martedì 27 dicembre 2016
venerdì 23 dicembre 2016
Parole giuste nelle cronache di femminicidio L'Ordine nazionale ha adottato il decalogo che detta linee guida su come trattare i casi di femminicidio. Grazie anche all'intervento di Giulia
Il Consiglio Nazionale dell'Ordine dei Giornalisti ha fatto proprio, in piena condivisione, il documento della Federazione Internazionale dei Giornalisti (IFJ) a proposito di violenza sulle donne, elaborato nel solco della Dichiarazione delle Nazioni Unite del 1993.
In particolare il documento richiama i giornalisti all'uso di un linguaggio corretto, cioè rispettoso della persona, scevro da pregiudizi e stereotipi, ad una informazione precisa e dettagliata nella misura in cui i particolari di un accadimento siano utili alla comprensione della vicenda, delle situazioni, della loro dimensione sociale. Ad esempio, adottando nei casi di femminicidio il punto di vista della vittima, possiamo ridarle la dignità e l'umanità che, in una cronaca quasi sempre centrata sulla personalità dell'omicida, vanno perdute.
Ancora il documento offre indicazioni importanti circa il rapporto che il/la giornalista può instaurare con chi ha subito violenza, salvaguardandone l'identità, evitando la descrizione circostanziata dei luoghi, preservando quindi il diritto alla privacy.
Il testo sottolinea inoltre l'opportunità di arricchire la narrazione di dati, annotazioni, pareri di esperti che servano a collocare gli atti di violenza nel loro contesto storico e culturale, consentendo ai lettori di comprendere quanto sia infondata la convinzione che "la violenza sulle donne sia una tragedia inesplicabile e irrisolvibile".
Il Consiglio Nazionale dell'Ordine promuoverà la massima diffusione di questo documento, in tutte le sedi possibili, a partire dalle scuole e dai corsi di formazione professionale.
http://giulia.globalist.it/Detail_News_Display?ID=92540&typeb=0
In particolare il documento richiama i giornalisti all'uso di un linguaggio corretto, cioè rispettoso della persona, scevro da pregiudizi e stereotipi, ad una informazione precisa e dettagliata nella misura in cui i particolari di un accadimento siano utili alla comprensione della vicenda, delle situazioni, della loro dimensione sociale. Ad esempio, adottando nei casi di femminicidio il punto di vista della vittima, possiamo ridarle la dignità e l'umanità che, in una cronaca quasi sempre centrata sulla personalità dell'omicida, vanno perdute.
Ancora il documento offre indicazioni importanti circa il rapporto che il/la giornalista può instaurare con chi ha subito violenza, salvaguardandone l'identità, evitando la descrizione circostanziata dei luoghi, preservando quindi il diritto alla privacy.
Il testo sottolinea inoltre l'opportunità di arricchire la narrazione di dati, annotazioni, pareri di esperti che servano a collocare gli atti di violenza nel loro contesto storico e culturale, consentendo ai lettori di comprendere quanto sia infondata la convinzione che "la violenza sulle donne sia una tragedia inesplicabile e irrisolvibile".
Il Consiglio Nazionale dell'Ordine promuoverà la massima diffusione di questo documento, in tutte le sedi possibili, a partire dalle scuole e dai corsi di formazione professionale.
http://giulia.globalist.it/Detail_News_Display?ID=92540&typeb=0
giovedì 22 dicembre 2016
Amiche in Arena: Il finanziamento sostiene 10 Centri antiviolenza della rete D.i.Re
La Rete nazionale dei Centri Antiviolenza D.i.Re ha ricevuto da Amiche in Arena una donazione di € 150 mila in occasione del concerto del 19 settembre scorso contro la violenza alle donne all’Arena di Verona. Una donazione preziosa di cui siamo profondamente grate a Fiorella Mannoia, Loredana Bertè e a tutte le artiste che si sono esibite gratuitamente, raccogliendo fondi per sostenere i Centri antiviolenza.
Abbiamo scelto 10 Centri antiviolenza della nostra Rete, associazioni in grave difficoltà economiche, che non hanno avuto accesso ai finanziamenti dell’ultimo bando del Dipartimento per le pari Opportunità e non hanno finanziamenti da Enti locali per poter sostenere adeguatamente l’attività di accoglienza e di accompagnamento delle donne fuori dalla violenza.
D.i.Re ha dunque scelto, fra diverse richieste, 10 Centri, quelli più a rischio di chiusura, e ha versato la donazione di Amiche in Arena per sostenerli. I due criteri fondamentali per la scelta sono stati: difficoltà economica grave e validità del progetto.
Purtroppo non è stata una scelta facile. I Centri antiviolenza destinatari della selezione interna sono sia del nord che del sud d’Italia, uniti dalla volontà di aiutare donne nel percorso di uscita dalla violenza.
I centri beneficiari sono:
Associazione Vivere Donna di Carpi con il progetto “Il Centro al centro”;
Associazione Donne Insieme di Piazza Armerina con il progetto “Insieme per D.i.Re No alla violenza”;
Centro contro la violenza alle donne Roberta Lanzino di Cosenza con il progetto “Donne che aiutano le donne”;
Associazione Safiya di Polignano a Mare con il progetto “Una più una”;
Associazione Donne in Genere di Roma con il progetto “Uno spazio di libertà delle donne per le donne”;
Associazione Attivamente coinvolte di Tropea con il progetto “Con-tatto: le donne per le donne”;
Associazione EOS di Varese con il progetto “La stanza delle donne”;
Casa delle donne di Viareggio con il progetto “R-Esistere. Coordinate contro la violenza”;
Associazione Io Donna di Brindisi con il progetto “SoS Teniamoci”;
Associazione Donne contro la violenza di Crema con il progetto “Batti 5 contro la violenza”.
Certe di una buona riuscita di tutte le proposte D.i.Re ringrazia ancora le artiste coinvolte nel Progetto in Arena per la grande opportunità offerta confidando ancora nella vendita del CD del concerto appena uscito, che potrà anche esso sostenere ed aiutare altri Centri in difficoltà.
D.i.Re coglie l’occasione per invitare tutte le artiste coinvolte a visitare i nostri Centri. Saremmo liete di ospitarvi per una giornata e farvi conoscere i nostri centri ricchi di accoglienza ed ospitalità a partire dalle operatrici, volontarie e attiviste che animano i nostri luoghi.
http://www.direcontrolaviolenza.it/amiche-in-arena-il-finanziamento-sostiene-10-centri-antiviolenza-dela-rete-d-i-re/
Abbiamo scelto 10 Centri antiviolenza della nostra Rete, associazioni in grave difficoltà economiche, che non hanno avuto accesso ai finanziamenti dell’ultimo bando del Dipartimento per le pari Opportunità e non hanno finanziamenti da Enti locali per poter sostenere adeguatamente l’attività di accoglienza e di accompagnamento delle donne fuori dalla violenza.
D.i.Re ha dunque scelto, fra diverse richieste, 10 Centri, quelli più a rischio di chiusura, e ha versato la donazione di Amiche in Arena per sostenerli. I due criteri fondamentali per la scelta sono stati: difficoltà economica grave e validità del progetto.
Purtroppo non è stata una scelta facile. I Centri antiviolenza destinatari della selezione interna sono sia del nord che del sud d’Italia, uniti dalla volontà di aiutare donne nel percorso di uscita dalla violenza.
I centri beneficiari sono:
Associazione Vivere Donna di Carpi con il progetto “Il Centro al centro”;
Associazione Donne Insieme di Piazza Armerina con il progetto “Insieme per D.i.Re No alla violenza”;
Centro contro la violenza alle donne Roberta Lanzino di Cosenza con il progetto “Donne che aiutano le donne”;
Associazione Safiya di Polignano a Mare con il progetto “Una più una”;
Associazione Donne in Genere di Roma con il progetto “Uno spazio di libertà delle donne per le donne”;
Associazione Attivamente coinvolte di Tropea con il progetto “Con-tatto: le donne per le donne”;
Associazione EOS di Varese con il progetto “La stanza delle donne”;
Casa delle donne di Viareggio con il progetto “R-Esistere. Coordinate contro la violenza”;
Associazione Io Donna di Brindisi con il progetto “SoS Teniamoci”;
Associazione Donne contro la violenza di Crema con il progetto “Batti 5 contro la violenza”.
Certe di una buona riuscita di tutte le proposte D.i.Re ringrazia ancora le artiste coinvolte nel Progetto in Arena per la grande opportunità offerta confidando ancora nella vendita del CD del concerto appena uscito, che potrà anche esso sostenere ed aiutare altri Centri in difficoltà.
D.i.Re coglie l’occasione per invitare tutte le artiste coinvolte a visitare i nostri Centri. Saremmo liete di ospitarvi per una giornata e farvi conoscere i nostri centri ricchi di accoglienza ed ospitalità a partire dalle operatrici, volontarie e attiviste che animano i nostri luoghi.
http://www.direcontrolaviolenza.it/amiche-in-arena-il-finanziamento-sostiene-10-centri-antiviolenza-dela-rete-d-i-re/
martedì 20 dicembre 2016
avviso importante
da venerdì 23/12, per il periodo delle festività natalizie, il Centro Antiviolenza distrettuale Cadmi - La Stanza dello Scirocco
riceverà le donne del distretto, che dovessero farne richiesta lasciando messaggio in segreteria al numero verde 800049722, presso gli uffici Cadmi di Milano in via Piacenza 14.
L'ascolto della segreteria telefonica verrà effettuato in diversi momenti del giorno.
lunedì 19 dicembre 2016
Non è un addio Fermiamo le edizioni cartacee di NOIDONNE e consegniamo alla dimensione virtuale la possibilità di continuare un cammino iniziato oltre 72 anni fa... Tiziana Bartolini
Fermiamo le edizioni cartacee di NOIDONNE e consegniamo alla dimensione virtuale la possibilità di continuare un cammino iniziato oltre 72 anni fa. Non consideriamo questo un addio, quindi, ma un approdo che ci consente di esplorare nuovi territori contando sul sostegno delle lettrici fedeli e sulla possibilità di incontrarne di nuove.
Siamo convinte, infatti, che questo giornale abbia un futuro che va immaginato a partire dai traguardi raggiunti e che lo hanno inserito pienamente nel presente, accettando l’incalzare della tecnologia e la sfida dell’innovazione nei linguaggi e nei contenuti.
NOIDONNE è già pronto per costruire il suo domani, è disponibile ad accogliere le sollecitazioni e ad interpretare la complessità che ci riguarda come donne. Il settimanale on line NOIDONNE WEEK esce regolarmente da anni, siamo sui social e presto rinnoveremo il sito e avvieremo la digitalizzazione dell’archivio storico. Ci attende un lavoro impegnativo che richiede impegno e risorse. Ti invitiamo quindi ad essere ancora con noi per condividere una bella storia scritta dalle donne. Pensiamo che sia significativo il fatto che ci troviamo a voltare pagina proprio mentre Hillary Clinton perde le elezioni. La sua sconfitta, che ci colpisce tutte profondamente, è di portata storica e va esaminata negli aspetti più oscuri e nelle sue molteplici sfaccettature anche come sconfitta di una interpretazione del femminile che non ha avuto successo. Eppure le donne devono essere parte attiva degli imponenti cambiamenti cui assistiamo visto che la posta in gioco è la costruzione di un nuovo ordine mondiale economico e civile.
In questo contesto anche il sistema dell’informazione sta cambiando profondamente e il NOIDONNE che si è ricostruito un varco nel terzo millennio - riprendendo nel 2000 le pubblicazioni dopo ‘la grande crisi’ degli anni ‘90 - termina le edizioni cartacee con la soddisfazione di aver aggiunto un pezzo consistente ad una lunga storia iniziata nel 1944.
Non nascondiamo il dolore di una scelta pesante ma non più rinviabile e per congedarci ‘dalla carta’ con tutto l’orgoglio che merita il nostro giornale ripubblichiamo gli inserti usciti nei mesi del 2014 per i settanta anni del giornale: una cavalcata attraverso le straordinarie esperienze, le dure lotte e le indimenticabili protagoniste che hanno fatto la storia delle donne e della democrazia del nostro paese. In questo numero gli anni più recenti li raccontano Nadia Angelucci e Elena Ribet, socie della Cooperativa Libera Stampa, editrice di NOIDONNE. Un commiato lo firma, Giancarla Codrignani, socia che da anni scrive ed è autorevole punto di riferimento. Costanza Fanelli, attualmente presidente della cooperativa, e che a lungo ha ricoperto lo stesso ruolo in anni passati, scrive alcune riflessioni. Da noi tutte un ringraziamento va a Isa Ferraguti, presidente che l’ha preceduta in anni difficili.
E la sottoscritta?.. Ho avuto l’onore di pilotare una piccola e fragile imbarcazione con un nobile passato e un presente incerto. L’ho fatto cercando di compensare con l’entusiasmo e la fantasia la perenne assenza di risorse economiche nell’intento di non disperdere una storia di donne meravigliosa ed unica. E l’ho fatto - in tutta onestà e libera da pregiudizi - con generosità e professionalità, con rigore e amore, accogliendo idee e persone. Uno stile che ha permesso al giornale di guardare oltre vecchi attriti, mai sopiti, che lo hanno attraversato in passato. Un approccio che ci permette di fermarci, adesso, senza debiti e - lo sottolineo con orgoglio - senza flessioni nelle vendite e negli abbonamenti.
Questo lungo tratto di strada, dal 2000 ad oggi, è stato possibile percorrerlo grazie a tante amiche fedeli e sincere che hanno contribuito in vario modo avendo in cambio “solo” la gioia di far viaggiare parole e pensieri di donna, di offrire spazi ad altri sguardi e notizie. Le ringrazio e le abbraccio calorosamente una ad una e mi spiace non poterle citare tutte. I loro nomi firmano, numero dopo numero, agli articoli che ci hanno regalato. Innumerevoli e preziosissimi, poi, i contributi che non sono rintracciabili nel giornale ma senza i quali tutto sarebbe stato più difficile se non impossibile. Prima di tutto le diffonditrici che non ci sono più e che ricordiamo con immenso affetto: Anna Lizzi Custodi e Anna Marciano. Ringraziamo Vanna Zanini e Maria Del Re, che vendono il giornale nei loro quartieri, e Grazia Giurato per una generosità spesso rinnovata. Ci sono poi tanti e tanti gruppi che hanno costantemente contribuito alla diffusione straordinaria dell’8 marzo, a partire da molte realtà dell’Udi per arrivare ai gruppi dello Spi, della Cgil, dell’Auser e di tante altre associazioni e gruppi di tutte le regioni. È doveroso in questa circostanza dare un riconoscimento all’apporto di due uomini senza i quali NOIDONNE non avrebbe avuto questi 16 anni di vita: Roberto Rossi, che ha stampato dal 2000 al 2005, e Rinaldo, che da oltre 12 anni gestisce da volontario e con certosina meticolosità le complesse incombenze amministrative, noiose ma indispensabili per il funzionamento di un’impresa.
Ci aspetta un grande lavoro che non si profila meno difficile soprattutto per la sostenibilità economica. Ma è un lavoro che contiamo di fare insieme a te e con tante altre donne. Quelle da sempre affezionate a questo giornale e le tante - soprattutto giovani - che contiamo di avvicinare perché dalla nostra abbiamo un’arma formidabile: la consapevolezza di una comunanza di sentimenti che va coltivata.
Il sito www.noidonne.org sarà il nostro luogo di incontro e di elaborazione.
Ci troverai lì per condividere il piacere di un’informazione originale e all’insegna della ricerca.
http://www.noidonne.org/articolo.php?ID=05692
Siamo convinte, infatti, che questo giornale abbia un futuro che va immaginato a partire dai traguardi raggiunti e che lo hanno inserito pienamente nel presente, accettando l’incalzare della tecnologia e la sfida dell’innovazione nei linguaggi e nei contenuti.
NOIDONNE è già pronto per costruire il suo domani, è disponibile ad accogliere le sollecitazioni e ad interpretare la complessità che ci riguarda come donne. Il settimanale on line NOIDONNE WEEK esce regolarmente da anni, siamo sui social e presto rinnoveremo il sito e avvieremo la digitalizzazione dell’archivio storico. Ci attende un lavoro impegnativo che richiede impegno e risorse. Ti invitiamo quindi ad essere ancora con noi per condividere una bella storia scritta dalle donne. Pensiamo che sia significativo il fatto che ci troviamo a voltare pagina proprio mentre Hillary Clinton perde le elezioni. La sua sconfitta, che ci colpisce tutte profondamente, è di portata storica e va esaminata negli aspetti più oscuri e nelle sue molteplici sfaccettature anche come sconfitta di una interpretazione del femminile che non ha avuto successo. Eppure le donne devono essere parte attiva degli imponenti cambiamenti cui assistiamo visto che la posta in gioco è la costruzione di un nuovo ordine mondiale economico e civile.
