Che c’entrano Malala Yousufzai, le tunisine che si apprestano a scendere in piazza in minigonna a sostegno della studentessa algerina preclusa dal partecipare al concorso per avvocato a causa dell’abbigliamento «discinto» e il centro di Buenos Aires, così come quello di altre 70 città argentine, invaso dai cartelli anti-femminicidio «Ni una menos» (non una di meno)?
Malala è sopravvissuta a un feroce attentato nel 2012 per vedere oggi i suoi mancati killer rilasciati dalle autorità pakistane. Le tunisine, campionesse regionali d’emancipazione, tengono faticosamente in alto il vessillo di un diritto a essere donne che ha impiegato decenni per compiersi e che il primo imam intraprendente può mettere in discussione con uno schiocco di dita. Le ragazze (e i ragazzi) di Buenos Aires&c chiedono giustizia per la 14enne incinta Chiara Páez assassinata ad aprile dal fidanzato 16enne e sepolta in giardino con la complicità dei di lui genitori, l’ultima d’una lunga lista che in Argentina aggiunge un nome ogni 30 ore. In tutti e tre i casi il corpo femminile è il crocevia di rabbia, frustrazione, violenza e di una cultura ottusa che solidarizza in silenzio con i vendicatori dell’”offeso senso del pudore” (quando addirittura non li protegge).
La storia di Malala pareva conclusa a lieto fine con la consegna del premio Nobel per la Pace alla paladina del diritto allo studio delle bambine capace di sfidare prima i talebani e poi la morte. Invece no. Avrebbe già dovuto far riflettere la scarsa empatia della comunità musulmana di Birmingham, dove la ragazza, oggi 17enne, vive. Avrebbe dovuto far riflettere il moltiplicarsi dei distinguo sui social media, passati dallo scontato immediato JeSuisMalala alle critiche per l’«uso strumentale» dell’attentato fatto dall’occidente. Ora il colpo di scena svelato dal Daily Mirrow: 8 dei 10 talebani pachistani processati a porte chiuse alla fine di aprile da un tribunale militare per l’attentato sono stati segretamente assolti dai giudici e liberati nelle scorse settimane, con buona pace del mondo che li credeva in carcere a scontare una condanna di 25 anni. E convince poco la replica della polizia di Islamabad che nega «trattative segrete»: la verità suona tanto simile all’ammissione di un insider, secondo cui l’intero processo agli assassini di Malala sarebbe un bluff, «una tattica per allontanare la pressione dal caso di Malala, perché il mondo intero voleva le condanne per il crimine perpetrato».
Insomma, il messaggio è che in qualche modo la storia di Malala non fosse poi una gran cosa e che la reazione dei talebani avesse un certo margine di prevedibilità... Il passo ad affermare che la blogger ragazzina sia andata a cercar grana è brevissimo. È il passo compiuto dal predicatore algerino Hamadache che all’indomani della estromissione di una studentessa con le gambe scoperte dal concorso di giurisprudenza ha tuonato contro la minigonna e soprattutto contro le donne che la indossano, invocando l’intervento del parlamento per mettere al bando la peccaminosa eredità di Mary Quant. È il passo compiuto dalla madre e dal padre di Manuel che hanno coperto l’omicidio del figlio negando a Chiara Paez la vita e la giustizia.
La battaglia tra il velo e la minigonna, come la BBC definisce lo scontro in corso in Nordafrica e in Medioriente di cui la Tunisia diventa per vantaggio storico l’estremo avamposto, è la rappresentazione di un secondo fronte aperto nell’infinita guerra per l’emancipazione femminile. C’è la violenza e ci sono quelli che la giustificano (e coprono) nel nome di presunti valori culturali, religiosi, patriarcali, sociali... Vecchia storia che l’Italia conosce per averla vissuta nella persona di Franca Viola, la prima adire no al matrimonio riparatore nella Sicilia anni ’50 e ’60 (in Italia, per dire, la legge contro il delitto d’onore risale sol al 1981).
Per questo le diverse e lontane vicende di Malala, della minigonna algero-tunisina e di Chiara Paez s’intrecciano fino a confondersi: i diritti non sono dati alla nascita e, per quanto faticosa sia la battaglia per ottenerli, non sono mai dati per sempre. Per questo il presidente della Ligue pour la défense de la Laïcité & des libertés Rachid Ben Othman ha lanciato la manifestazione «tutte in minigonna»: perchè sebbene le tunisine siano parecchio più avanti delle altre donne della regione in termini di conquiste civili la presa non va mollata. C’è sempre un giudice pakistano pronto a scarcerare gli assassini appena l’attenzione internazionale su Malala è scemata, c’è sempre un imam pronto a cavalcare la pancia conservatrice della società patriarcale, ci sono sempre un padre e una madre pronti a difendere il figlio fino a coprirne l’omicidio perchè le donne in fondo sono tutte delle poco di buono.
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