sabato 6 aprile 2019

Girare la frittata. Gli MRA e il negazionismo su violenze e discriminazioni di genere DA SIMONASFORZ

Negare, spostare il focus, adoperare parole sbagliate e fuorvianti, ridimensionare i fenomeni che riguardano la violenza e le discriminazioni di genere: sono tutte strategie di un patriarcato che reagisce all’emancipazione e alla liberazione femminile e mette in campo operazioni di restaurazione.
In questo clima di negazionismo in ogni dove, in cui si pubblica di tutto, sullo spazio “Invece Concita”, dopo la lettera del padre “mancato” dopo la scelta della compagna di abortire, arriva la missiva di un uomo di 26 anni, con tanto di curriculum e pedigree politico che lo collocherebbe tra i social-liberali, che discetta come un perfetto MRA, ovvero i men’s right activists, i maschilisti che parlano di una discriminazione al contrario, di diritti maschili calpestati dalla narrazione distorta e misandrica delle femministe. Naturalmente va da sé che si negano secoli di dominio patriarcale, di potere in mano agli uomini, di una invisibilizzazione e subordinazione sistematica delle donne. Mica vero che gli uomini sono in una posizione privilegiata, ma sì, le donne se la passano assai bene, sono i numeri che lo dicono. Naturalmente si adopera strumentalmente anche il caso della donna che dava ripetizioni a un 14enne da cui ha avuto un figlio. E giù a fare di tutta l’erba un fascio.

“Credo che questa vicenda rappresenti un’opportunità per riflettere sui diritti maschili, sui doppi standard giudiziari e sulle discriminazioni che colpiscono gli uomini, in una società definita patriarcale e maschilista, ponendo fine alla retorica del “maschio privilegiato in quanto tale”. Numerosi dati confermano la totale assenza di privilegi nel nascere maschi: gli uomini rappresentano l’80% dei suicidi, l’85% dei senzatetto, il 93% delle morti bianche sul lavoro. Nell’oltre 90% dei casi di divorzio, la custodia dei figli viene affidata alla madre”.

Si noti bene, “totale assenza di privilegi”, così come coloro che negano le peculiarità della violenza di genere, che negano il gender gap (di cui però non parlano solo le femministe), che negano tutte le volte in cui una donna nella sua esistenza si trova di fronte a un muro, a gabbie derivanti dal suo essere donna, che negano la diffusione della violenza in ogni luogo e in molteplici forme, che negano il suo apice e i femminicidi delle donne in quanto donne, che negano tutte le miriadi di occasioni in cui i corpi delle donne vengono oggettivati, strumentalizzati e diventano terreno di battaglia politica. Si nega così tutto, e tutto finisce in un immenso buco nero, in cui si fa strada sempre più il tarlo che sia solo una grande costruzione e mistificazione di quelle odiatrici seriali delle femministe. Si sente anche quando entro nelle scuole, tra i professori e i ragazzi, quanto sia diffusa questa mentalità. Ogni due/tre giorni in Italia una donna viene uccisa da un uomo che non riconosce, non accetta la sua scelta autonoma di libertà, il suo diritto di autodeterminare la sua vita, anche in ambito sentimentale e relazionale. Una relazione non è come tanti testi di canzoni la rappresentano, tra un “mia”, un “ti pretendo”, un “mi appartieni, e una donna è “cosa mia”. Un rapporto affettivo si basa sul rispetto, che si esplica nel riconoscersi e darsi reciprocamente libertà. Non c’è amore dove abita la violenza, la gelosia, il possesso. La passione non deve continuare ad essere un alibi. Eppure siamo immersi/e nell’amore romantico, in una possessività in cui ci si annulla vicendevolmente, in cui l’appartenersi è misura di amore, in cui ci si culla in una dimensione altamente pericolosa.