In questo contesto anche il sistema dell’informazione sta cambiando profondamente e il NOIDONNE che si è ricostruito un varco nel terzo millennio - riprendendo nel 2000 le pubblicazioni dopo ‘la grande crisi’ degli anni ‘90 - termina le edizioni cartacee con la soddisfazione di aver aggiunto un pezzo consistente ad una lunga storia iniziata nel 1944.
Non nascondiamo il dolore di una scelta pesante ma non più rinviabile e per congedarci ‘dalla carta’ con tutto l’orgoglio che merita il nostro giornale ripubblichiamo gli inserti usciti nei mesi del 2014 per i settanta anni del giornale: una cavalcata attraverso le straordinarie esperienze, le dure lotte e le indimenticabili protagoniste che hanno fatto la storia delle donne e della democrazia del nostro paese. In questo numero gli anni più recenti li raccontano Nadia Angelucci e Elena Ribet, socie della Cooperativa Libera Stampa, editrice di NOIDONNE. Un commiato lo firma, Giancarla Codrignani, socia che da anni scrive ed è autorevole punto di riferimento. Costanza Fanelli, attualmente presidente della cooperativa, e che a lungo ha ricoperto lo stesso ruolo in anni passati, scrive alcune riflessioni. Da noi tutte un ringraziamento va a Isa Ferraguti, presidente che l’ha preceduta in anni difficili.
E la sottoscritta?.. Ho avuto l’onore di pilotare una piccola e fragile imbarcazione con un nobile passato e un presente incerto. L’ho fatto cercando di compensare con l’entusiasmo e la fantasia la perenne assenza di risorse economiche nell’intento di non disperdere una storia di donne meravigliosa ed unica. E l’ho fatto - in tutta onestà e libera da pregiudizi - con generosità e professionalità, con rigore e amore, accogliendo idee e persone. Uno stile che ha permesso al giornale di guardare oltre vecchi attriti, mai sopiti, che lo hanno attraversato in passato. Un approccio che ci permette di fermarci, adesso, senza debiti e - lo sottolineo con orgoglio - senza flessioni nelle vendite e negli abbonamenti.
Questo lungo tratto di strada, dal 2000 ad oggi, è stato possibile percorrerlo grazie a tante amiche fedeli e sincere che hanno contribuito in vario modo avendo in cambio “solo” la gioia di far viaggiare parole e pensieri di donna, di offrire spazi ad altri sguardi e notizie. Le ringrazio e le abbraccio calorosamente una ad una e mi spiace non poterle citare tutte. I loro nomi firmano, numero dopo numero, agli articoli che ci hanno regalato. Innumerevoli e preziosissimi, poi, i contributi che non sono rintracciabili nel giornale ma senza i quali tutto sarebbe stato più difficile se non impossibile. Prima di tutto le diffonditrici che non ci sono più e che ricordiamo con immenso affetto: Anna Lizzi Custodi e Anna Marciano. Ringraziamo Vanna Zanini e Maria Del Re, che vendono il giornale nei loro quartieri, e Grazia Giurato per una generosità spesso rinnovata. Ci sono poi tanti e tanti gruppi che hanno costantemente contribuito alla diffusione straordinaria dell’8 marzo, a partire da molte realtà dell’Udi per arrivare ai gruppi dello Spi, della Cgil, dell’Auser e di tante altre associazioni e gruppi di tutte le regioni. È doveroso in questa circostanza dare un riconoscimento all’apporto di due uomini senza i quali NOIDONNE non avrebbe avuto questi 16 anni di vita: Roberto Rossi, che ha stampato dal 2000 al 2005, e Rinaldo, che da oltre 12 anni gestisce da volontario e con certosina meticolosità le complesse incombenze amministrative, noiose ma indispensabili per il funzionamento di un’impresa.
Ci aspetta un grande lavoro che non si profila meno difficile soprattutto per la sostenibilità economica. Ma è un lavoro che contiamo di fare insieme a te e con tante altre donne. Quelle da sempre affezionate a questo giornale e le tante - soprattutto giovani - che contiamo di avvicinare perché dalla nostra abbiamo un’arma formidabile: la consapevolezza di una comunanza di sentimenti che va coltivata.
Il sito www.noidonne.org sarà il nostro luogo di incontro e di elaborazione.
Ci troverai lì per condividere il piacere di un’informazione originale e all’insegna della ricerca.
http://www.noidonne.org/articolo.php?ID=05692
domenica 18 dicembre 2016
Guerra in Siria: ad Aleppo le donne si suicidano per non finire vittime di stupri dei miliziani
Orrore senza fine ad Aleppo, dove continua la strage dei civili, soprattutto di donne e bambine. A questo scenario si aggiunge una larga fetta di popolazione rimasta intrappolata nella città sotto assedio. Mentre infatti gran parte del quartiere orientale di Aleppo è stato liberato delle forze lealiste fedeli al presidente siriano Bashar al-Assad e ci sono scene di giubilo, in alcune zone molte persone risultano intrappolate. Tra questi, le donne che si suicidano per non finire vittime di stupri dei miliziani. Almeno 20 donne siriane si sono uccise.
A questi 20 terribili suicidi accertati, si aggiungerebbe la richiesta disperata di molte giovani ai loro padri o fratelli di essere ammazzate per lo stesso motivo. Non vogliono essere catturate e stuprate dai miliziani. Questo quanto riporta il New York Times.
A confermarlo anche i tweet del religioso Muhammad Al-Yaquobi, fuggito dalla Siria, al quale hanno chiesto in molti il permesso di uccidere mogli, figlie o sorelle per salvarle dallo stupro. Richieste e storie agghiaccianti, che nel corso del conflitto siriano sono venute spesso a galla grazie ai social. Il suicidio tra l’altro non è permesso nell’Islam, quindi le donne e i loro familiari chiedono una sorta di “permesso”.
Sempre su Twitter leggiamo infatti di una ragazza che annuncia il suo suicidio, “una delle donne di Aleppo che nel giro di poche ore potrebbe essere stuprata”.
La ragazza in questione però non chiede né perdono, né il permesso:
“Non voglio niente da voi, neanche le preghiere. Sono ancora in grado di parlare e credo che le mie preghiere siano più sincere della vostra. Tutto quello che chiedo è di non prendere il posto di Dio e giudicarmi quando mi suiciderò. Ho intenzione di farlo e non mi preoccupo se mi condannerete all’inferno. Ho intenzione di togliermi la vita perché così il mio corpo non potrà apportare alcun piacere per coloro che non avevano nemmeno il coraggio di pronunciare il nome di Aleppo pochi giorni fa. Ho intenzione di suicidarmi ad Aleppo, perché il giorno del giudizio è appena arrivato e non credo che l’inferno sia peggio di quello che già stiamo vivendo…”.
Non poco tempo fa era venuto fuori il simile destino di molte donne catturate dall’Isis: schiave sessuali o vendute nei mercati.
Sempre più appelli via Twitter di donne e civili
Molti nel corso degli anni gli appelli che i siriani hanno rivolto a noi occidentali per denunciare lo scempio, l’orrore che si sta consumando in Siria. O almeno quando le bombe non tolgono la poca elettricità che hanno. Raccontano l’orrore, la paura, l’angoscia. Come l’attivista Lina Shamy che vive ad Aleppo e lunedì sera ha pubblicato un video su Twitter, forse la sua ultima apparizione. E forse tanti orrori neppure li conosciamo.
LEGGI L’ULTIMO RAPPORTO SULLA GUERRA CIVILE IN SIRIA
I negoziati al momento stanno trattando per organizzare dei passaggi per i civili e consentire loro di uscire fuori dalla città e questo permetterebbe a donne e bambini di mettersi al sicuro: al momento infatti molti di loro tentano di salvarsi accovacciandosi sotto ciò che rimane degli edifici bombardati o proteggendosi tra le macerie della loro città.
Le 20 donne coraggio siriane vanno ad aggiungersi alla lista di morte che solo nelle ultime 24 ore ha fatto 82 vittime, molti delle quali bambine e donne. E che nonostante il gesto coraggioso e che chiede giustizia, rimangono con il loro corpo senza vita in mezzo alla strada. Nessuno infatti a causa dei continui bombardamenti prova a recuperarli.
Un quadro desolante e drammatico che una volta per tutte il mondo deve arrestare.
http://www.pourfemme.it/articolo/regali-di-natale-per-le-amiche/6739/
A questi 20 terribili suicidi accertati, si aggiungerebbe la richiesta disperata di molte giovani ai loro padri o fratelli di essere ammazzate per lo stesso motivo. Non vogliono essere catturate e stuprate dai miliziani. Questo quanto riporta il New York Times.
A confermarlo anche i tweet del religioso Muhammad Al-Yaquobi, fuggito dalla Siria, al quale hanno chiesto in molti il permesso di uccidere mogli, figlie o sorelle per salvarle dallo stupro. Richieste e storie agghiaccianti, che nel corso del conflitto siriano sono venute spesso a galla grazie ai social. Il suicidio tra l’altro non è permesso nell’Islam, quindi le donne e i loro familiari chiedono una sorta di “permesso”.
Sempre su Twitter leggiamo infatti di una ragazza che annuncia il suo suicidio, “una delle donne di Aleppo che nel giro di poche ore potrebbe essere stuprata”.
La ragazza in questione però non chiede né perdono, né il permesso:
“Non voglio niente da voi, neanche le preghiere. Sono ancora in grado di parlare e credo che le mie preghiere siano più sincere della vostra. Tutto quello che chiedo è di non prendere il posto di Dio e giudicarmi quando mi suiciderò. Ho intenzione di farlo e non mi preoccupo se mi condannerete all’inferno. Ho intenzione di togliermi la vita perché così il mio corpo non potrà apportare alcun piacere per coloro che non avevano nemmeno il coraggio di pronunciare il nome di Aleppo pochi giorni fa. Ho intenzione di suicidarmi ad Aleppo, perché il giorno del giudizio è appena arrivato e non credo che l’inferno sia peggio di quello che già stiamo vivendo…”.
Non poco tempo fa era venuto fuori il simile destino di molte donne catturate dall’Isis: schiave sessuali o vendute nei mercati.
Sempre più appelli via Twitter di donne e civili
Molti nel corso degli anni gli appelli che i siriani hanno rivolto a noi occidentali per denunciare lo scempio, l’orrore che si sta consumando in Siria. O almeno quando le bombe non tolgono la poca elettricità che hanno. Raccontano l’orrore, la paura, l’angoscia. Come l’attivista Lina Shamy che vive ad Aleppo e lunedì sera ha pubblicato un video su Twitter, forse la sua ultima apparizione. E forse tanti orrori neppure li conosciamo.
LEGGI L’ULTIMO RAPPORTO SULLA GUERRA CIVILE IN SIRIA
I negoziati al momento stanno trattando per organizzare dei passaggi per i civili e consentire loro di uscire fuori dalla città e questo permetterebbe a donne e bambini di mettersi al sicuro: al momento infatti molti di loro tentano di salvarsi accovacciandosi sotto ciò che rimane degli edifici bombardati o proteggendosi tra le macerie della loro città.
Le 20 donne coraggio siriane vanno ad aggiungersi alla lista di morte che solo nelle ultime 24 ore ha fatto 82 vittime, molti delle quali bambine e donne. E che nonostante il gesto coraggioso e che chiede giustizia, rimangono con il loro corpo senza vita in mezzo alla strada. Nessuno infatti a causa dei continui bombardamenti prova a recuperarli.
Un quadro desolante e drammatico che una volta per tutte il mondo deve arrestare.
http://www.pourfemme.it/articolo/regali-di-natale-per-le-amiche/6739/
mercoledì 14 dicembre 2016
Pensare in modo diverso la politica Lea Melandri
Scambiare la libertà che le donne vanno faticosamente conquistando, a cominciare dalla vita di ogni giorno, con la volontà di sopraffazione del maschio appartiene ancora una volta all’immaginario maschile, ricorda Lea Melandri. È una trappola che ha una lunga storia ma emerge oggi anche nei film della Disney (come Oceania, definito “film femminista”, dove lei è una eroina e lui un bamboccione, che finisce di rafforzare l’idea sbagliata secondo cui le femministe vorrebbero un mondo di donne forti e uomini deboli). Quello che invece i movimenti delle donne negli anni Settanta hanno iniziato a sperimentare – ad esempio con l’autocoscienza – è una critica a tutte le forme di potere, è pensare differentemente la politica, cioè “portare l’attenzione sulla soggettività di ognuna, attraverso la relazione con le altre donne, intendere la libertà come processo di liberazione (presa di coscienza) dalla complicità profonda con il pensiero maschile…”
Elisa Giomi ha giustamente criticato sulle sue pagine facebook il titolo della Stampa riguardante il nuovo film della Disney: “Lei è una eroina, lui un bamboccione. Con ‘Oceania’ il cartone di Natale diventa femminista”:
“Si rafforza così l’idea (sbagliata) secondo cui le femministe vorrebbero un mondo di donne forti e uomini deboli. Ci piacerebbe, invece, trasmettere la convinzione che – a prescindere dal proprio genere – per dimostrarsi forti non serve avere accanto una persona più debole, logica che alimenta la cultura della violenza e del bullismo e che NON appartiene al femminismo”.
Sono d’accordo con Elisa: il femminismo ha significato la critica a tutte le forme più o meno violente, più o meno manifeste di potere. Scambiare la libertà che le donne vanno faticosamente conquistando con la volontà di sopraffazione del maschio appartiene ancora una volta all’immaginario maschile. Riproporlo è profondamente diseducativo, ma non si può neanche ignorare l’ambigua seduzione che esercitano sulle donne stesse le figure di un femminile eroico, maternamente o virilmente salvifico.
La fantasia del “capovolgimento” del potere tra i sessi ha una radicamento antico, che andrebbe indagato più attentamente, e che ne spiega la durata.
Qualche riflessione.
Si può ipotizzare che all’origine del processo di differenziazione che ha visto l’uomo riservare a se stesso il versante della storia (pensiero, linguaggio, decisionalità politica) e alla donna quello della natura, dell’animalità, del supporto indispensabile al suo destino pubblico, ci sia, oltre e più ancora che la capacità generativa femminile – rispetto alla quale l’uomo si è trovato in posizione di marginalità, invidia, bisogno di rivalsa -, l’esperienza della nascita dal corpo della donna, un vissuto di inermità, dipendenza, sopravvalutazione della potenza materna da parte dell’uomo figlio.
Come dice candidamente Rousseau, nella guerra tra i sessi, è stato il più debole ad avere la meglio sul più forte.
Il dominio maschile si impone come rivalsa, controllo, sfruttamento della donna-madre, che verrà così a trovarsi al centro di una evidente contraddizione: esaltazione immaginativa, per dirla con le parole di Virginia Woolf, e insignificanza storica.
Tradotto in termini più attuali: assistiamo oggi da un lato al riconoscimento, quanto meno verbale, delle “doti femminili” come risorsa preziosa per l’economia e la politica, e dall’altro a quello che Marina Piazza chiama, documentandolo ampiamente in un libro omonimo, “lo scacco della maternità”.
Questa aporia, che ha a che fare con l’origine del rapporto tra i sessi, con la costruzione delle identità di genere, e soprattutto con la collocazione del materno al centro della “differenza femminile”, della sua presunta ‘naturalità’, non poteva non emergere in quei movimenti delle donne che hanno pensato di avvalersi della figura reale o simbolica della madre per emanciparsi.
Uso volutamente la parola emancipazione per indicare sia l’emancipazionismo tra Ottocento e Novecento, sia le teorie filosofiche del “pensiero della differenza” degli anni Ottanta e Novanta, sia quella che oggi viene definita la “femminilizzazione” dello spazio pubblico, considerata anche da alcuni gruppi femministi un’opportunità per acquisire potere e portare cambiamenti significativi al mondo del lavoro e della politica.
Riservo invece la parola liberazione a quello scarto, o discontinuità, che ha prodotto nella coscienza storica il femminismo degli anni Settanta, in cui è stata proprio l’identificazione della donna con la madre, della sessualità con la procreazione, a essere fatta oggetto di critica e di cambiamento.
Ci si accorge in sostanza che l’espropriazione più profonda che le donne hanno subìto riguarda, più ancora che il loro ruolo di genitrici, la loro individualità, il loro essere, prima che mogli e madri, delle persone. È solo nel momento in cui le donne riconoscono e si legittimano una sessualità propria che la maternità da destino può diventare una scelta.
Negli anni Settanta quindi si profila un orizzonte interpretativo nuovo, inedito, rivoluzionario rispetto all’esistente: al posto della coppia originaria madre e figlio – quella su cui si può ipotizzare che si sia costruita la visione dualistica del mondo che è arrivata fino a noi – viene messa la relazione tra individui di un sesso e dell’altro; si comincia a distinguere la femminilità e la maschilità come costruzioni sociali, culturali, immaginarie, dall’essere reale dell’uomo e della donna. Si tratta di uno spostamento radicale di prospettiva che si tradurrà nelle pratiche anomale dell’“autocoscienza” e della “pratica dell’inconscio”: una riflessione collettiva sui vissuti personali, l’analisi della violenza che passa invisibile attraverso l’incorporazione di modelli di potere imposti, la lenta modificazione di sé come presupposto per la modificazione del mondo.
