sabato 16 novembre 2013

“E se ripartissimo dal linguaggio?”di Manuela Perrone


Succede ogni giorno.
 Che firme più o meno note dei nostri quotidiani e voci più o meno autorevoli della nostra radio deridano e insultino la presidente della Camera, “rea” di porre l’accento su distorsioni dell’immaginario che in altri Paesi non sarebbero mai ammesse.
 Che una scriva nei suoi articoli «la ministra» e il giorno dopo si ritrovi sul giornale «il ministro» perché qualche solerte collega ci ha messo le mani.
 Che mentre una o uno richiama l’attenzione sull’importanza del linguaggio e dei modelli che ogni giorno contribuiamo a veicolare con il nostro lavoro ci sia un’altra o un altro che prende a ridacchiare, ad alzare gli occhi al cielo e a replicare con i soliti argomenti: “non sono questi i problemi”, “non facciamo moralismi”.
 E se invece fosse qui la chiave per rilanciare l’autorevolezza della nostra professione? 
Se partissimo da una profonda comune riflessione sul tema dei linguaggi, ignorato, dimenticato e dileggiato proprio da noi che con le parole e le immagini contribuiamo a creare i codici per l’accesso delle persone alla conoscenza del mondo? 
Le spinte in questa direzione cominciano a essere numerose: il successo di un blog come «La 27esima Ora», le iniziative della rete Giulia, i contributi variegati del movimento “Se non ora quando”, le indicazioni di Loredana Lipperini e Michela Murgia per una narrazione corretta delle storie di violenza, il lavoro documentaristico di Lorella Zanardo sul corpo delle donne in televisione, l’occhio critico di Giovanna Cosenza, la denuncia costante del gruppo di “Un altro genere di comunicazione”. Fino all’appello di questi giorni della presidente Rai Annamaria Tarantola a interrogarsi sulle strade più adeguate «per ridare dignità alla donna agli occhi degli uomini e delle donne stesse». Che i vertici del servizio pubblico radiotelevisivo si pongano finalmente il problema è un segnale che non possiamo trascurare. Non si tratta soltanto di ragionare sugli stereotipi di cui il nostro stesso logos continua a essere infarcito: sarebbe estremamente riduttivo. In gioco c’è una sfida più ampia e più difficile: smarcarsi sia dal potere dominante, ancora maschile nelle logiche e nei metodi, sia dalle subculture che spopolano incontrollate sulla rete, a cui troppo spesso ci limitiamo a fare da cassa di risonanza, e recuperare ai giornalisti un ruolo diverso, più credibile e di nuovo autorevole.
Non inseguitori trafelati di cinguettii e status, non i postini senza diritti e senza contratti di cui parla giustamente Stefano Corradino, non i cronisti dimezzati deplorati da Corradino Mineo. Ma «storici del presente», per riprendere la felice definizione di Umberto Eco: documentati e capaci di raccontare i cambiamenti culturali in atto, a partire dalle relazioni tra donne e uomini che stanno destabilizzando il sistema patriarcale tradizionale. Usiamo questo tema come cartina di tornasole della nostra tenuta: oggi come oggi stiamo dando prova di saper tracciare la rotta del presente? O stiamo affogando arroccati sul vecchio che affonda, paralizzati nella riproposizione di modelli e schemi che non reggono più il confronto con il reale? Siamo stremate e stremati dal precariato, dagli stati di crisi, da un mercato del lavoro asfittico. E le giornaliste, ve lo assicuro, pagano lo scotto due volte. Ma se non rialziamo la testa subito siamo spacciati.
Sono passati 26 anni dalle «Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana» di Alma Sabatini, nate dall’esigenza di «dare indicazioni affinché i cambiamenti linguistici possibili registrino correttamente i mutamenti sociali», orientandosi a favore della donna. Ripartiamo da lì. E allarghiamo lo sguardo dai linguaggi – i nostri, quelli dei diversi mezzi con cui lavoriamo – ai valori intorno ai quali possiamo ritrovarci. O almeno provarci.

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