Loredana e Romina sono le ultime donne vittime della cultura del possesso, della violenza machista patriarcale. Perché questa mentalità possa cambiare, occorre innanzitutto che ne prendiamo coscienza e consapevolezza in modo capillare, tutti e tutte, per non sentire più parlare di tempeste emotive, donne isteriche, false accuse, alibi negazionisti e assolutori degli uomini che scelgono deliberatamente di compiere violenza.

Eppure l’odio crescente sappiamo da dove viene, sappiamo da cosa monta, sappiamo che si tratta ancora una volta di un tentativo di backlash del patriarcato, un contrattacco in chiave di restaurazione, che negando l’evidenza cerca di riaffermare se stesso, la sua cultura e il suo dominio.

Tra le sue strategie c’è esattamente quel tarlo che tende a ridimensionare il problema, a spostare continuamente il focus, a negare che sia una questione maschile, che deriva da un lungo corso di discriminazioni, strutture sociali, dinamiche relazionali e di potere. Il contesto attuale in cui c’è un deterioramento del rispetto in ogni ambito e scarseggiano esempi positivi anche in ambito istituzionale, appare solo particolarmente adatto al perpetuarsi di schemi dalle radici antiche. Il differenziale di potere da difendere, la preoccupazione di perdere lo scettro e il comando, e con essi privilegi, status e certezze granitiche, rappresentano ciò che anima nel profondo uomini e ragazzi come colui che scrive a Concita De Gregorio. Una replica incessante e secolare di una virilità che ha mostrato più volte segni evidenti di ricadute negative.

Sui presunti doppi standard giudiziari. La realtà della violenza

Conosciamo quanti danni può fare una sentenza in cui si usano le parole “sbagliate”.

Conosciamo altrettanto bene cosa accade alle donne che denunciano e non si sentono protette, credute e tutelate a sufficienza, come dovrebbe essere loro diritto.

Due degli stupratori della ragazza di 24 anni, violentata nell’ascensore della stazione della Circumvesuviana a San Giorgio a Cremano, sono stati scarcerati. Le sue parole.

“Bastano pochi minuti e ritorno col pensiero. Erano attimi di incapacità a reagire di fronte la brutalità e la supremazia di tre corpi. Erano attimi in cui la mente sembrava come incapace di comprendere, di totale perdizione dell’essere. E dopo che il corpo era diventato scarto e oggetto, ho provato una sorta di distacco da esso. Il mio corpo, sede della mia anima, così sporco. Mi sembrava di essere avvolta dalla nebbia mentre mi trascinavo su quella panchina dopo quelli che saranno stati 7 o 8 minuti. Mi sono seduta e non l’ho avvertito più. Ho cominciato ad odiarlo e poi a provare una profonda compassione per il mio essere. Compassione che ancora oggi mi accompagna, unita ad una sensazione di rabbia impotente, unita al rammarico, allo sdegno, allo sporco, al rifiuto e poi all’accettazione di un corpo che fatico a riconoscere perché calpestato nella sua purezza. Il futuro diviene una sorta di clessidra. Consumato il corpo e la mente dal tempo odierno ricerca una vita semplice. Mi piacerebbe essere a capo di un’associazione che si occupa della prevenzione, della tutela e della salvaguardia delle donne, ragazze, bambine a rischio, perché donare se stessi e il proprio vissuto per gli altri è l’unico modo per accettarlo.” Un invito agli uomini a “non far valere i propri istinti, né la coercizione fisica e mentale, ma la forza della parola e quella della ragione”.

E non chiedeteci più perché non denunciamo o perché ci mettiamo del tempo a farlo.

Negare, sostenendo di essere stati fraintesi e di non capire

Facendo una ricerca mi sono imbattuta nella canzone di Skioffi, Killer, che vorrebbe essere la replica uscita a dicembre scorso, dopo le numerose reazioni negative alla sua canzone Yolandi.