L’autocoscienza, come scrive Maria Luisa Boccia nel suo libro La differenza politica, è la prima forma di un “pensare differentemente la politica”, vuol dire portare l’attenzione sulla soggettività di ognuna, attraverso la relazione con le altre donne, intendere la libertà come processo di liberazione (presa di coscienza) dalla complicità profonda con il pensiero maschile.
“Una donna deve innanzitutto logorare dentro di sé i legami con l’identità di cui la cultura dell’uomo l’ha dotata. All’identità femminile, prodotta dall’uomo, subentra ‘un io non conforme’ alla femminilità ed è da questo movimento della singolarità in relazione che prende forma la soggettività sessuata”.
È da questa critica alla femminilità tradizionalmente intesa che parte la presa di distanza del movimento degli anni Settanta dall’emancipazionismo del primo Novecento.
http://comune-info.net/2016/12/pensare-in-modo-diverso-la-politica-disney/
Elisa Giomi ha giustamente criticato sulle sue pagine facebook il titolo della Stampa riguardante il nuovo film della Disney: “Lei è una eroina, lui un bamboccione. Con ‘Oceania’ il cartone di Natale diventa femminista”:
“Si rafforza così l’idea (sbagliata) secondo cui le femministe vorrebbero un mondo di donne forti e uomini deboli. Ci piacerebbe, invece, trasmettere la convinzione che – a prescindere dal proprio genere – per dimostrarsi forti non serve avere accanto una persona più debole, logica che alimenta la cultura della violenza e del bullismo e che NON appartiene al femminismo”.
Sono d’accordo con Elisa: il femminismo ha significato la critica a tutte le forme più o meno violente, più o meno manifeste di potere. Scambiare la libertà che le donne vanno faticosamente conquistando con la volontà di sopraffazione del maschio appartiene ancora una volta all’immaginario maschile. Riproporlo è profondamente diseducativo, ma non si può neanche ignorare l’ambigua seduzione che esercitano sulle donne stesse le figure di un femminile eroico, maternamente o virilmente salvifico.
La fantasia del “capovolgimento” del potere tra i sessi ha una radicamento antico, che andrebbe indagato più attentamente, e che ne spiega la durata.
Qualche riflessione.
Si può ipotizzare che all’origine del processo di differenziazione che ha visto l’uomo riservare a se stesso il versante della storia (pensiero, linguaggio, decisionalità politica) e alla donna quello della natura, dell’animalità, del supporto indispensabile al suo destino pubblico, ci sia, oltre e più ancora che la capacità generativa femminile – rispetto alla quale l’uomo si è trovato in posizione di marginalità, invidia, bisogno di rivalsa -, l’esperienza della nascita dal corpo della donna, un vissuto di inermità, dipendenza, sopravvalutazione della potenza materna da parte dell’uomo figlio.
Come dice candidamente Rousseau, nella guerra tra i sessi, è stato il più debole ad avere la meglio sul più forte.
Il dominio maschile si impone come rivalsa, controllo, sfruttamento della donna-madre, che verrà così a trovarsi al centro di una evidente contraddizione: esaltazione immaginativa, per dirla con le parole di Virginia Woolf, e insignificanza storica.
Tradotto in termini più attuali: assistiamo oggi da un lato al riconoscimento, quanto meno verbale, delle “doti femminili” come risorsa preziosa per l’economia e la politica, e dall’altro a quello che Marina Piazza chiama, documentandolo ampiamente in un libro omonimo, “lo scacco della maternità”.
Questa aporia, che ha a che fare con l’origine del rapporto tra i sessi, con la costruzione delle identità di genere, e soprattutto con la collocazione del materno al centro della “differenza femminile”, della sua presunta ‘naturalità’, non poteva non emergere in quei movimenti delle donne che hanno pensato di avvalersi della figura reale o simbolica della madre per emanciparsi.
Uso volutamente la parola emancipazione per indicare sia l’emancipazionismo tra Ottocento e Novecento, sia le teorie filosofiche del “pensiero della differenza” degli anni Ottanta e Novanta, sia quella che oggi viene definita la “femminilizzazione” dello spazio pubblico, considerata anche da alcuni gruppi femministi un’opportunità per acquisire potere e portare cambiamenti significativi al mondo del lavoro e della politica.
Riservo invece la parola liberazione a quello scarto, o discontinuità, che ha prodotto nella coscienza storica il femminismo degli anni Settanta, in cui è stata proprio l’identificazione della donna con la madre, della sessualità con la procreazione, a essere fatta oggetto di critica e di cambiamento.
Ci si accorge in sostanza che l’espropriazione più profonda che le donne hanno subìto riguarda, più ancora che il loro ruolo di genitrici, la loro individualità, il loro essere, prima che mogli e madri, delle persone. È solo nel momento in cui le donne riconoscono e si legittimano una sessualità propria che la maternità da destino può diventare una scelta.
Negli anni Settanta quindi si profila un orizzonte interpretativo nuovo, inedito, rivoluzionario rispetto all’esistente: al posto della coppia originaria madre e figlio – quella su cui si può ipotizzare che si sia costruita la visione dualistica del mondo che è arrivata fino a noi – viene messa la relazione tra individui di un sesso e dell’altro; si comincia a distinguere la femminilità e la maschilità come costruzioni sociali, culturali, immaginarie, dall’essere reale dell’uomo e della donna. Si tratta di uno spostamento radicale di prospettiva che si tradurrà nelle pratiche anomale dell’“autocoscienza” e della “pratica dell’inconscio”: una riflessione collettiva sui vissuti personali, l’analisi della violenza che passa invisibile attraverso l’incorporazione di modelli di potere imposti, la lenta modificazione di sé come presupposto per la modificazione del mondo.
L’autocoscienza, come scrive Maria Luisa Boccia nel suo libro La differenza politica, è la prima forma di un “pensare differentemente la politica”, vuol dire portare l’attenzione sulla soggettività di ognuna, attraverso la relazione con le altre donne, intendere la libertà come processo di liberazione (presa di coscienza) dalla complicità profonda con il pensiero maschile.
“Una donna deve innanzitutto logorare dentro di sé i legami con l’identità di cui la cultura dell’uomo l’ha dotata. All’identità femminile, prodotta dall’uomo, subentra ‘un io non conforme’ alla femminilità ed è da questo movimento della singolarità in relazione che prende forma la soggettività sessuata”.
È da questa critica alla femminilità tradizionalmente intesa che parte la presa di distanza del movimento degli anni Settanta dall’emancipazionismo del primo Novecento.
http://comune-info.net/2016/12/pensare-in-modo-diverso-la-politica-disney/
martedì 13 dicembre 2016
I mille (e più) giorni di sessismo su Laura, Maria Elena e Agnese di Fabiana
Dalla formazione del Governo Renzi fino alla caduta, avvenuta domenica scorsa dopo la vittoria del no al referendum, quello che sicuramente più ricorderemo di questi mille giorni di governo sono gli insulti più o meno violenti e i linciaggi che si sono scatenati sul web.
Oltre che al diretto interessato —a cui ovviamente è lecito muovere critiche e disapprovazione— le più colpite sono state in particolare tre donne: Boldrini, Boschi e sua moglie Agnese Landini.
Per Boldrini, su cui ho già avuto modo di esprimermi in diverse occasioni, i giorni di sessismo sono stati molto più di mille, partendo dal famoso episodio in cui Beppe Grillo, in uno dei suoi tanti post acchiappaclick, incitava i suoi accoliti a esprimersi nel caso in cui si fossero trovati in macchina con Boldrini.
Ovviamente quello che ne scaturì fu una delle pagine più vergognose non solo della storia della politica ma anche dell’umanità .
Nessuno dei cinque stelle si curò di scusarsi con la Presidente della Camera, ma anzi, l’allora capo della comunicazione, Claudio Messora, in un tweet, rasserenò Boldrini di non correre alcun rischio di stupro alludendo al suo non appetibile aspetto fisico perché, secondo l’illuminato Messora, solo le donne giovanissime e bellissime sono vittime di violenza sessuale.
Ma ovviamente non fu l’unico episodio in cui Laura Boldrini fu bersaglio di insulti misogini e imbarazzanti.
Oltre ai cinque stelle anche Salvini più volte è stato fautore di attacchi vergognosi ai danni di Boldrini. Tra gli altri ricordiamo quando, in uno squallido spettacolino, la paragonò a una bambola gonfiabile.
Proprio qualche giorno fa, esattamente il 25 novembre, Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne, la stessa Presidente pubblicò alcuni degli insulti ricevuti nell’ultimo mese
Tante volte ci siamo chiesti: perché Laura Boldrini catalizza tutto questo odio?
Partiamo col chiarire che chi giustifica questi comportamenti vergognosi, legittimandoli con una presunta rabbia del popolo, non fa altro che avallarli.
Boldrini è stata, ed è, uno dei bersagli preferiti di buona parte degli italiani innanzitutto perché è una donna che ricopre un ruolo rilevante, un ruolo tradizionalmente riservato agli uomini. Inutile girarci intorno, inutile fingere che il livello culturale e dell’emancipazione femminile sia, tutto sommato, a buon punto, inutile fingere che Boldrini scateni questo odio perché è antipatica perché, a seconda di qualcuno, ricorderebbe la maestrina con la penna rossa o perché il popolo è arrabbiato. Diciamo le cose come stanno: gli italiani non sono ancora abituati a rapportarsi con donne che ricoprono posizioni di potere.
Oltre che dai sessisti, più o meno latenti, Boldrini è vittima di tanto odio anche per il suo impegno per i migranti e le minoranze; sicché aggiungiamoci anche gli insulti a sfondo razzista e xenofobo.
Numerosissime sono state, nel corso di questi anni, le bufale costruite intorno alla sua figura, ai migranti e ad altri simboli sacri dell’italiano medio che Boldrini avrebbe messo in discussione. Dai tatuaggi vietati sul posto di lavoro al divieto del presepe e l’albero di Natale. Dalla bufala dell’obbligo di burqa per tutte le donne italiane alla tassa sulla carne di maiale.
L’odio per Boldrini unisce le estreme destre alle estreme sinistre, come quando, nel convegno su ‘Donne e media’ al Senato, Laura Boldrini affrontò il tema del sessismo nei media. Ne parlammo qui. Anche in quel caso ci fu l’ennesimo linciaggio nei suoi confronti, non solo dai casapoundiani ma anche da progressisti, da gente di sinistra e da un foltissimo numero di donne, arrabbiatissime dalle parole di Boldrini che aveva messo in discussione il loro sacro ruolo di angelo del focolare e addetta ai fornelli e alle pulizie.
Progressisti e uomini (ma anche donne, eh) di sinistra che per legittimare il proprio maschilismo addossano le colpe alla sua antipatia e alla sua rigidità. Perché ovviamente, da che mondo è mondo, tutte le figure istituzionali, tra un impegno e l’altro, deliziano il popolo con qualche stand up comedy, così, giusto per dimostrare di essere anche simpatici.
Di certo non sarà un caso che questa presunta antipatia, per quanto riguarda politici e figure istituzionali, venga fuori solo quando si sta parlando di donne. Stessa identica cosa è stata rimproverata ad Hillary Clinton e, guarda caso, stessa identica cosa, da anni, viene rimproverata anche ad Angela Merkel —oltre che a ossessivi consigli e frecciatine sul suo look e su come dovrebbe migliorare i suoi outfit.
Per caso qualcuno ha mai sbeffeggiato qualche uomo politico per il suo modo di vestire? Eppure di uomini che vestono in maniera imbarazzante potremmo citarne diversi (vedi camicie di Formigoni)
Non si sa come mai dalle donne ci si aspetti più simpatia che dagli uominI.
Perché le donne dovrebbero sorridere più degli uomini?
Perché mai l’immagine di una donna dovrebbe essere più rassicurante o solare di quella di un uomo? Perché un uomo tutto d’un pezzo è serio e rigoroso e una donna tutta d’un pezzo è una stronza, una maestrina, una scassapalle e un’acida mestruata?
Altra cosa che, ad esempio, viene sempre sottolineata quando in discussione viene messa una politica è la sua incapacità, la sua inadeguatezza a ricoprire il ruolo.
E quale esempio migliore potrei citare se non quello di Maria Elena Boschi a cui tale accusa è stata mossa, praticamente, sin dal primo giorno che si è insidiata come Ministra delle riforme?
Qui apriamo un capitolo enorme su cui ho visto scivolare nel sessismo più becero anche le femministe più dure e pure e radicali.
Ne scrissi ad esempio qui, dove le veniva consigliato di mantenere un profilo basso e praticamente di non andare al mare. Mi è capitato di discutere con femministe “dagli archivi decennali” —o almeno così si sono catalogate—mentre giudicavano Boschi per un paio di scarpe ree di poca serietà e poca professionalità
Non a caso la stessa Boschi, qualche settimana fa, ai microfoni di Formigli, proprio mentre per l’ennesima volta le veniva chiesto circa le sue scarpe leopardate, rispose:
“Mi piacerebbe, in un mondo normale, se una donna decide di impegnarsi in politica, che le scarpe siano l’ultimo dei problemi“.
Gigantografie su suoi piedi e vivisezioni ossessive al limite del feticismo. Perché se indossi scarpe leopardate sarai di sicuro una puttana.
Ragionamenti assurdi persino nei paesi più conservatori e fondamentalisti.
E come al solito chi ha alimentato tutto ciò sono stati proprio i giornali. Come dimenticare tutti gli autorevoli articoli di Scanzi sui piedi di Boschi?
1) “Si narra che Maria Elena Boschi, tra una ballerina azzurra tacco 12 leopardato, ami le scarpe. Le scarpe non amano lei, a giudicare dall’effetto un po’ zampone, ma pazienza”
2) “Il piede femminile più brutto della politica? Quelli di Maria Elena Boschi: sono piedi cicciuti che ‘spanciano’, sono grassottelli e in più lei ha una caviglia bruttina”
Non ci è dato sapere come siano i suoi di piedi, certo è che dallo scarso equilibrio mentre balla un’idea ce la saremmo fatta, ma di gran lunga preferiamo i suoi passi impacciati e scoordinati alla sua penna.
Maria Elena Boschi è diventata, nel corso di questi mille giorni, una vera e propria ossessione per la redazione del Fatto Quotidiano. Immaginiamo quindi, con la caduta del Governo, quanta disperazione si possa respirare in redazione. Di cosa mai parleranno, ora?
Se riportassimo tutti gli editoriali e le vignette che hanno visto come protagonista l’ex ministra non ci basterebbero altri mille giorni.
Quelli di seguito sono solo alcuni degli articoli offensivi che abbiamo visto pubblicare sul Fatto Quotidiano ai danni di Maria Elena Boschi:
Da un articolo di Marco Travaglio sul cartaceo: “Maria Elena trivellata dai pm”
Da un altro articolo di Travaglio su Maria Elena Boschi, datato 12 luglio 2016 dal titolo “Ma papà ti manda sola?”, si legge: Ora si e ci chiederà: e di che parlo allora? Bella domanda. Non saprei: che so, intrattenga il pubblico sull’annosa ansia da prova costume, sull’endemico problema del giro-vita, sulla vexata quaestio della cellulite, o su un argomento a piacere. Ma lasci stare l’Italicum
Le riforme e la politica, ma per carità Maria Elena, non sono cose da donne, torna a parlare di cellulite e diete —di cui, secondo i Bronzi di Riace Scanzi e Travaglio, avresti tanto bisogno.
I suoi piedi, le sue gambe, le sue caviglie e i suoi capelli, ogni parte di questa donna è passata al setaccio.
Questa, ad esempio, è una vignetta che campeggiava sulla prima pagina del Fatto Quotidiano qualche mese fa:
E poi ancora Travaglio in un articolo del 13 luglio 2015 scriveva: “Decisamente più difficile sarà spiegare al pupo come fu che mamma divenne ministro” alludendo immaginiamo già a cosa.
Un conto è criticare il suo operato un altro è accusarla di tresche, rapporti sessuali con questo o quel politico per ottenere tale ruolo.
Avete mai letto fiumi di editoriali sulle cosce di Grillo o di Berlusconi o di D’alema?
L’aspetto di una donna è sempre una colpa, sia che esso sia piacente sia che lo sia meno. Maria Elena Boschi e Rosy Bindi sono due facce della stessa medaglia.
Ma nel primo caso le critiche, gli attacchi e le supposizioni sono state ancora più feroci. Perché in un paese in cui l’Illuminismo sembra debba ancora arrivare se sei una bella donna di sicuro sei una zoccola. Se hai un aspetto piacente automaticamente sei andata a letto con il tuo capo per stare lì. E se in tali corto circuiti cadono persino pseudo femministe, che speranza abbiamo con tutti e tutte gli altri/e?
Una lettrice sulla pagina facebook, mi ha segnalato alcuni dei commenti che ha collezionato su Boschi. Ma ovviamente non sono gli unici, tantissimi giornali e altri autorevoli siti di informazione hanno raccolto, in varie occasioni, tutti i fantastici epiteti rivolti a lei. Basta digitare su google le parole chiave: Boschi+insulti sessisti e apparirà un mondo meraviglioso ai vostri occhi.
