giovedì 14 novembre 2013

La gentilezza è contagiosa! di Cristina Obber


BUONGIORNO!

Quando entro in un ascensore e dico Buongiorno! ad alta voce, mi pare di scuotere qualcuno dal torpore.
Stamane sono andata dal medico e anche lì la stessa storia di sempre. Sento aprirsi la porta, alzo lo sguardo verso l’entrata e aspetto. Aspetto un Buongiorno che non arriva, che rimane forse rinchiuso tra i pensieri, sovrastato da altre urgenze: E’ già arrivato il dottore?, Chi è l’ultimo?.
Allora lo dico io Buongiorno! suscitando stupore.
Mi accorgo che la persona in questione cerca di ricordare se ci siamo già visti, perché altrimenti non si spiega la mia attenzione. Risponde al mio saluto, ma saluta me, non gli altri.
Che cosa c’è mi chiedo, dietro quei Buongiorno che non arrivano, che soravvivono soltanto tra i sentieri di montagna, dove incrociare qualcuno significa ancora Incontrarsi.
Che cosa impedisce di salutare gli sguardi –e in ascensore soprattutto i corpi – a cui ci si avvicina?
Distrazione? Solitudine forse? E se è solitudine è inflitta o subita? Non mi importa degli altri o credo che agli altri non importi di me?
Forse è la mia presunzione che mi porta al saluto? Propongo accoglienza o cerco attenzione?
Se una persona esce dall’ascensore prima di me e non saluta significa che io e gli altri accanto a noi, per quella manciata di secondi, non siamo mai esistiti.
A me piacciono gli altri. Se entro in un luogo non mi sento tra estranei, ma tra persone che non conosco.
L’estraneità allontana, la non conoscenza incuriosisce.
Anche se in quello studio medico il mio sguardo ritorna sul libro che ho tra le mani, in quel saluto ho detto “Entra, sei il benvenuto, sei la benvenuta”. Non è necessario altro per riconoscersi.
Se uscendo dall’ascensore dico ”Arrivederci” significa Buone cose, niente di che. Lo stesso in treno, in aereo.
Non posso non salutare una persona che mi è stata a fianco per un paio d’ore. Non è questione di educazione, ma di condivisione. Di aria, di spazi.
Conoscersi o non conoscersi che differenza fa?
Che bisogno c’è di confidenza per riconoscere l’altro?
Due anni fa dovevo andare ad un incontro alla Casa della Cultura a Milano, ed ero in anticipo di qualche minuto. Se hai del tempo e sei in Piazza San Babila, o vai da Zara o da H&M.
Io sono entrata da H&M. Che cosa comperi al volo? Calzini colorati, of corse. Mentre stavo lì con i miei calzini in mano mi sono accorta che la commessa tardava a venire alla cassa per consolare una collega che piangeva, china a terra e rivolta verso lo scaffale a sistemare delle maglie – era un lui con la coda di cavallo ma lo avrei scoperto dopo-.
- Ti sostituisco, vai di là – le diceva.
Ma lei/lui si asciugava le lacrime, diceva ”Ora mi passa”, e continuava a piegare le maglie.
Poi ho pagato e me ne sono andata. All’uscita ho incontrato un venditore di rose, di quelli che solitamente cerchi di schivare per non dover spiegare perché non lo vuoi un fiore a tre euro, che in borsa si sciupa eccetera eccetera.
Ho chiesto lo sconto e ho comprato una rosa. Sono tornata nel negozio. Ho detto ”Scusa” e la coda di cavallo si è girata così ho visto che era un ragazzo. Gli ho dato la rosa, dicendogli una frase rassicurante, mi sono presa il suo sorriso e sono andata.
Faceva caldo, era maggio credo.
Di fianco alla Casa della Cultura c’è un bar. Sono entrata e ho ordinato una Swepps, l’ho bevuta d’un fiato e sono andata alla cassa. Una Swepps, ho detto. Allora la cassiera ha fatto un gesto con la mano e ha detto Vai!. Essendo il locale affollato per l’aperitivo ho pensato mi avesse scambiato per una tizia di qualche gruppo e ho ripetuto Devo pagare una Swepps.
Ma lei ha ripetuto il gesto con la mano annuendo come per dire ”Lo so”, proprio con l’aria di una che ti vuole fare una gentilezza.
Non ero mai entrata prima in quel bar, non avevo mai visto quella donna, non mi era mai capitata una cosa così.
Ma come il ragazzo con la coda di cavallo ho sorriso, ho detto grazie, e tutto è finito lì. O forse no.
Forse la gentilezza è contagiosa.
Forse ogni cosa che doniamo, un pensiero, un’attenzione, anche soltanto un Buongiorno in ascensore, è qualcosa che ci torna.
Che ci fa bene.

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