Naturalmente siamo noi a non capire e a volerlo censurare: “Questi non capiscono un cazzo di me” – “Mi vogliono tappare la bocca”. Lui “racconta storie” ci tiene a farci sapere, peccato che le donne siano sempre degradate a oggetti sessuali e Yolandi si concluda con: “La collana che costava troppo Adesso dimmi che mi ami, visto che l’ho presa e te la sto stringendo al collo” ed il video che a accompagna trasudi in ogni fotogramma una violenza esplicita inaudita.

Un po’ come quando qualcuno dice: “Le femministe esagerano, colpevolizzano gli uomini perché sono misandriche”… ecco anziché continuare a deresponsabilizzarsi e a scaricare sulle donne, forse sarebbe ora di farsi un viaggio dentro se stessi e sul proprio modo di essere uomini.

Intanto ci aspettiamo che si cambi cultura per miracolo, ma nulla avviene da sé specialmente se non si lavora strutturalmente a partire dalle scuole, dove questi temi sono ancora considerati “facoltativi”, con qualcuno che ancora tenta di sabotare l’ingresso di un po’ di aria nuova. Ebbene, forse occorre meno astio nei confronti delle femministe e più coraggio di cambiare finalmente modelli. Iniziando ad accogliere le proposte di approfondimento e di laboratori scolastici ad hoc, non subendole passivamente o peggio facendo ostruzionismo.

Non abbiamo bisogno di uomini che con una pacca sulla spalla si confortano a vicenda autoassolvendosi e dichiarando che la cosa non li riguarda, ma che sappiano riflettere schiettamente sulla propria idea di uomo, praticata e pensata, per riuscire a costruire modelli differenti, elaborare nuove forme del maschile, guardare in faccia debolezze e conseguenze di una cultura patriarcale, riconoscere cosa si perde (non solo ciò che si guadagna) dall’appartenere e dall’aderire a questa cultura, cosa storicamente ha rappresentato la subordinazione delle donne e l’affermazione del dominio su di esse. Non è allontanando da sé e negando il problema che si risolveranno le cose. Non è nemmeno pensabile di poter continuare in questo modo, perché vi sono evidenze, studi, ricerche, statistiche che evidenziano bene la realtà, che è più vicina di quanto si pensi, che è tanto diffusa da non poter far finta di niente. Tutto questo bussa alla porta delle nostre coscienze e implica un agire corrispondente.

Negate e invisibilizzate per secoli, le donne insorgono come soggetto inaspettato, inatteso, insubordinato della storia, ci siamo riappropriate di una esistenza e di un agire non più solo privato, ma pubblico ed è in questa direzione che occorre continuare a lavorare, sulla cultura e sul nostro ruolo, su rappresentazione e voce, su ciò che in nome della natura ci vorrebbe imporre un destino e un controllo sui nostri corpi e desideri. Nominiamo ogni cosa, senza paura, disveliamo i trucchi di una sovrastruttura culturale che per secoli ci ha negato esistenza e parola. Smontiamo ogni tentativo di ricondurci a un ruolo subordinato e controllabile. Non accettiamo chi paternalisticamente ci suggerisce parole, idee, chiavi di lettura e in che posizione porci. Tutto il discorso enfatico sulla famiglia, sulla protezione e sui vantaggi che ne deriverebbero, rientrano in una somministrazione di quel modello di controllo e di dominio patriarcale, che cozza con la realtà dei fatti, soprattutto in termini di violenza di genere. Insomma c’è la fregatura e soprattutto si tace ciò che la famiglia rappresenta come fulcro che tramanda e replica i modelli di cui sopra.

Non crediamo di avere diritti, quelli potrebbero andar via con un sol colpo di vento. La liberazione delle donne è una rivoluzione in cammino, tuttora da completare, ma soprattutto da accettare da parte di taluni soggetti.
https://www.dols.it/2019/04/02/girare-la-frittata-gli-mra-e-il-negazionismo-su-violenze-e-discriminazioni-di-genere/?fbclid=IwAR22-FQFLkNzeFHk3QD23fwXG4jTQ2d9z11FH63vS0peUryoyUFS5Z8QHUY






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