C’è stata poi un’altra donna che è stata bersaglio e vittima di dileggio e violenza verbale da buona parte degli e delle italiane.
Schernita e ridicolizzata innanzitutto per il suo aspetto fisico, Agnese Landini, moglie di Renzi, è passata sotto la lente d’ingrandimento, studiata minuziosamente in tutte le angolature come se fosse in lizza per un qualche concorso di bellezza. Inutile dire che se avesse avuto un aspetto che più incarna i canoni di bellezza attuali si sarebbe beccata “troia”, “cagna” e altri meravigliosi appellattivi (vedi Melania Trump).
Ma, al di là del disgustoso body-shaming, quello che personalmente mi ha fatto rivoltare più lo stomaco sono gli insulti a sfondo transfobico, il paragonarla a una transessuale e a Vladimir Luxuria —come se essere transessuale fosse un insulto o una cosa di cui schernirsi.
E anche qui mi è capitato di notare i più accaniti sostenitori dei diritti lgbt cadere in squallidi sfottò condividendo link dove si faceva notare la somiglianza tra Agnese e Vladimir Luxuria.
Gli indignados (di non si sa cosa) sono persino arrivati a scriverle che avrebbe dovuto vergognarsi perché il suo posto da insegnante avrebbe potuto lasciarlo a qualche altro. E certo perché Agnese Landini non è un essere umano a sé, con desideri, aspirazioni e ideali, ma un accessorio del marito.
Perché spesso essere anti questo o quel politico fa totalmente perdere i lumi della ragione. Stessa cosa accadde con Berlusconi quando a essere prese di mira con insulti irripetibili furono Minetti e Carfagna. E anche in quel caso una parte del femminismo diede il meglio di sé, scendendo in piazza non per contestare il modello berlusconiano ma per urlare: “non siamo tutte puttane” —e per l’ennesima volta dividendo le donne in sante e puttane.
Dalle accuse di aver fatto un salto di carriera perché moglie di Renzi (qui troviamo un articolo molto dettagliato circa il suo percorso lavorativo) fino alla marea di insulti che le sono stati indirizzati quando, in veste istituzionale, accompagnò suo marito alla Casa Bianca. In quell’occasione anche la campionessa paralimpica Bebe Vio non fu risparmiata affatto da certe cortesie.
Agnese Landini, fu assalita di insulti, tra gli altri, anche da decine e decine di insegnanti, sicuramente ligi e ligie al proprio dovere, indignati dal fatto che Agnese avesse chiesto un permesso —come fa qualsiasi insegnante e lavoratore del mondo quando ha impegni inderogabili— per importanti motivi istituzionali.
E ovviamente anche lì nessuno perse l’occasione per chiamarla racchia, cesso, transessuale, eccetera.
E per concludere in bellezza, l’ultima trovata dellaggente per prendersela con Agnese Landini è il maglione che indossava domenica sera mentre suo marito annunciava le dimissioni. Questa volta Agnese è “colpevole”, secondo autorevoli pagine facebook, di aver speso 950 euro per un maglione.
E questi sono solo alcuni degli insulti che per l’ennesima volta sono stati mossi ai danni di questa donna E questi sono solo alcuni degli insulti che per l’ennesima volta sono stati mossi ai danni di questa donna
Tutti gli altri potete trovarli qui
Non vorrei entrare in questa polemica imbarazzante ma è lampante che il maglione indossato da Agnese sia totalmente diverso da quello indicato nell’immagine. E se anche fosse, non sarà forse libera di spendere il suo stipendio come meglio crede o dovrebbe stare a preoccuparsi di stupide pagine facebook e dei suoi commentatori che magari postano quei link e quei commenti al vetriolo da uno iPhone ben più costoso di quel maglione?
Ma che importa se indossava davvero quel maglione o meno! Cosa vuole laggente? Un’occasione per chiamare questa o quella donna puttana, mostro, cesso e transessuale. E noi gliela daremo!
Da notare che come al solito parte dei commenti sono stati scritti da donne che tra le altre cose avevano incorniciato la propria foto profilo con la scritta “No alla violenza sulle donne”.
Insomma, un paese profondamente povero di umanità e di empatia, confuso, analfabeta e che incapace di muovere critiche nel merito (anche perché tutto ciò comporterebbe leggere e informarsi, apprendere notizie da chi fa giornalismo in maniera seria e autorevole e non dai soliti siti bufalari su cui ormai buona parte di italiani è abituto ad informarsi) ha come passatempo preferito il linciaggio a sfondo sessista, razzista e omofobico sul web.
http://narrazionidifferenti.altervista.org/mille-piu-giorni-sessismo-laura-maria-elena-agnese/
Oltre che al diretto interessato —a cui ovviamente è lecito muovere critiche e disapprovazione— le più colpite sono state in particolare tre donne: Boldrini, Boschi e sua moglie Agnese Landini.
Per Boldrini, su cui ho già avuto modo di esprimermi in diverse occasioni, i giorni di sessismo sono stati molto più di mille, partendo dal famoso episodio in cui Beppe Grillo, in uno dei suoi tanti post acchiappaclick, incitava i suoi accoliti a esprimersi nel caso in cui si fossero trovati in macchina con Boldrini.
Ovviamente quello che ne scaturì fu una delle pagine più vergognose non solo della storia della politica ma anche dell’umanità .
Nessuno dei cinque stelle si curò di scusarsi con la Presidente della Camera, ma anzi, l’allora capo della comunicazione, Claudio Messora, in un tweet, rasserenò Boldrini di non correre alcun rischio di stupro alludendo al suo non appetibile aspetto fisico perché, secondo l’illuminato Messora, solo le donne giovanissime e bellissime sono vittime di violenza sessuale.
Ma ovviamente non fu l’unico episodio in cui Laura Boldrini fu bersaglio di insulti misogini e imbarazzanti.
Oltre ai cinque stelle anche Salvini più volte è stato fautore di attacchi vergognosi ai danni di Boldrini. Tra gli altri ricordiamo quando, in uno squallido spettacolino, la paragonò a una bambola gonfiabile.
Proprio qualche giorno fa, esattamente il 25 novembre, Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne, la stessa Presidente pubblicò alcuni degli insulti ricevuti nell’ultimo mese
Tante volte ci siamo chiesti: perché Laura Boldrini catalizza tutto questo odio?
Partiamo col chiarire che chi giustifica questi comportamenti vergognosi, legittimandoli con una presunta rabbia del popolo, non fa altro che avallarli.
Boldrini è stata, ed è, uno dei bersagli preferiti di buona parte degli italiani innanzitutto perché è una donna che ricopre un ruolo rilevante, un ruolo tradizionalmente riservato agli uomini. Inutile girarci intorno, inutile fingere che il livello culturale e dell’emancipazione femminile sia, tutto sommato, a buon punto, inutile fingere che Boldrini scateni questo odio perché è antipatica perché, a seconda di qualcuno, ricorderebbe la maestrina con la penna rossa o perché il popolo è arrabbiato. Diciamo le cose come stanno: gli italiani non sono ancora abituati a rapportarsi con donne che ricoprono posizioni di potere.
Oltre che dai sessisti, più o meno latenti, Boldrini è vittima di tanto odio anche per il suo impegno per i migranti e le minoranze; sicché aggiungiamoci anche gli insulti a sfondo razzista e xenofobo.
Numerosissime sono state, nel corso di questi anni, le bufale costruite intorno alla sua figura, ai migranti e ad altri simboli sacri dell’italiano medio che Boldrini avrebbe messo in discussione. Dai tatuaggi vietati sul posto di lavoro al divieto del presepe e l’albero di Natale. Dalla bufala dell’obbligo di burqa per tutte le donne italiane alla tassa sulla carne di maiale.
L’odio per Boldrini unisce le estreme destre alle estreme sinistre, come quando, nel convegno su ‘Donne e media’ al Senato, Laura Boldrini affrontò il tema del sessismo nei media. Ne parlammo qui. Anche in quel caso ci fu l’ennesimo linciaggio nei suoi confronti, non solo dai casapoundiani ma anche da progressisti, da gente di sinistra e da un foltissimo numero di donne, arrabbiatissime dalle parole di Boldrini che aveva messo in discussione il loro sacro ruolo di angelo del focolare e addetta ai fornelli e alle pulizie.
Progressisti e uomini (ma anche donne, eh) di sinistra che per legittimare il proprio maschilismo addossano le colpe alla sua antipatia e alla sua rigidità. Perché ovviamente, da che mondo è mondo, tutte le figure istituzionali, tra un impegno e l’altro, deliziano il popolo con qualche stand up comedy, così, giusto per dimostrare di essere anche simpatici.
Di certo non sarà un caso che questa presunta antipatia, per quanto riguarda politici e figure istituzionali, venga fuori solo quando si sta parlando di donne. Stessa identica cosa è stata rimproverata ad Hillary Clinton e, guarda caso, stessa identica cosa, da anni, viene rimproverata anche ad Angela Merkel —oltre che a ossessivi consigli e frecciatine sul suo look e su come dovrebbe migliorare i suoi outfit.
Per caso qualcuno ha mai sbeffeggiato qualche uomo politico per il suo modo di vestire? Eppure di uomini che vestono in maniera imbarazzante potremmo citarne diversi (vedi camicie di Formigoni)
Non si sa come mai dalle donne ci si aspetti più simpatia che dagli uominI.
Perché le donne dovrebbero sorridere più degli uomini?
Perché mai l’immagine di una donna dovrebbe essere più rassicurante o solare di quella di un uomo? Perché un uomo tutto d’un pezzo è serio e rigoroso e una donna tutta d’un pezzo è una stronza, una maestrina, una scassapalle e un’acida mestruata?
Altra cosa che, ad esempio, viene sempre sottolineata quando in discussione viene messa una politica è la sua incapacità, la sua inadeguatezza a ricoprire il ruolo.
E quale esempio migliore potrei citare se non quello di Maria Elena Boschi a cui tale accusa è stata mossa, praticamente, sin dal primo giorno che si è insidiata come Ministra delle riforme?
Qui apriamo un capitolo enorme su cui ho visto scivolare nel sessismo più becero anche le femministe più dure e pure e radicali.
Ne scrissi ad esempio qui, dove le veniva consigliato di mantenere un profilo basso e praticamente di non andare al mare. Mi è capitato di discutere con femministe “dagli archivi decennali” —o almeno così si sono catalogate—mentre giudicavano Boschi per un paio di scarpe ree di poca serietà e poca professionalità
Non a caso la stessa Boschi, qualche settimana fa, ai microfoni di Formigli, proprio mentre per l’ennesima volta le veniva chiesto circa le sue scarpe leopardate, rispose:
“Mi piacerebbe, in un mondo normale, se una donna decide di impegnarsi in politica, che le scarpe siano l’ultimo dei problemi“.
Gigantografie su suoi piedi e vivisezioni ossessive al limite del feticismo. Perché se indossi scarpe leopardate sarai di sicuro una puttana.
Ragionamenti assurdi persino nei paesi più conservatori e fondamentalisti.
E come al solito chi ha alimentato tutto ciò sono stati proprio i giornali. Come dimenticare tutti gli autorevoli articoli di Scanzi sui piedi di Boschi?
1) “Si narra che Maria Elena Boschi, tra una ballerina azzurra tacco 12 leopardato, ami le scarpe. Le scarpe non amano lei, a giudicare dall’effetto un po’ zampone, ma pazienza”
2) “Il piede femminile più brutto della politica? Quelli di Maria Elena Boschi: sono piedi cicciuti che ‘spanciano’, sono grassottelli e in più lei ha una caviglia bruttina”
Non ci è dato sapere come siano i suoi di piedi, certo è che dallo scarso equilibrio mentre balla un’idea ce la saremmo fatta, ma di gran lunga preferiamo i suoi passi impacciati e scoordinati alla sua penna.
Maria Elena Boschi è diventata, nel corso di questi mille giorni, una vera e propria ossessione per la redazione del Fatto Quotidiano. Immaginiamo quindi, con la caduta del Governo, quanta disperazione si possa respirare in redazione. Di cosa mai parleranno, ora?
Se riportassimo tutti gli editoriali e le vignette che hanno visto come protagonista l’ex ministra non ci basterebbero altri mille giorni.
Quelli di seguito sono solo alcuni degli articoli offensivi che abbiamo visto pubblicare sul Fatto Quotidiano ai danni di Maria Elena Boschi:
Da un articolo di Marco Travaglio sul cartaceo: “Maria Elena trivellata dai pm”
Da un altro articolo di Travaglio su Maria Elena Boschi, datato 12 luglio 2016 dal titolo “Ma papà ti manda sola?”, si legge: Ora si e ci chiederà: e di che parlo allora? Bella domanda. Non saprei: che so, intrattenga il pubblico sull’annosa ansia da prova costume, sull’endemico problema del giro-vita, sulla vexata quaestio della cellulite, o su un argomento a piacere. Ma lasci stare l’Italicum
Le riforme e la politica, ma per carità Maria Elena, non sono cose da donne, torna a parlare di cellulite e diete —di cui, secondo i Bronzi di Riace Scanzi e Travaglio, avresti tanto bisogno.
I suoi piedi, le sue gambe, le sue caviglie e i suoi capelli, ogni parte di questa donna è passata al setaccio.
Questa, ad esempio, è una vignetta che campeggiava sulla prima pagina del Fatto Quotidiano qualche mese fa:
E poi ancora Travaglio in un articolo del 13 luglio 2015 scriveva: “Decisamente più difficile sarà spiegare al pupo come fu che mamma divenne ministro” alludendo immaginiamo già a cosa.
Un conto è criticare il suo operato un altro è accusarla di tresche, rapporti sessuali con questo o quel politico per ottenere tale ruolo.
Avete mai letto fiumi di editoriali sulle cosce di Grillo o di Berlusconi o di D’alema?
L’aspetto di una donna è sempre una colpa, sia che esso sia piacente sia che lo sia meno. Maria Elena Boschi e Rosy Bindi sono due facce della stessa medaglia.
Ma nel primo caso le critiche, gli attacchi e le supposizioni sono state ancora più feroci. Perché in un paese in cui l’Illuminismo sembra debba ancora arrivare se sei una bella donna di sicuro sei una zoccola. Se hai un aspetto piacente automaticamente sei andata a letto con il tuo capo per stare lì. E se in tali corto circuiti cadono persino pseudo femministe, che speranza abbiamo con tutti e tutte gli altri/e?
Una lettrice sulla pagina facebook, mi ha segnalato alcuni dei commenti che ha collezionato su Boschi. Ma ovviamente non sono gli unici, tantissimi giornali e altri autorevoli siti di informazione hanno raccolto, in varie occasioni, tutti i fantastici epiteti rivolti a lei. Basta digitare su google le parole chiave: Boschi+insulti sessisti e apparirà un mondo meraviglioso ai vostri occhi.
C’è stata poi un’altra donna che è stata bersaglio e vittima di dileggio e violenza verbale da buona parte degli e delle italiane.
Schernita e ridicolizzata innanzitutto per il suo aspetto fisico, Agnese Landini, moglie di Renzi, è passata sotto la lente d’ingrandimento, studiata minuziosamente in tutte le angolature come se fosse in lizza per un qualche concorso di bellezza. Inutile dire che se avesse avuto un aspetto che più incarna i canoni di bellezza attuali si sarebbe beccata “troia”, “cagna” e altri meravigliosi appellattivi (vedi Melania Trump).
Ma, al di là del disgustoso body-shaming, quello che personalmente mi ha fatto rivoltare più lo stomaco sono gli insulti a sfondo transfobico, il paragonarla a una transessuale e a Vladimir Luxuria —come se essere transessuale fosse un insulto o una cosa di cui schernirsi.
E anche qui mi è capitato di notare i più accaniti sostenitori dei diritti lgbt cadere in squallidi sfottò condividendo link dove si faceva notare la somiglianza tra Agnese e Vladimir Luxuria.
Gli indignados (di non si sa cosa) sono persino arrivati a scriverle che avrebbe dovuto vergognarsi perché il suo posto da insegnante avrebbe potuto lasciarlo a qualche altro. E certo perché Agnese Landini non è un essere umano a sé, con desideri, aspirazioni e ideali, ma un accessorio del marito.
Perché spesso essere anti questo o quel politico fa totalmente perdere i lumi della ragione. Stessa cosa accadde con Berlusconi quando a essere prese di mira con insulti irripetibili furono Minetti e Carfagna. E anche in quel caso una parte del femminismo diede il meglio di sé, scendendo in piazza non per contestare il modello berlusconiano ma per urlare: “non siamo tutte puttane” —e per l’ennesima volta dividendo le donne in sante e puttane.
Dalle accuse di aver fatto un salto di carriera perché moglie di Renzi (qui troviamo un articolo molto dettagliato circa il suo percorso lavorativo) fino alla marea di insulti che le sono stati indirizzati quando, in veste istituzionale, accompagnò suo marito alla Casa Bianca. In quell’occasione anche la campionessa paralimpica Bebe Vio non fu risparmiata affatto da certe cortesie.
