mercoledì 29 novembre 2017

Un italiano su 6 pensa che la donna «se la vada a cercare» di Roberta Scorranese

Per un italiano su sei, se una donna subisce una violenza in qualche modo «se l’è cercata». Perché, in sintesi, se tradisci il marito è normale che questo diventi violento (lo pensa il 16% di questa fascia d’opinione). Perché se ti vesti in un certo modo, che ti aspetti? (non è uno scherzo, lo dichiara candidamente il 14%). E poi, se subisci e non denunci subito, ben ti sta (per un granitico e, si suppone, integerrimo 26%). Certo, è una porzione d’Italia calvinista quella che emerge dall’indagine Ipsos per WeWorld e che anticipiamo, a ridosso della Giornata per l’eliminazione della violenza contro le donne, il 25 novembre. Giudizi intransigenti e trasversali, emessi da uomini e donne di un’età che va dai 18 ai 65 anni. Ovviamente, c’è una percentuale maggiore di italiani che invece sta dall’altra parte (il 49% degli intervistati pensa che le colpe della violenza di genere non siano in alcun modo imputabili alla donna) e pertanto il presidente di WeWorld, Marco Chiesara, commenta: «La ricerca ci restituisce l’immagine di un Paese spaccato a metà, tra coloro che si schierano in modo deciso a favore delle donne, e chi invece considera il fenomeno della violenza un fatto eminentemente privato».
Ma questo privato, dicono le cifre, diventa sempre più pubblico. Le posizioni intransigenti infatti, negli ultimi mesi, si sono condensate in una reiterata, compiaciuta e maliziosa domanda: ma perché tutte queste donne che oggi denunciano molestie avvenute anni fa hanno aspettato tanto? Perché non hanno parlato subito? E forse la riflessione di WeWorld Onlus (che dà il via a un festival milanese da domani, dove queste considerazioni verranno allargate) dovrebbe partire da questa domanda. Meglio: da questo atteggiamento, che non è solo maschile, anzi. È un atteggiamento proprio di migliaia (milioni) di donne in tutto il mondo, le quali, a ogni nuova denuncia scuotono la testa con condiscendenza e sentenziano: ma perché parli ora? Sottinteso: perché sei stata così stupida?

Tutto questo non sa di maschilismo, sa di superficialità. Ha il colore di una contabilità emotiva che si ferma alle cifre secche, alla battuta ad effetto, alla provocazione spicciola (che porta decine di retweet o un alto share televisivo pomeridiano). Al maschilismo sembra essere subentrato il «commercialismo dei sentimenti»: due più due fa quattro, poche storie. Battuta. Retweet. Ma la profondità richiede immaginazione: per molti è una fatica immaginare che le centinaia di denunce arrivate tutte insieme e all’improvviso «dopo tanti anni» siano il risultato di una violenza meno esplicita ma pervicace, che si chiama complicità, ammiccamento, torpore etico (come ha notato Charles M. Blow sul «New York Times» qualche giorno fa). Ci vuole uno sforzo di fantasia per cogliere la debolezza dietro una mancata denuncia. Debolezza edificata dalle stesse persone che avallano la battuta pruriginosa. Sì, perché altri dati di questa corposa indagine condotta su mille persone sono illuminanti: il 19% ritiene accettabile fare battute a sfondo sessuale, il 17% pensa che fare avances fisiche esplicite non sia poi un grande problema.

La salacità come condotto facile alla nobile tradizione dell’anticonformismo: chissà quante persone (uomini e donne) si staranno irritando, leggendo queste parole. «Ancora buonismo, ancora con la storia delle molestie — si dice —: ci sono da sempre, tanto vale abolire i luoghi di lavoro» (questa è la battuta più ricorrente). Ora, i politici più accorti hanno capito da anni l’importanza della salacità ammiccante e forse è per questo che vincono sempre. In nome della differenza tra i generi: se togliamo il piacere del corteggiamento, che cosa ci resta? — dicono, e giù gli applausi. Sì, ci vuole immaginazione e cultura per capire che alle donne il corteggiamento piace moltissimo, ma nei momenti giusti. Ci vuole fantasia per capire che non tutto si risolve dividendo le cose in bianco e nero.
L’amore richiede cultura. E la cultura richiede uno sforzo per andare oltre l’applauso e per fermarsi all’ascolto. All’ascolto di una donna che non ha denunciato subito, di un uomo che non sa controllare la propria violenza, di una ragazza che vuole baciare chi vuole. Ecco perché quella di WeWorld e della Giornata contro la violenza non è solo una battaglia per le donne. È per le donne e per gli uomini. Così si spiega il famoso discorso della scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie, poi diventato un pamphlet dal titolo Dovremmo essere tutti femministi: la differenza non va abolita, ma va reinventata. «Cambiamo quello che insegniamo alle nostre figlie».

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