguardo dai linguaggi –
i nostri, quelli dei diversi mezzi con cui lavoriamo – ai valori
intorno ai quali possiamo ritrovarci. O almeno provarci.
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