Agnese Landini, fu assalita di insulti, tra gli altri, anche da decine e decine di insegnanti, sicuramente ligi e ligie al proprio dovere, indignati dal fatto che Agnese avesse chiesto un permesso —come fa qualsiasi insegnante e lavoratore del mondo quando ha impegni inderogabili— per importanti motivi istituzionali.
E ovviamente anche lì nessuno perse l’occasione per chiamarla racchia, cesso, transessuale, eccetera.
E per concludere in bellezza, l’ultima trovata dellaggente per prendersela con Agnese Landini è il maglione che indossava domenica sera mentre suo marito annunciava le dimissioni. Questa volta Agnese è “colpevole”, secondo autorevoli pagine facebook, di aver speso 950 euro per un maglione.
E questi sono solo alcuni degli insulti che per l’ennesima volta sono stati mossi ai danni di questa donna E questi sono solo alcuni degli insulti che per l’ennesima volta sono stati mossi ai danni di questa donna
Tutti gli altri potete trovarli qui
Non vorrei entrare in questa polemica imbarazzante ma è lampante che il maglione indossato da Agnese sia totalmente diverso da quello indicato nell’immagine. E se anche fosse, non sarà forse libera di spendere il suo stipendio come meglio crede o dovrebbe stare a preoccuparsi di stupide pagine facebook e dei suoi commentatori che magari postano quei link e quei commenti al vetriolo da uno iPhone ben più costoso di quel maglione?
Ma che importa se indossava davvero quel maglione o meno! Cosa vuole laggente? Un’occasione per chiamare questa o quella donna puttana, mostro, cesso e transessuale. E noi gliela daremo!
Da notare che come al solito parte dei commenti sono stati scritti da donne che tra le altre cose avevano incorniciato la propria foto profilo con la scritta “No alla violenza sulle donne”.
Insomma, un paese profondamente povero di umanità e di empatia, confuso, analfabeta e che incapace di muovere critiche nel merito (anche perché tutto ciò comporterebbe leggere e informarsi, apprendere notizie da chi fa giornalismo in maniera seria e autorevole e non dai soliti siti bufalari su cui ormai buona parte di italiani è abituto ad informarsi) ha come passatempo preferito il linciaggio a sfondo sessista, razzista e omofobico sul web.
http://narrazionidifferenti.altervista.org/mille-piu-giorni-sessismo-laura-maria-elena-agnese/
lunedì 12 dicembre 2016
La colpa di essere la moglie di Renzi di Romina Fiore
Insultata e denigrata senza ritegno.
Certo, porta con sé il fardello di essersi maritata con Matteo Renzi e tanto è bastato per rovesciarle addosso, insieme alla mole di insulti gratuiti che sarebbero arrivati comunque, anche l’abominevole deriva lessicale patrocinata dal coniuge.
Rottamiamo, Ciaone e tutta la risacca di quel linguaggio distruttivo e sprezzante, arrogante e superbo, di cui lui ha dato prova in numerose occasioni, le è piovuta sulle spalle.
Ha commesso l’imperdonabile errore di aver sposato Renzi in un mondo dall’insulto facile, dalla denigrazione di default, dall’offesa che tracima oltre l’obiettivo e va a schernire l’entourage, frugando anche nell’albero genealogico, pur di trovare capri espiatori sui quali accanirsi.
Hanno cominciato col suo aspetto fisico, fatta a pezzi come quarti di bue perché non avvenente.
Non poter sfoderare un’esteriorità conforme ai canoni di bellezza classici è una negligenza inammissibile che ha sdoganato la sequela di paragoni indegni, nomignoli tipo Luxuria, per un’imprecisata somiglianza, e altre analoghe irrisioni.
Ma se, invece, la fortuna l’avesse baciata in fronte fornendole una bellezza oggettiva e unanimemente riconosciuta, il vituperio sarebbe stato circoscritto nel perimetro della mignottaggine e inviti a intraprendere la carriera del porno. Cosi come stanno facendo con Maria Elena Boschi, ma non divaghiamo.
Agnese Landini è un’insegnante che ha scelto di restare tale.
È passata di ruolo grazie all’abilitazione conseguita con la SSIS nel 2007 e poi alla chiamata diretta prevista dalla legge, per mezzo della quale hanno firmato il contratto a tempo indeterminato molti colleghi che lavorano con me quotidianamente.
Lei aveva nelle suole delle scarpe otto anni di precariato, il doppio di quanti ne avessi io all’atto della mia immissione in ruolo, per intenderci, ma le accuse che avesse ottenuto l’incarico grazie al marito, oltretutto a Firenze, sono state abbondanti e partorite dalle bocche ignoranti di chi non ha la minima cognizione di come funzioni il reclutamento dei docenti.
– È andata col marito negli USA anziché andare a lavorare – recitava una delle tante accuse.
Beh, forse non tutti sanno che il Contratto Collettivo Nazionale del Lavoro prevede che i dipendenti, pubblici e privati, godano di un permesso retribuito di tre giorni l’anno e che nella mia carriera da docente ho visto colleghi usufruirne per portare il cane dal veterinario, per un trasloco e per altri motivi a vario titolo futili e validi.
Ha preferito portare avanti la sua professione, come una donna qualsiasi, anziché indossare il ruolo da first lady divisa tra manifestazioni di beneficenza e serate con le amiche al Circolo del Bridge. È rimasta nell’ombra, discreta e riguardosa del ruolo di sfondo, con una dignità degna d’esempio.
E, nonostante ciò, è diventata il parafulmine dell’aggressività e dell’insulto becero e sguaiato, di fauci con canini in vista e grondanti di bava che ne hanno accompagnato il cammino, sebbene riservato e appartato.
Ma poi è arrivato quello sguardo, inquadrato di sfuggita dalla telecamera, in occasione del discorso di dimissioni del suo uomo.
Lei era lì, in un angolo, ad ascoltare.
Forse la sua presenza era anche funzionale a un teatrino organizzato a dovere dai consulenti di immagine del marito.
Non lo sappiamo.
Forse le hanno imposto pure quel maglione, oggettivamente bruttarello, per far leva su una parvenza casalinga e casuale.
E non sappiamo nemmeno questo.
Ma lo sguardo composto, onorevole e signorile carico di tenerezza e comprensione, con cui una donna contempla il proprio uomo in un momento difficilissimo, è arrivato come un cazzotto allo stomaco.
E con quello sguardo ha tumulato voi e la vostra idiota e perfida cafonaggine.
http://www.sardegnablogger.it/la-colpa-dellessere-moglie-renzi-romina-fiore/
Certo, porta con sé il fardello di essersi maritata con Matteo Renzi e tanto è bastato per rovesciarle addosso, insieme alla mole di insulti gratuiti che sarebbero arrivati comunque, anche l’abominevole deriva lessicale patrocinata dal coniuge.
Rottamiamo, Ciaone e tutta la risacca di quel linguaggio distruttivo e sprezzante, arrogante e superbo, di cui lui ha dato prova in numerose occasioni, le è piovuta sulle spalle.
Ha commesso l’imperdonabile errore di aver sposato Renzi in un mondo dall’insulto facile, dalla denigrazione di default, dall’offesa che tracima oltre l’obiettivo e va a schernire l’entourage, frugando anche nell’albero genealogico, pur di trovare capri espiatori sui quali accanirsi.
Hanno cominciato col suo aspetto fisico, fatta a pezzi come quarti di bue perché non avvenente.
Non poter sfoderare un’esteriorità conforme ai canoni di bellezza classici è una negligenza inammissibile che ha sdoganato la sequela di paragoni indegni, nomignoli tipo Luxuria, per un’imprecisata somiglianza, e altre analoghe irrisioni.
Ma se, invece, la fortuna l’avesse baciata in fronte fornendole una bellezza oggettiva e unanimemente riconosciuta, il vituperio sarebbe stato circoscritto nel perimetro della mignottaggine e inviti a intraprendere la carriera del porno. Cosi come stanno facendo con Maria Elena Boschi, ma non divaghiamo.
Agnese Landini è un’insegnante che ha scelto di restare tale.
È passata di ruolo grazie all’abilitazione conseguita con la SSIS nel 2007 e poi alla chiamata diretta prevista dalla legge, per mezzo della quale hanno firmato il contratto a tempo indeterminato molti colleghi che lavorano con me quotidianamente.
Lei aveva nelle suole delle scarpe otto anni di precariato, il doppio di quanti ne avessi io all’atto della mia immissione in ruolo, per intenderci, ma le accuse che avesse ottenuto l’incarico grazie al marito, oltretutto a Firenze, sono state abbondanti e partorite dalle bocche ignoranti di chi non ha la minima cognizione di come funzioni il reclutamento dei docenti.
– È andata col marito negli USA anziché andare a lavorare – recitava una delle tante accuse.
Beh, forse non tutti sanno che il Contratto Collettivo Nazionale del Lavoro prevede che i dipendenti, pubblici e privati, godano di un permesso retribuito di tre giorni l’anno e che nella mia carriera da docente ho visto colleghi usufruirne per portare il cane dal veterinario, per un trasloco e per altri motivi a vario titolo futili e validi.
Ha preferito portare avanti la sua professione, come una donna qualsiasi, anziché indossare il ruolo da first lady divisa tra manifestazioni di beneficenza e serate con le amiche al Circolo del Bridge. È rimasta nell’ombra, discreta e riguardosa del ruolo di sfondo, con una dignità degna d’esempio.
E, nonostante ciò, è diventata il parafulmine dell’aggressività e dell’insulto becero e sguaiato, di fauci con canini in vista e grondanti di bava che ne hanno accompagnato il cammino, sebbene riservato e appartato.
Ma poi è arrivato quello sguardo, inquadrato di sfuggita dalla telecamera, in occasione del discorso di dimissioni del suo uomo.
Lei era lì, in un angolo, ad ascoltare.
Forse la sua presenza era anche funzionale a un teatrino organizzato a dovere dai consulenti di immagine del marito.
Non lo sappiamo.
Forse le hanno imposto pure quel maglione, oggettivamente bruttarello, per far leva su una parvenza casalinga e casuale.
E non sappiamo nemmeno questo.
Ma lo sguardo composto, onorevole e signorile carico di tenerezza e comprensione, con cui una donna contempla il proprio uomo in un momento difficilissimo, è arrivato come un cazzotto allo stomaco.
E con quello sguardo ha tumulato voi e la vostra idiota e perfida cafonaggine.
http://www.sardegnablogger.it/la-colpa-dellessere-moglie-renzi-romina-fiore/
giovedì 8 dicembre 2016
Solo una nuova idea di coppia può liberare le donne di Francesca Guinand
Il binomio lavoro-maternità è ancora troppo duro da portare avanti. Tocca agli uomini farsi in parte carico del peso che grava sulle nostre spalle. E a noi sensibilizzarli.
Scrivere tutte le settimane per due anni del lavoro - durissimo - delle mamme e delle donne italiane mi ha cambiato la vita. Personale e professionale. Ho un figlio maschio che sto crescendo libero da comportamenti “di genere”. O almeno ci sto provando. Ho un compagno con il quale sto imparando a dividere il carico di cura di figlio e casa. Ho uno, cento, mille lavori da freelance. Ma oggi, sabato 3 dicembre, mentre questa rubrica compie due anni, solo pochi mesi in meno rispetto a mio figlio, a Roma, nella nuova sede di Luiss Enlabs - l’acceleratore di startup più grande d’Europa - si sta realizzando la prima edizione del Festival "Donne a Lavoro".
UN FOLLE PROGETTO. Ecco il futuro dell’Italia figlia di queste righe digitali. Le persone che ho intervistato e conosciuto per scrivere #mumatwork erano talmente stimolanti, interessanti, mi hanno così ispirata e dato forza che ho deciso, con grande incoscienza, di creare un Festival. Ma non l’ho fatto da sola. La prima persona che ha creduto in questo folle progetto è stata Valeria Fedeli, la vice presidente del Senato. Poi Riccarda Zezza, la presidente di Piano C e co-autrice di maam. Loro sono state le prime a dirmi, sì, vengo. Hanno dato credito a un’idea, alla buona volontà.
AIUTI CRUCIALI. Poi ci sono state le fondatrici della Onlus che abbiamo creato per realizzare il Festival: Maria Grazia Avataneo Fey e Daniela Tonelli. Abbiamo lavorato notte e giorno, sabato e domenica, ad agosto, in malattia e nelle pause dai nostri lavori e delle nostre vite, perlopiù all’alba e di notte. Inoltre, senza location non ci sarebbe stata nessuna manifestazione. I partner sono Luiss Enlabs, LVenture Group, Hitalk e Dla Piper. A tutti loro va il mio ringraziamento.
Nel 30% dei casi la neo-madre perde il lavoro e d'un tratto deve sobbarcarsi la cura di casa e figlio
Il programma della manifestazione è nato dai temi più caldi trattati nella rubrica: la genitorialità, l’esclusione finanziaria, il lavoro del futuro delle ragazze, le aziende che fanno cultura e che sostengono donne e famiglie. Sì, perché se si continua a parlare solo alle donne, se il lavoro flessibile si offre solo alle mamme, il problema non si risolverà mai. Dobbiamo fare con gli uomini: sia in casa che fuori.
IL FIGLIO CAMBIA GLI EQUILIBRI. Se da un lato dobbiamo concedere spazio casalingo ai padri, dall’altro dobbiamo conquistarlo nel lavoro. E il secondo cambiamento è possibile solo se accade qualcosa nella coppia, primo baluardo da scardinare. Perché, come ha raccontato nel suo libro la ricercatrice bolognese Naldini, le coppie italiane quando sono “solo” coppia riescono a essere paritarie. È quando arriva un figlio che gli equilibri si rompono e la donna diventa “solo” madre.
UNA MISSION IMPOSSIBLE. Nel 30% dei casi la madre perde il lavoro e all’improvviso deve sobbarcarsi la cura della casa e del figlio. E all’inizio, per noi italiane che facciamo il primo figlio in media dopo i 32 anni, è davvero una mission impossible. Abituate a pensare solo a noi stesse, all’improvviso dobbiamo pensare unicamente a un’altra persona. È per questo che la chiave della “questione” femminile sono gli uomini. Sia per il lavoro, sia per i figli, sia per la violenza sulle donne. Se deve essere #nonunadimeno dobbiamo parlare con loro, non tra noi stesse.
http://www.lettera43.it/it/articoli/societa/2016/12/02/solo-una-nuova-idea-di-coppia-puo-liberare-le-donne/206951/
Scrivere tutte le settimane per due anni del lavoro - durissimo - delle mamme e delle donne italiane mi ha cambiato la vita. Personale e professionale. Ho un figlio maschio che sto crescendo libero da comportamenti “di genere”. O almeno ci sto provando. Ho un compagno con il quale sto imparando a dividere il carico di cura di figlio e casa. Ho uno, cento, mille lavori da freelance. Ma oggi, sabato 3 dicembre, mentre questa rubrica compie due anni, solo pochi mesi in meno rispetto a mio figlio, a Roma, nella nuova sede di Luiss Enlabs - l’acceleratore di startup più grande d’Europa - si sta realizzando la prima edizione del Festival "Donne a Lavoro".
UN FOLLE PROGETTO. Ecco il futuro dell’Italia figlia di queste righe digitali. Le persone che ho intervistato e conosciuto per scrivere #mumatwork erano talmente stimolanti, interessanti, mi hanno così ispirata e dato forza che ho deciso, con grande incoscienza, di creare un Festival. Ma non l’ho fatto da sola. La prima persona che ha creduto in questo folle progetto è stata Valeria Fedeli, la vice presidente del Senato. Poi Riccarda Zezza, la presidente di Piano C e co-autrice di maam. Loro sono state le prime a dirmi, sì, vengo. Hanno dato credito a un’idea, alla buona volontà.
AIUTI CRUCIALI. Poi ci sono state le fondatrici della Onlus che abbiamo creato per realizzare il Festival: Maria Grazia Avataneo Fey e Daniela Tonelli. Abbiamo lavorato notte e giorno, sabato e domenica, ad agosto, in malattia e nelle pause dai nostri lavori e delle nostre vite, perlopiù all’alba e di notte. Inoltre, senza location non ci sarebbe stata nessuna manifestazione. I partner sono Luiss Enlabs, LVenture Group, Hitalk e Dla Piper. A tutti loro va il mio ringraziamento.
Nel 30% dei casi la neo-madre perde il lavoro e d'un tratto deve sobbarcarsi la cura di casa e figlio
Il programma della manifestazione è nato dai temi più caldi trattati nella rubrica: la genitorialità, l’esclusione finanziaria, il lavoro del futuro delle ragazze, le aziende che fanno cultura e che sostengono donne e famiglie. Sì, perché se si continua a parlare solo alle donne, se il lavoro flessibile si offre solo alle mamme, il problema non si risolverà mai. Dobbiamo fare con gli uomini: sia in casa che fuori.
