Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, l’80% delle giovani che arrivano dall’Africa in Europa è destinata alla prostituzione. Quello che non tutti sanno è che la maggior parte di esse non solo proviene dalla stessa nazione, la Nigeria, ma addirittura dalla medesima regione: i dintorni di Benin City, capoluogo dello Stato di Edo, diventato nel corso dei decenni un vero e proprio hub africano della prostituzione. Da quest’area della Nigeria, storicamente dedita al commercio e nemmeno tra le più povere del Paese, proviene l’85% delle donne vittime di tratta, costrette una volta arrivate in Europa a vendere il loro corpo. Lo sfruttamento di queste giovani è piuttosto florido, se così si può dire, a Palermo, città che ospita diverse connection house, ovvero case chiuse gestite da nigeriani e maman, frequentate da clienti africani. Sempre nel capoluogo siciliano, dal 2016, opera l’associazione Donne di Benin City, fondata da ex vittime di tratta che fornisce alle connazionali intenzionate a liberarsi dal giogo degli sfruttatori supporto dal punto di vista legale, sanitario, scolastico: «Finora abbiamo dato aiuto a 35 connazionali. Alcune avevano bambini piccoli o erano addirittura incinte e costrette a lavorare», spiega a LetteraDonna la presidente Osas Egbon: «Il nostro sportello è aperto ogni giovedì. Le ragazze possono venire e raccontarci i loro problemi». Fisicamente, sono due i luoghi in cui opera l'associazione: lo Spazio Montervegini, a pochi passi della cattedrale di Palermo, e il Centro Astalli, nei pressi del quartiere Ballarò.
GLI ITALIANI AIUTANO GLI SFRUTTATORI
A dare una mano, spiega Osas, ci sono anche volontarie italiane. E c’è, aggiunge, persino chi «ha fornito una casa privata per dare un rifugio alle ragazze». Una struttura che si sta rivelando davvero molto utile: «Prima accompagnavamo le ragazze direttamente in questura, ma poco dopo tornavano in strada a lavorare come prostitute. Ora riusciamo a seguirle meglio, a dare loro ciò di cui hanno bisogno». Il rischio, racconta la presidente di Donne di Benin City, è anche che queste donne, prive dei documenti, vengano portate in altre strutture di accoglienza, perché questa sarebbe «una seconda schiavitù». A proposito di italiani, se c’è chi dà una mano, a Palermo c’è anche chi fa l’opposto. Le connection house sono praticamente inaccessibili ai bianchi, ma sono proprio loro ad affittare gli immobili in cui si prostituiscono le giovani nigeriane: «Gli italiani sanno benissimo cosa succede all’interno di questi appartamenti, che spesso sono senza luce e acqua».
FALSE PROMESSE E RITUALI VOODOO
Osas, che oggi è una mediatrice culturale, ha conosciuto in prima persona tutto questo. Adesso sa a cosa vanno incontro le sue connazionali quando partono dalla Nigeria, ingannate con false promesse e ‘incastrate’ da rituali voodoo, i quali stabiliscono un legame fortissimo tra i trafficanti che finanziano il viaggio e le ragazze che, una volta diventate schiave sessuali, non si ribellano anche per paura di ritorsioni nei confronti delle loro famiglie: «Le vittime promettono che, una volta arrivate in Italia, salderanno il debito per il viaggio lavorando come prostitute, inoltre giurano di non dire a nessuno, tantomeno alla Polizia, chi le ha portate qui». A officiare questi rituali, che hanno un forte potere di suggestione, sono i sacerdoti della religione tradizionale juju: a marzo del 2018 l’Oba Ewuare II, la massima autorità religiosa del popolo Edo, ha annullato i riti di giuramento già effettuati, lanciando poi una maledizione su coloro che favoriscono la tratta degli esseri umani con l’uso di tali pratiche. Un’ottima notizia spiega Osas ma oltre ai malefici ci sarebbe bisogno di spezzare anche certe ‘connection’, perché il meccanismo è davvero ben oliato: «Le ragazze vengono fatte schiave in Nigeria, portate fino in Libia, caricate su un barcone. Se sopravvivono finiscono per qualche tempo in un centro di accoglienza. Quando escono ad aspettarle ci sono i trafficanti, che le costringono a lavorare come prostitute a Palermo».
«SERVE PIÙ ATTENZIONE DA PARTE DELLO STATO»
«Ora che le ragazze sono più libere. Le istituzioni devono fare di più per aiutarle a uscire dalla strada», dice Osas a LetteraDonna, facendo capire che, senza prospettive, è comunque difficile decidere di liberarsi dal giogo di protettori e maman: «Nei centri di identificazione e accoglienza le ragazze non imparare un mestiere e, quando escono, poi, hanno difficoltà a trovare un impiego regolare perché non hanno i documenti necessari». Insomma, l’associazione Donne di Benin City a Palermo fa il possibile, ma tutto sarebbe più facile con maggiore attenzione da parte dello Stato. Senza alcuna paura. In fondo, conclude Osas, in Italia c’è poco lavoro, ma a portarlo via non sono stati certo gli africani: «Non è come dice Salvini: noi facciamo i lavori che gli italiani non voglio fare, come la donna delle pulizie o la badante».
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