IL FIGLIO CAMBIA GLI EQUILIBRI. Se da un lato dobbiamo concedere spazio casalingo ai padri, dall’altro dobbiamo conquistarlo nel lavoro. E il secondo cambiamento è possibile solo se accade qualcosa nella coppia, primo baluardo da scardinare. Perché, come ha raccontato nel suo libro la ricercatrice bolognese Naldini, le coppie italiane quando sono “solo” coppia riescono a essere paritarie. È quando arriva un figlio che gli equilibri si rompono e la donna diventa “solo” madre.
UNA MISSION IMPOSSIBLE. Nel 30% dei casi la madre perde il lavoro e all’improvviso deve sobbarcarsi la cura della casa e del figlio. E all’inizio, per noi italiane che facciamo il primo figlio in media dopo i 32 anni, è davvero una mission impossible. Abituate a pensare solo a noi stesse, all’improvviso dobbiamo pensare unicamente a un’altra persona. È per questo che la chiave della “questione” femminile sono gli uomini. Sia per il lavoro, sia per i figli, sia per la violenza sulle donne. Se deve essere #nonunadimeno dobbiamo parlare con loro, non tra noi stesse.
http://www.lettera43.it/it/articoli/societa/2016/12/02/solo-una-nuova-idea-di-coppia-puo-liberare-le-donne/206951/
mercoledì 7 dicembre 2016
Serena Williams, il manifesto femminista della pasionaria: «Io, il miglior tennista di sempre» di Gaia Piccardi
In una lettera aperta a tutte le donne, l’ex numero uno rivendica con orgoglio il diritto ai premi uguali agli uomini e alla parità di genere. Prove generali di un futuro in politica
La pasionaria ha colpito ancora. Con la grinta con cui ha messo in cascina 22 titoli Slam (ma promette di cercare di vincerne 30 entro la fine della carriera: il record, già mostruoso così com’è, diventerebbe disumano da battere). Con l’orgoglio con cui, da gennaio, ripartendo da quell’Australian Open che si è già annessa sei volte, proverà a strappare dalle grinfie della tedesca Angelique Kerber lo scettro di numero uno del ranking mondiale, il simbolo del potere tennistico che le è appartenuto per 309 settimane in totale. A compendio di una stagione dolceamara — trionfo a Wimbledon ma clamorosi scivoloni a Melbourne, a Parigi e ai Giochi di Rio —, Serena Williams ha scritto una lettera aperta al «Porter Magazine Incredible Women 2016 Issue», ripresa dal sito della Wta (l’associazione delle tenniste professioniste) e rimbalzata ai quattro angoli del web. Un vero e proprio manifesto della pasionaria del tennis, sempre pronta a battersi per i diritti delle donne e l’uguaglianza di genere. Un passo che fa di Serena, più di quanto già non lo fosse, un esempio da seguire per le donne afroamericane e non.
Lottate per l’eccellenza
«A tutte le incredibili donne che lottano per l’eccellenza» è l’incipit. «Da bambina avevo un sogno, come sono certa lo abbiate voi: diventare il miglior giocatore di tennis del mondo. Non la miglior giocatrice femmina, il miglior giocatore». Punto. Senza distinzione di sesso. «La mia battaglia è cominciata quando avevo tre anni; da allora non mi sono più fermata». Benché Serena, partita dal ghetto nero di Compton (Los Angeles) insieme alla sorella Venus, abbia raggiunto la vetta dello sport professionistico a suon di risultati, non sembra soddisfatta. «Purtroppo troppo spesso — sottolinea —, noi ragazze non siamo supportate e veniamo scoraggiate dal seguire il cammino che abbiamo scelto. Insieme, però, possiamo cambiare tutto questo. È una questione di resilienza: ciò che era considerato un ostacolo verso il successo, il mio sesso e la mia razza, è diventato un motore per inseguire ciò che voglio dalla vita. Non ho mai permesso che niente e nessuno definissero me e il mio potenziale. Ho scelto di controllare il mio futuro».
Il tema dei soldi? Frustrante
Il tema dei prize money dei tornei pari agli uomini. La polemica tra tennisti e tenniste era riesplosa quest’anno a Indian Wells. Serena non usa giri di parole: «Il discorso sui premi, ogni volta che si ripropone, è frustrante. Il lavoro che ho sostenuto e i sacrifici che ho fatto sono esattamente gli stessi degli uomini. Non vorrei mai che, per lo stesso lavoro, mia figlia venisse retribuita meno di mio figlio. E so che non lo volete nemmeno voi. Sulla strada per il successo a noi donne viene spesso rimproverato di non essere uomini. Come se fosse un difetto! A Roger Federer, Tiger Woods, LeBron James non viene continuamente ricordato che sono maschi. Io credo che noi donne dovremmo essere valutate per i nostri risultati, non per il nostro sesso».
Messaggio alle giovani
E infine il messaggio per le giovani: «Spero che la mia storia vi ispirerà a inseguire la grandezza e l’ottenimento dei vostri sogni. Continuate a sognare in grande: solo così la prossima generazione di donne troverà il coraggio di realizzare i propri».
Firmato Serena Williams. Un futuro in politica assicurato.
http://www.corriere.it/sport/16_dicembre_02/serena-williams-manifesto-femminista-pasionaria-io-miglior-tennista-sempre-fde89d8e-b86f-11e6-886d-3196d477f919.shtml
La pasionaria ha colpito ancora. Con la grinta con cui ha messo in cascina 22 titoli Slam (ma promette di cercare di vincerne 30 entro la fine della carriera: il record, già mostruoso così com’è, diventerebbe disumano da battere). Con l’orgoglio con cui, da gennaio, ripartendo da quell’Australian Open che si è già annessa sei volte, proverà a strappare dalle grinfie della tedesca Angelique Kerber lo scettro di numero uno del ranking mondiale, il simbolo del potere tennistico che le è appartenuto per 309 settimane in totale. A compendio di una stagione dolceamara — trionfo a Wimbledon ma clamorosi scivoloni a Melbourne, a Parigi e ai Giochi di Rio —, Serena Williams ha scritto una lettera aperta al «Porter Magazine Incredible Women 2016 Issue», ripresa dal sito della Wta (l’associazione delle tenniste professioniste) e rimbalzata ai quattro angoli del web. Un vero e proprio manifesto della pasionaria del tennis, sempre pronta a battersi per i diritti delle donne e l’uguaglianza di genere. Un passo che fa di Serena, più di quanto già non lo fosse, un esempio da seguire per le donne afroamericane e non.
Lottate per l’eccellenza
«A tutte le incredibili donne che lottano per l’eccellenza» è l’incipit. «Da bambina avevo un sogno, come sono certa lo abbiate voi: diventare il miglior giocatore di tennis del mondo. Non la miglior giocatrice femmina, il miglior giocatore». Punto. Senza distinzione di sesso. «La mia battaglia è cominciata quando avevo tre anni; da allora non mi sono più fermata». Benché Serena, partita dal ghetto nero di Compton (Los Angeles) insieme alla sorella Venus, abbia raggiunto la vetta dello sport professionistico a suon di risultati, non sembra soddisfatta. «Purtroppo troppo spesso — sottolinea —, noi ragazze non siamo supportate e veniamo scoraggiate dal seguire il cammino che abbiamo scelto. Insieme, però, possiamo cambiare tutto questo. È una questione di resilienza: ciò che era considerato un ostacolo verso il successo, il mio sesso e la mia razza, è diventato un motore per inseguire ciò che voglio dalla vita. Non ho mai permesso che niente e nessuno definissero me e il mio potenziale. Ho scelto di controllare il mio futuro».
Il tema dei soldi? Frustrante
Il tema dei prize money dei tornei pari agli uomini. La polemica tra tennisti e tenniste era riesplosa quest’anno a Indian Wells. Serena non usa giri di parole: «Il discorso sui premi, ogni volta che si ripropone, è frustrante. Il lavoro che ho sostenuto e i sacrifici che ho fatto sono esattamente gli stessi degli uomini. Non vorrei mai che, per lo stesso lavoro, mia figlia venisse retribuita meno di mio figlio. E so che non lo volete nemmeno voi. Sulla strada per il successo a noi donne viene spesso rimproverato di non essere uomini. Come se fosse un difetto! A Roger Federer, Tiger Woods, LeBron James non viene continuamente ricordato che sono maschi. Io credo che noi donne dovremmo essere valutate per i nostri risultati, non per il nostro sesso».
Messaggio alle giovani
E infine il messaggio per le giovani: «Spero che la mia storia vi ispirerà a inseguire la grandezza e l’ottenimento dei vostri sogni. Continuate a sognare in grande: solo così la prossima generazione di donne troverà il coraggio di realizzare i propri».
Firmato Serena Williams. Un futuro in politica assicurato.
http://www.corriere.it/sport/16_dicembre_02/serena-williams-manifesto-femminista-pasionaria-io-miglior-tennista-sempre-fde89d8e-b86f-11e6-886d-3196d477f919.shtml
martedì 6 dicembre 2016
L’uomo che non deve chiedere mai? Non ci piace. Parola di maschi di Luca Milani
Lo GNAM (gruppo nonviolento autocoscienza maschile) è un piccolo gruppo di uomini che da anni cerca di interrogarsi su modi differenti di essere uomini, maschi, rispetto alle rappresentazioni culturali tacitamente condivise. Il 25 novembre, nel corso della diretta non-stop «Questo non è amore» del Corriere della Sera sulla violenza di genere, abbiamo sentito espliciti richiami anche a quei «piccoli atti di gentilezza, di tenerezza» che sarebbero auspicabili nelle relazioni tra i generi.
Lo GNAM è proprio questo: un piccolo atto di gentilezza e di tenerezza quotidiana, fatto da maschi e da uomini che non si riconoscono nella rappresentazione stereotipata dell’«uomo che non deve chiedere mai». Lo GNAM è un gruppo informale/amicale di uomini — insegnanti, operatori sociali, formatori nonviolenti, professori, etc... — attivo sul territorio milanese da più di venticinque anni. È sorto nei primi anni ’90 dall’iniziativa di un piccolo gruppo di uomini, allora di età compresa tra i venti e i trent’anni, accomunati dallo stesso impegno in gruppi e associazioni che si occupavano di formazione alla nonviolenza e di pacifismo.
Il gruppo periodicamente si riunisce in serate più o meno a tema focalizzate sul confronto introspettivo, non giudicante ed esperienziale sull’essere umani-E-maschi. GNAM richiama all’onomatopea del gustare del cibo: è il nome che abbiamo dato ai nostri incontri tra uomini in cui ognuno ha la possibilità di raccontare se stesso e la propria esperienza maschile, anche grazie al pretesto di preparazione e condivisione del buon cibo. Condividiamo delle esperienze personali e ci confrontiamo sulla maschilità in genere, sui diversi modi di viverla, cerchiamo di esplorare le possibili nuove forme della maschilità.
Il modello di maschilità dominante non ci piace e sentiamo la necessità di fare i conti, di confrontarci e di aprire un conflitto con questi modelli nei quali non ci riconosciamo. Non ci piace essere appunto «uomini che non chiedono mai», invece essere persone che amano chiedere, capire, interrogarsi, confrontarsi nel rispetto e nell’amicizia. Non ci piace essere promotori di una falsa sensazione di «bastare a sé stessi» — negando i bisogni anIl gruppo periodicamente si riunisce in serate più o meno a tema focalizzate sul confronto introspettivo, non giudicante ed esperienziale sull’essere umani-E-maschi. GNAM richiama all’onomatopea del gustare del cibo: è il nome che abbiamo dato ai nostri incontri tra uomini in cui ognuno ha la possibilità di raccontare se stesso e la propria esperienza maschile, anche grazie al pretesto di preparazione e condivisione del buon cibo. Condividiamo delle esperienze personali e ci confrontiamo sulla maschilità in genere, sui diversi modi di viverla, cerchiamo di esplorare le possibili nuove forme della maschilità.
Il modello di maschilità dominante non ci piace e sentiamo la necessità di fare i conti, di confrontarci e di aprire un conflitto con questi modelli nei quali non ci riconosciamo. Non ci piace essere appunto «uomini che non chiedono mai», invece essere persone che amano chiedere, capire, interrogarsi, confrontarsi nel rispetto e nell’amicizia. Non ci piace essere promotori di una falsa sensazione di «bastare a sé stessi» — negando i bisogni anche maschili di attaccamento, di affetto, di tenerezza — né ci piace il cliché dell’uomo che non deve manifestare la «debolezza» dei sentimenti, amputato dalla possibilità di chiedere e — quindi – di dare aiuto. Ci piace essere uomini aperti alla condivisione dei sentimenti e dell’affettività, aperti al chiedersi quali siano i ruoli del maschile oggi, attenti a leggere come cambia e se cambia il nostro modo di comunicare con moglie, compagne, compagni, amiche e amici, con colleghe e colleghi.
Ci piace pensare che le cose possano cambiare anche attraverso appunto i «piccoli gesti» che non sono «gesti piccoli», testimoniando nelle relazioni di tutti giorni che è possibile essere uomini e maschi in modo alternativo rispetto ad alcuni assunti stereotipati che poi rischiano di essere alla base di una giustificazione culturale alla violenza:
- rifiutando la mercificazione del corpo della donna, rappresentata come oggetto da possedere, laddove le relazioni sono il tempio del dono reciproco;
- rifiutando la scarsa educazione alla autonomia e al rispetto, in primis nei confronti delle donne — probabilmente dovuta anche alla scarsa educazione alla autonomia, alla responsabilità e al senso del dovere degli uomini stessi;
- rifiutando la scarsa educazione alla gestione dei sentimenti, probabilmente dovuta alla nulla che maschili di attaccamento, di affetto, di tenerezza — né ci piace il cliché dell’uomo che non deve manifestare la «debolezza» dei sentimenti, amputato dalla possibilità di chiedere e — quindi – di dare aiuto. Ci piace essere uomini aperti alla condivisione dei sentimenti e dell’affettività, aperti al chiedersi quali siano i ruoli del maschile oggi, attenti a leggere come cambia e se cambia il nostro modo di comunicare con moglie, compagne, compagni, amiche e amici, con colleghe e colleghi.
Ci piace pensare che le cose possano cambiare anche attraverso appunto i «piccoli gesti» che non sono «gesti piccoli», testimoniando nelle relazioni di tutti giorni che è possibile essere uomini e maschi in modo alternativo rispetto ad alcuni assunti stereotipati che poi rischiano di essere alla base di una giustificazione culturale alla violenza:
- rifiutando la mercificazione del corpo della donna, rappresentata come oggetto da possedere, laddove le relazioni sono il tempio del dono reciproco;
- rifiutando la scarsa educazione alla autonomia e al rispetto, in primis nei confronti delle donne — probabilmente dovuta anche alla scarsa educazione alla autonomia, alla responsabilità e al senso del dovere degli uomini stessi;
- rifiutando la scarsa educazione alla gestione dei sentimenti, probabilmente dovuta alla nulla o quasi capacità di ascolto e di riconoscimento degli stati emotivi.
Ci si potrebbe chiedere perché incontri solo maschili. Siamo dell’idea che (virgolettato di Marco F.) «per poter far emergere le difficoltà che si incontrano nel vivere la propria maschilità e per poter costruire una maschilità diversa, non omologata, possa essere utile anche una momentanea separatezza di genere. La separatezza non è cosa nuova per i maschi: ci sono luoghi, professioni, istituzioni, sport esclusivamente maschili. Spesso in queste sedi si riproducono e si consolidano vecchi modelli di maschilità e di maschilismo. La cosa nuova è provare ad utilizzare la separatezza per vivere diversamente la maschilità, con una critica ai modelli prevalenti e soprattutto per affermare una diversità». Non siamo un gruppo attivamente organizzato sul territorio, ci piacerebbe riuscire a finire il libro che abbiamo iniziato a scrivere collettivamente, incluse delle interessanti ricette (visto che pare andare di moda il tema della cucina…).L’uomo che non deve chiedere mai? Non ci piace.
http://27esimaora.corriere.it/16_dicembre_04/uomo-che-non-deve-chiedere-mai-non-ci-piace-parola-maschi-gnam-gruppo-nonviolento-1e33810c-ba01-11e6-99a2-8ca865283c9e.shtml
Lo GNAM è proprio questo: un piccolo atto di gentilezza e di tenerezza quotidiana, fatto da maschi e da uomini che non si riconoscono nella rappresentazione stereotipata dell’«uomo che non deve chiedere mai». Lo GNAM è un gruppo informale/amicale di uomini — insegnanti, operatori sociali, formatori nonviolenti, professori, etc... — attivo sul territorio milanese da più di venticinque anni. È sorto nei primi anni ’90 dall’iniziativa di un piccolo gruppo di uomini, allora di età compresa tra i venti e i trent’anni, accomunati dallo stesso impegno in gruppi e associazioni che si occupavano di formazione alla nonviolenza e di pacifismo.
Il gruppo periodicamente si riunisce in serate più o meno a tema focalizzate sul confronto introspettivo, non giudicante ed esperienziale sull’essere umani-E-maschi. GNAM richiama all’onomatopea del gustare del cibo: è il nome che abbiamo dato ai nostri incontri tra uomini in cui ognuno ha la possibilità di raccontare se stesso e la propria esperienza maschile, anche grazie al pretesto di preparazione e condivisione del buon cibo. Condividiamo delle esperienze personali e ci confrontiamo sulla maschilità in genere, sui diversi modi di viverla, cerchiamo di esplorare le possibili nuove forme della maschilità.
Il modello di maschilità dominante non ci piace e sentiamo la necessità di fare i conti, di confrontarci e di aprire un conflitto con questi modelli nei quali non ci riconosciamo. Non ci piace essere appunto «uomini che non chiedono mai», invece essere persone che amano chiedere, capire, interrogarsi, confrontarsi nel rispetto e nell’amicizia. Non ci piace essere promotori di una falsa sensazione di «bastare a sé stessi» — negando i bisogni anIl gruppo periodicamente si riunisce in serate più o meno a tema focalizzate sul confronto introspettivo, non giudicante ed esperienziale sull’essere umani-E-maschi. GNAM richiama all’onomatopea del gustare del cibo: è il nome che abbiamo dato ai nostri incontri tra uomini in cui ognuno ha la possibilità di raccontare se stesso e la propria esperienza maschile, anche grazie al pretesto di preparazione e condivisione del buon cibo. Condividiamo delle esperienze personali e ci confrontiamo sulla maschilità in genere, sui diversi modi di viverla, cerchiamo di esplorare le possibili nuove forme della maschilità.
Il modello di maschilità dominante non ci piace e sentiamo la necessità di fare i conti, di confrontarci e di aprire un conflitto con questi modelli nei quali non ci riconosciamo. Non ci piace essere appunto «uomini che non chiedono mai», invece essere persone che amano chiedere, capire, interrogarsi, confrontarsi nel rispetto e nell’amicizia. Non ci piace essere promotori di una falsa sensazione di «bastare a sé stessi» — negando i bisogni anche maschili di attaccamento, di affetto, di tenerezza — né ci piace il cliché dell’uomo che non deve manifestare la «debolezza» dei sentimenti, amputato dalla possibilità di chiedere e — quindi – di dare aiuto. Ci piace essere uomini aperti alla condivisione dei sentimenti e dell’affettività, aperti al chiedersi quali siano i ruoli del maschile oggi, attenti a leggere come cambia e se cambia il nostro modo di comunicare con moglie, compagne, compagni, amiche e amici, con colleghe e colleghi.
Ci piace pensare che le cose possano cambiare anche attraverso appunto i «piccoli gesti» che non sono «gesti piccoli», testimoniando nelle relazioni di tutti giorni che è possibile essere uomini e maschi in modo alternativo rispetto ad alcuni assunti stereotipati che poi rischiano di essere alla base di una giustificazione culturale alla violenza:
- rifiutando la mercificazione del corpo della donna, rappresentata come oggetto da possedere, laddove le relazioni sono il tempio del dono reciproco;
- rifiutando la scarsa educazione alla autonomia e al rispetto, in primis nei confronti delle donne — probabilmente dovuta anche alla scarsa educazione alla autonomia, alla responsabilità e al senso del dovere degli uomini stessi;
- rifiutando la scarsa educazione alla gestione dei sentimenti, probabilmente dovuta alla nulla che maschili di attaccamento, di affetto, di tenerezza — né ci piace il cliché dell’uomo che non deve manifestare la «debolezza» dei sentimenti, amputato dalla possibilità di chiedere e — quindi – di dare aiuto. Ci piace essere uomini aperti alla condivisione dei sentimenti e dell’affettività, aperti al chiedersi quali siano i ruoli del maschile oggi, attenti a leggere come cambia e se cambia il nostro modo di comunicare con moglie, compagne, compagni, amiche e amici, con colleghe e colleghi.
Ci piace pensare che le cose possano cambiare anche attraverso appunto i «piccoli gesti» che non sono «gesti piccoli», testimoniando nelle relazioni di tutti giorni che è possibile essere uomini e maschi in modo alternativo rispetto ad alcuni assunti stereotipati che poi rischiano di essere alla base di una giustificazione culturale alla violenza:
- rifiutando la mercificazione del corpo della donna, rappresentata come oggetto da possedere, laddove le relazioni sono il tempio del dono reciproco;
- rifiutando la scarsa educazione alla autonomia e al rispetto, in primis nei confronti delle donne — probabilmente dovuta anche alla scarsa educazione alla autonomia, alla responsabilità e al senso del dovere degli uomini stessi;
- rifiutando la scarsa educazione alla gestione dei sentimenti, probabilmente dovuta alla nulla o quasi capacità di ascolto e di riconoscimento degli stati emotivi.
Ci si potrebbe chiedere perché incontri solo maschili. Siamo dell’idea che (virgolettato di Marco F.) «per poter far emergere le difficoltà che si incontrano nel vivere la propria maschilità e per poter costruire una maschilità diversa, non omologata, possa essere utile anche una momentanea separatezza di genere. La separatezza non è cosa nuova per i maschi: ci sono luoghi, professioni, istituzioni, sport esclusivamente maschili. Spesso in queste sedi si riproducono e si consolidano vecchi modelli di maschilità e di maschilismo. La cosa nuova è provare ad utilizzare la separatezza per vivere diversamente la maschilità, con una critica ai modelli prevalenti e soprattutto per affermare una diversità». Non siamo un gruppo attivamente organizzato sul territorio, ci piacerebbe riuscire a finire il libro che abbiamo iniziato a scrivere collettivamente, incluse delle interessanti ricette (visto che pare andare di moda il tema della cucina…).L’uomo che non deve chiedere mai? Non ci piace.
http://27esimaora.corriere.it/16_dicembre_04/uomo-che-non-deve-chiedere-mai-non-ci-piace-parola-maschi-gnam-gruppo-nonviolento-1e33810c-ba01-11e6-99a2-8ca865283c9e.shtml
sabato 3 dicembre 2016
Appunti su come crescere un figlio maschio (in particolare il mio).
La scorsa settimana ero a Milano al Tempo delle Donne del Corriere della Sera, a parlare di maternità e figli maschi. Sulle prime il tema mi ha fatto sorridere, non ho idee chiarissime su come sto crescendo Lorenzo in quanto Lorenzo, figuriamoci in quanto figlio maschio. Poi, come spesso succede, mi sono venute in mente delle cose, un po’ le ho dette, un po’ le scrivo qui, ma a freddo, a incontro finito.
Ho pensato che a Lorenzo vorrei dare gli strumenti per uscire bene dall’adolescenza. Se non a pieni voti, comunque in tempo. Ci sono in giro moltissimi adolescenti fuori corso, cinque, dieci, vent’anni in ritardo. L’adolescenza è il momento in cui i ragazzi devono tarare le proprie emozioni, si passa dall’euforia che è il superlativo della gioia, alla disperazione che è il superlativo dell’infelicità in un attimo. Serve a delimitare le soglie del dolore, della felicità, a tracciare il campo di gioco. E allora ci sta l’amore urlato contro, ci sta il melodramma, ci stanno le forzature. Ci stanno per un po’, poi basta. Vorrei che Lorenzo diventasse un uomo capace di vivere i rapporti forte delle proprie emozioni, e non un eterno adolescente in balia di emozioni forti.
Poi vorrei insegnargli a distinguere tra sensibilità e fragilità. Quando un uomo si dimostra sensibile si dice che ha un lato femminile sviluppato. Non so se sia davvero così. Mi pare, però, che le donne mettano in conto la sofferenza più degli uomini e quindi siano più preparate. Gli uomini, dal dolore si fanno prendere quasi sempre alla sprovvista, come quando nei film il protagonista viene colpito in petto da un proiettile e non capisce bene cosa stia accadendo, porta la mano alla ferita, guarda il sangue che gli macchia le dita, stupito, e sembra accorgersi di avere un cuore solo nel momento in cui gli si spezza. Mi pare, continuo con questo mi pare paraculo, perché non sono un’antropologa, né una sociologa, né una maschiologa, che gli uomini abbiano un’incoscienza spavalda e adorabile, che nelle donne acquista consapevolezza e si trasforma in coraggio. Ecco gli uomini sono meno abituati a comprendere l’anatomia dei sentimenti, loro e altrui. Sono più spavaldi ma meno coraggiosi. Le madri forse dovrebbero lavorare lì: meno maschi alfa, più uomini emotivamente alfabetizzati.
Per Lorenzo vorrei essere tante cose ma non una mamma lupa, una mamma ferina, viscerale. Le donne “l’uomo della mia vita l’ho partorito” dimenticano che è l’incipit di quasi tutte le tragedie greche. E lo dico io che mi sono fatta venire il batticuore quella volta che ho trovato Lorenzo ad aspettarmi alla stazione, di ritorno da un viaggio. Però i proclami, le affermazioni di assoluta dedizione, le dichiarazioni di amore furioso sono convinta che ai figli non facciano bene. C’è una maturità anche nella maternità, niente di così difficile, ma semplicemente l’annusata al collo, in quel punto preciso dove il suo odore resta bambino, gliela dai quando dorme, di soppiatto, che l’amore di una mamma è bene che resti un po’ segreto, un po’ clandestino.
L’aggressività non è un valore. Lo sono la tenacia e la determinazione, l’aggressività no.
A Lorenzo vorrei ricordare che è nato con dei privilegi, privilegi economici e sociali naturalmente, ma anche privilegi legati al suo sesso. In quanto maschio, per esempio, la statistica vuole che abbia più facilità ad avere uno stipendio meglio retribuito o che le donne non si sentiranno in diritto di importunarlo per strada o che il numero delle persone con cui deciderà di andare a letto non farà di lui un poco di buono o un ragazzo rispettabile. Gli inglesi lo chiamano “male privilege”. Un dono che non si è guadagnato e mi piacerebbe che come tutti i doni lo spartisse con Marta. Perché crescere con una sorella, una femmina quasi coetanea, è davvero il più grande dei privilegi.
https://tiasmo.wordpress.com/2015/10/12/appunti-su-come-crescere-un-figlio-maschio-in-particolare-il-mio/
Ho pensato che a Lorenzo vorrei dare gli strumenti per uscire bene dall’adolescenza. Se non a pieni voti, comunque in tempo. Ci sono in giro moltissimi adolescenti fuori corso, cinque, dieci, vent’anni in ritardo. L’adolescenza è il momento in cui i ragazzi devono tarare le proprie emozioni, si passa dall’euforia che è il superlativo della gioia, alla disperazione che è il superlativo dell’infelicità in un attimo. Serve a delimitare le soglie del dolore, della felicità, a tracciare il campo di gioco. E allora ci sta l’amore urlato contro, ci sta il melodramma, ci stanno le forzature. Ci stanno per un po’, poi basta. Vorrei che Lorenzo diventasse un uomo capace di vivere i rapporti forte delle proprie emozioni, e non un eterno adolescente in balia di emozioni forti.
Poi vorrei insegnargli a distinguere tra sensibilità e fragilità. Quando un uomo si dimostra sensibile si dice che ha un lato femminile sviluppato. Non so se sia davvero così. Mi pare, però, che le donne mettano in conto la sofferenza più degli uomini e quindi siano più preparate. Gli uomini, dal dolore si fanno prendere quasi sempre alla sprovvista, come quando nei film il protagonista viene colpito in petto da un proiettile e non capisce bene cosa stia accadendo, porta la mano alla ferita, guarda il sangue che gli macchia le dita, stupito, e sembra accorgersi di avere un cuore solo nel momento in cui gli si spezza. Mi pare, continuo con questo mi pare paraculo, perché non sono un’antropologa, né una sociologa, né una maschiologa, che gli uomini abbiano un’incoscienza spavalda e adorabile, che nelle donne acquista consapevolezza e si trasforma in coraggio. Ecco gli uomini sono meno abituati a comprendere l’anatomia dei sentimenti, loro e altrui. Sono più spavaldi ma meno coraggiosi. Le madri forse dovrebbero lavorare lì: meno maschi alfa, più uomini emotivamente alfabetizzati.
Per Lorenzo vorrei essere tante cose ma non una mamma lupa, una mamma ferina, viscerale. Le donne “l’uomo della mia vita l’ho partorito” dimenticano che è l’incipit di quasi tutte le tragedie greche. E lo dico io che mi sono fatta venire il batticuore quella volta che ho trovato Lorenzo ad aspettarmi alla stazione, di ritorno da un viaggio. Però i proclami, le affermazioni di assoluta dedizione, le dichiarazioni di amore furioso sono convinta che ai figli non facciano bene. C’è una maturità anche nella maternità, niente di così difficile, ma semplicemente l’annusata al collo, in quel punto preciso dove il suo odore resta bambino, gliela dai quando dorme, di soppiatto, che l’amore di una mamma è bene che resti un po’ segreto, un po’ clandestino.
L’aggressività non è un valore. Lo sono la tenacia e la determinazione, l’aggressività no.
A Lorenzo vorrei ricordare che è nato con dei privilegi, privilegi economici e sociali naturalmente, ma anche privilegi legati al suo sesso. In quanto maschio, per esempio, la statistica vuole che abbia più facilità ad avere uno stipendio meglio retribuito o che le donne non si sentiranno in diritto di importunarlo per strada o che il numero delle persone con cui deciderà di andare a letto non farà di lui un poco di buono o un ragazzo rispettabile. Gli inglesi lo chiamano “male privilege”. Un dono che non si è guadagnato e mi piacerebbe che come tutti i doni lo spartisse con Marta. Perché crescere con una sorella, una femmina quasi coetanea, è davvero il più grande dei privilegi.
https://tiasmo.wordpress.com/2015/10/12/appunti-su-come-crescere-un-figlio-maschio-in-particolare-il-mio/
venerdì 2 dicembre 2016
#Nonunadimeno, non una a metà. Il femminicidio si nasconde nelle pieghe della nostra cultura di Wu Ming
«Non una di meno». È il grido che, nelle scorse settimane, ha chiamato alla più importante manifestazione femminista di questi anni. Si svolgerà a Roma nelle prossime ore. Appuntamento alle h.14 in Piazza della Repubblica.
È la cresta dell’onda mondiale che, dall’Argentina alla Polonia, va riempiendo strade e piazze, scuotendo governi e opinioni pubbliche. Lo stesso motto «Non una di meno» arriva dal Cono Sur, da quel «Ni una menos» rimbombato a Buenos Aires il 3 giugno scorso. Quel grido arriva a noi accompagnato dalla presentazione di una nuova Internazionale femminista.
A proposito della grande mobilitazione simultanea iniziata ieri – 25 novembre, Giornata mondiale contro la violenza sulle donne – le compagne argentine scrivono:
«ci riuniremo ed organizzeremo in molteplici e differenti forme: assemblee popolari, radio aperte, escraches, lezioni pubbliche, interruzione delle attività nei luoghi di lavoro, interventi artistici e politici nello spazio urbano […] Confluiremo tutte assieme in una mobilitazione che connette Ciudad Juarez con Mosca, Guayaquil con Belfast, Buenos Aires con Seul e Roma.»
La piazza romana di oggi e l’assemblea di domani chiederanno con forza, tra le altre cose, la profonda revisione del Piano Nazionale Straordinario Antiviolenza, adottato un anno fa dal governo Renzi e giudicato da più parti limitato e ambiguo.
Non una di meno
Ci siamo chiesti: come possiamo contribuire, a modo nostro e nei nostri spazi, a questa mobilitazione?
Nell’appello di Nonunadimeno si legge:
«il femminicidio è solo l’estrema conseguenza della cultura che lo alimenta e lo giustifica. È una fenomenologia strutturale che come tale va affrontata.»
Ciò è molto più vero di quanto possano comunicare tali parole, per quanto giuste.
Nel femminicidio, disgraziatamente, noi ci viviamo. Da troppo tempo.
Il femminicidio e il punto di vista del femminicida sono nella nostra cultura, annidati in profondità, tanto che non sappiamo più distinguerli dal resto.
Per fare un esempio, quante grandi canzoni descrivono innocentemente, svagatamente, addirittura orgogliosamente l’uccisione di una donna da parte di un uomo?
Quante canzoni adottano punto di vista e autogiustificazione del maschio assassino?
Da Via Broletto a Hey Joe, il femminicidio è orecchiabile, gradevole, fa battere il ritmo col piede, e noi empatizziamo con l’io narrante, specialmente nella versione di Willy DeVille tifiamo per Joe, il femminicida che scappa, che fugge verso il Messico, impunito, libero. Femminicidio è libertà.
«Sto andando verso Sud
giù, dove posso essere libero
Nessuno mi troverà
Nessun boia mi metterà intorno una corda
perché ho sparato alla mia donna…»
Un esempio persino più eclatante, una rappresentazione crudele del femminicidio a cui assistiamo sin da bambini e nessuno ci ha mai insegnato a mettere in discussione, è al centro del documentario Donne a metà di Mariano Tomatis. Ripeschiamo da un vecchio post la descrizione della scena:
«un maschio vestito di tutto punto – abbigliato per ostentare potere – lega una donna seminuda, la chiude in una cassa, la sevizia e la sega in due senza che la vittima metta mai in discussione il proprio ruolo e la sorte che deve subire. È la rappresentazione acritica di un femminicidio. È il supplizio della Dalia Nera, ma prima [di Donne a metà] ben pochi ci avevano fatto caso […] Che figata, una donna immobilizzata, infilzata da lame e segata in due! Applausi.»
Di Donne a metà la collega Michela Murgia ha scritto: «Guardatelo e diventerà irrilevante scoprire come si taglia una donna in due. Sarà più importante capire il perché.»
Per questo, proprio oggi, ne riparliamo, e lo consigliamo. Quello che noi maschi possiamo fare è curarci lo sguardo. Fare ogni giorno ginnastica oculare, per imparare a vedere il femminicidio, per metterlo a fuoco. Buona visione.
È la cresta dell’onda mondiale che, dall’Argentina alla Polonia, va riempiendo strade e piazze, scuotendo governi e opinioni pubbliche. Lo stesso motto «Non una di meno» arriva dal Cono Sur, da quel «Ni una menos» rimbombato a Buenos Aires il 3 giugno scorso. Quel grido arriva a noi accompagnato dalla presentazione di una nuova Internazionale femminista.
A proposito della grande mobilitazione simultanea iniziata ieri – 25 novembre, Giornata mondiale contro la violenza sulle donne – le compagne argentine scrivono:
«ci riuniremo ed organizzeremo in molteplici e differenti forme: assemblee popolari, radio aperte, escraches, lezioni pubbliche, interruzione delle attività nei luoghi di lavoro, interventi artistici e politici nello spazio urbano […] Confluiremo tutte assieme in una mobilitazione che connette Ciudad Juarez con Mosca, Guayaquil con Belfast, Buenos Aires con Seul e Roma.»
La piazza romana di oggi e l’assemblea di domani chiederanno con forza, tra le altre cose, la profonda revisione del Piano Nazionale Straordinario Antiviolenza, adottato un anno fa dal governo Renzi e giudicato da più parti limitato e ambiguo.
Non una di meno
Ci siamo chiesti: come possiamo contribuire, a modo nostro e nei nostri spazi, a questa mobilitazione?
Nell’appello di Nonunadimeno si legge:
«il femminicidio è solo l’estrema conseguenza della cultura che lo alimenta e lo giustifica. È una fenomenologia strutturale che come tale va affrontata.»
Ciò è molto più vero di quanto possano comunicare tali parole, per quanto giuste.
Nel femminicidio, disgraziatamente, noi ci viviamo. Da troppo tempo.
Il femminicidio e il punto di vista del femminicida sono nella nostra cultura, annidati in profondità, tanto che non sappiamo più distinguerli dal resto.
Per fare un esempio, quante grandi canzoni descrivono innocentemente, svagatamente, addirittura orgogliosamente l’uccisione di una donna da parte di un uomo?
Quante canzoni adottano punto di vista e autogiustificazione del maschio assassino?
Da Via Broletto a Hey Joe, il femminicidio è orecchiabile, gradevole, fa battere il ritmo col piede, e noi empatizziamo con l’io narrante, specialmente nella versione di Willy DeVille tifiamo per Joe, il femminicida che scappa, che fugge verso il Messico, impunito, libero. Femminicidio è libertà.
«Sto andando verso Sud
giù, dove posso essere libero
Nessuno mi troverà
Nessun boia mi metterà intorno una corda
perché ho sparato alla mia donna…»
Un esempio persino più eclatante, una rappresentazione crudele del femminicidio a cui assistiamo sin da bambini e nessuno ci ha mai insegnato a mettere in discussione, è al centro del documentario Donne a metà di Mariano Tomatis. Ripeschiamo da un vecchio post la descrizione della scena:
«un maschio vestito di tutto punto – abbigliato per ostentare potere – lega una donna seminuda, la chiude in una cassa, la sevizia e la sega in due senza che la vittima metta mai in discussione il proprio ruolo e la sorte che deve subire. È la rappresentazione acritica di un femminicidio. È il supplizio della Dalia Nera, ma prima [di Donne a metà] ben pochi ci avevano fatto caso […] Che figata, una donna immobilizzata, infilzata da lame e segata in due! Applausi.»
Di Donne a metà la collega Michela Murgia ha scritto: «Guardatelo e diventerà irrilevante scoprire come si taglia una donna in due. Sarà più importante capire il perché.»
Per questo, proprio oggi, ne riparliamo, e lo consigliamo. Quello che noi maschi possiamo fare è curarci lo sguardo. Fare ogni giorno ginnastica oculare, per imparare a vedere il femminicidio, per metterlo a fuoco. Buona visione.
giovedì 1 dicembre 2016
Contro la violenza sulle donne il miglior spot è l'educazione di Alessandra Erriquez
Da grande farò l'astronauta, io la veterinaria, io la stilista. In occasione della giornata contro la violenza sulle donne, lo spot Rai ci presenta una carrellata di bambine alle prese con le loro aspettative future.
Da grande finirò in ospedale - dice l'ultima - perché mio marito mi picchia. Ora, lasciamo stare le contestazioni, e anche l'eventuale offesa o efficacia di questa comunicazione. Una bambina dichiara il suo futuro. Chi l'ha deciso quel futuro? Se una donna viene picchiata è perché un uomo la picchia. Mi chiedo, quanto sarebbe stato più potente se nel video fosse stato un bambino a dichiarare il suo futuro di violenza? Non so, ho la sensazione che ci concentriamo molto sulla debolezza e poco sulle responsabilità.
Cresciamo le bambine come principesse, mamme, dottoresse. Bambine dolci, pronte all'accudimento, alla cura. E chi cura le loro identità? Appena una bimba gioca nel terreno, si arrampica sugli alberi o si mette in porta per giocare a calcio la definiamo un maschiaccio. Una descrizione a metà strada tra ciò che non è e un dispregiativo.
Non andiamo meglio con i bambini. Non possono piangere se si fanno male e non possono giocare con le bambole. Destano fierezza se baciano una bambina o si prendono coraggiosamente a botte. Non è il mio mestiere indagare sul perché una donna possa diventare vittima e perché un uomo violento. Mi fa riflettere, tuttavia, che tante donne siano finite nelle mani di un marito violento nel tentativo di scappare da un padre violento.
O che tante, pur circondate dall'amore familiare, siano state vittime perché si sentissero deboli, inferiori, inadeguate. Pur essendo donne brillanti e intelligenti. O che tante si siano innamorate di un uomo per poi conoscere l'inganno. E la paura. O che tante abbiano desiderato indossare un jeans attillato per esprimere la propria femminilità e non per scatenare reazioni. Forse l'unico strumento veramente efficace è l'educazione.
Proviamo a pensare che un maschietto che piange sta soffrendo e che una femminuccia col pallone si sta divertendo, che un ragazzo con tante amiche non è un play boy e che una ragazza con tanti amici non è una poco di buono. Proviamo ad annullare tutti gli stereotipi, i preconcetti e i pregiudizi.
L'unica cosa che viene prima di una violenza è una educazione alla violenza. Mi piace pensare che un bambino cresciuto nel rispetto, quello suo e quello reciproco tra i suoi genitori, abbia poche possibilità di divenire una persona violenta. Non ne ho certezza, è vero. Ma ho certezza invece che un bambino picchiato è un bambino per cui picchiare è, se non giusto, possibile.
Eppure reputiamo spesso lecita la sculacciata. Uno schiaffo non ha mai fatto male a nessuno, ci diciamo, ce l'abbiamo persino in un proverbio: Mazz' e panella fann e figl' bell. Chissà perché non ammettiamo moralmente che un uomo picchi la sua compagna, non ammettiamo violenza quando ci si delude fra amici, non la concediamo per gli scontri in ufficio. Ma da genitore a figlio sì.
Inorridisco dinanzi a storie di donne malmenate, stuprate, sfigurate. Ecco, sfigurate sempre, in un certo senso, donne che perdono una sana immagine di sé. Inorridisco, ma nulla posso. Se non, educare al meglio i miei due figli maschi.
Questo post è apparso per la prima volta su Vocidicameretta.com
http://www.huffingtonpost.it/alessandra-erriquez/contro-la-violenza-sulle-donne-il-miglior-spot-e-leducazione_b_13226948.html
Da grande finirò in ospedale - dice l'ultima - perché mio marito mi picchia. Ora, lasciamo stare le contestazioni, e anche l'eventuale offesa o efficacia di questa comunicazione. Una bambina dichiara il suo futuro. Chi l'ha deciso quel futuro? Se una donna viene picchiata è perché un uomo la picchia. Mi chiedo, quanto sarebbe stato più potente se nel video fosse stato un bambino a dichiarare il suo futuro di violenza? Non so, ho la sensazione che ci concentriamo molto sulla debolezza e poco sulle responsabilità.
Cresciamo le bambine come principesse, mamme, dottoresse. Bambine dolci, pronte all'accudimento, alla cura. E chi cura le loro identità? Appena una bimba gioca nel terreno, si arrampica sugli alberi o si mette in porta per giocare a calcio la definiamo un maschiaccio. Una descrizione a metà strada tra ciò che non è e un dispregiativo.
Non andiamo meglio con i bambini. Non possono piangere se si fanno male e non possono giocare con le bambole. Destano fierezza se baciano una bambina o si prendono coraggiosamente a botte. Non è il mio mestiere indagare sul perché una donna possa diventare vittima e perché un uomo violento. Mi fa riflettere, tuttavia, che tante donne siano finite nelle mani di un marito violento nel tentativo di scappare da un padre violento.
O che tante, pur circondate dall'amore familiare, siano state vittime perché si sentissero deboli, inferiori, inadeguate. Pur essendo donne brillanti e intelligenti. O che tante si siano innamorate di un uomo per poi conoscere l'inganno. E la paura. O che tante abbiano desiderato indossare un jeans attillato per esprimere la propria femminilità e non per scatenare reazioni. Forse l'unico strumento veramente efficace è l'educazione.
Proviamo a pensare che un maschietto che piange sta soffrendo e che una femminuccia col pallone si sta divertendo, che un ragazzo con tante amiche non è un play boy e che una ragazza con tanti amici non è una poco di buono. Proviamo ad annullare tutti gli stereotipi, i preconcetti e i pregiudizi.
L'unica cosa che viene prima di una violenza è una educazione alla violenza. Mi piace pensare che un bambino cresciuto nel rispetto, quello suo e quello reciproco tra i suoi genitori, abbia poche possibilità di divenire una persona violenta. Non ne ho certezza, è vero. Ma ho certezza invece che un bambino picchiato è un bambino per cui picchiare è, se non giusto, possibile.
Eppure reputiamo spesso lecita la sculacciata. Uno schiaffo non ha mai fatto male a nessuno, ci diciamo, ce l'abbiamo persino in un proverbio: Mazz' e panella fann e figl' bell. Chissà perché non ammettiamo moralmente che un uomo picchi la sua compagna, non ammettiamo violenza quando ci si delude fra amici, non la concediamo per gli scontri in ufficio. Ma da genitore a figlio sì.
Inorridisco dinanzi a storie di donne malmenate, stuprate, sfigurate. Ecco, sfigurate sempre, in un certo senso, donne che perdono una sana immagine di sé. Inorridisco, ma nulla posso. Se non, educare al meglio i miei due figli maschi.
Questo post è apparso per la prima volta su Vocidicameretta.com
http://www.huffingtonpost.it/alessandra-erriquez/contro-la-violenza-sulle-donne-il-miglior-spot-e-leducazione_b_13226948.html
domenica 27 novembre 2016
A Roma la carica delle duecentomila contro la violenza Rachele Gonnelli
Capitale donna. I più significativi sono i cartelli fatti a mano, come messaggi in bottiglia: «L’Amore non uccide», ricamato in una casa rifugio. Oppure: «Ti fa paura la mia libertà?»
Appoggiata a un parafango, occhiali con montatura pesante che scendono sul naso, truccatissima, in short e calze nere, regge un cartello con aria disinvolta e sigaretta in mano. Sta scritto semplice semplice: «Se non te la do non te la prendere».
È così, una miriade di cose spiazzanti di questo genere, piccole, grandi, singole, collettive, collettive tutte insieme: una marea, sì, fatta di tante, tantissime onde, una diversa dall’altra. Delle duecentomila persone che hanno sfilato ieri per le strade di Roma – dati delle organizzatrici – al novanta per cento donne, resta questo colpo d’’cchio di tanta complessità. Una dimensione che è lì, nel quotidiano, ma dispersa e poco illuminata, al contrario di ieri quando si è presentata in blocco, per conquistarsi la scena. La più grande manifestazione femminista mai vista dagli anni Settanta. Questa volta con i complimenti del questore per l’organizzazione.
Libere e libertà, le parole, a conti fatti, più gettonate. La manifestazione «Non Una di Meno», con i centri antiviolenza in testa, è stata convocata contro il femminicidio, per affermare uno scatto culturale della società intera nel senso del riconoscimento dell’autodeterminazione femminile, e per chiedere al governo, allo Stato – dalla magistratura ai medici alle forze di polizia – e al sistema dei media, un approccio non più antidiluviano e maschilista al problema della violenza contro le donne.
«La violenza amore non è», «Il patriarcato ci campa con il raptus della stampa», sono gli slogan delle donne di Perugia e Terni. Richiami a una narrazione sbagliata, deformante, arretrata, dei media, alla necessità di un aggiornamento dei codici linguistici per raccontare le donne e gli abusi: «architetta, sindaca, avvocata, anche la lingua va educata», hanno voluto dire da Vicenza, sposando in pieno ciò che da anni vanno predicando le giornaliste dell’associazione Giulia, scese anche loro in piazza ieri.
Poi, come sempre quando si parla certi temi, di sessualità, procreazione, desideri, rapporti di coppia, ruoli, tutto si interseca e si dipana in storie, ma i fili dei ragionamenti sono netti, non si aggrovigliano.
Al concentramento in piazza Esedra tra i primi ad arrivare ci sono Paolo e Diana, una coppia di trentenni, vengono da Livorno e Pavia. Lui, fotografatissimo, ha i capelli rossi e un cartello fuksia,
da lei per la verità, con un simbolo femminista e la scritta: «Educhiamo uomini migliori». Ci crede davvero: «Non penso che dipenda solo dalle donne farsi rispettare e spero mi verrà naturale insegnarlo a una figlia o un figlio, ho avuto la fortuna di avere un padre che è andato presto in pensione e faceva da mangiare, andava lui a parlare con i professori, vincere il maschilismo dipende anche dai modelli maschili che sappiamo trasmettere». Diana è abbastanza ottimista: «Non so se le nuove generazioni siano migliori, se penso alla cassa di risonanza dei social mi viene da pensare che si vada in peggio, ma poi di fronte a una manifestazione così grande e bella si capisce che invece la consapevolezza c’è e si sta diffondendo».
Poco più in là Matteo, 22 anni, porta un cartello un po’ osceno: «Io lavo i piatti», come fosse un gesto di cui farsi vanto. «Ma è che ne lavo tanti!», si scusa, al circolo Arci di Mantova.
Gli uomini, più o meno giovani, sono relegati dietro il Tir noleggiato dal comitato romano «Io Decido» – promotore insieme a Udi e DiRe del corteo nazionale – che divide quasi a metà la fiumana di manifestanti. Subito dietro il bilico che diffonde comunicati, bolle di sapone e taranta, una ragazza romana, Laura, porta sulle spalle una scatola di cartone su cui in verde ha vergato alla svelta la sua risposta: «In questo giorno tanti uomini sono pubblicamente solidali poi arriva domani, chiudono le porte e ti alzano le mani».
Creatività, ce n’è a iosa. Oltre alle consuete bande da strada, di ottoni e di tamburi da capoeira, oltre alle coreografie di trampolieri danzanti, alle coccarde «Io sono mia», alle silouette delle matrioske con i nomi delle donne morte, c’è anche un teatrino su ruote del bar-libreria Tuba del Pigneto: la quinta è una vagina con un pallino stroboscopico in cima, ogni tanto qualcuna tira fuori la testa e recita una poesia o un brano, di Carla Lonzi o Audre Lorde.
I più curiosi e significativi restano comunque i messaggi piccoli, fatti a mano, come pensieri in bottiglia. Il più strano: «La mia favolosità non è un invito a commentare». Mentre una biondina gira freneticamente alzando il suo che parafrasando Non Una di Meno, dice: «Non un euro di meno, il mio lavoro vale quanto quello di un uomo».
La favolosa coalizione di Bologna – si chiama così la rete di «transfemminismo queer e antifascista» nata per contestare le sentinelle in piedi con presenze ironiche e non muscolari e che da sola ha portato a Roma 300 persone – mostra in strada il suo Sfertiliy Game. L’impegno della Favolosa coalizione è concentrato soprattutto sulla difesa della legge 194, oltre alla ricerca laboratoriale di analisi su quello che chiamano «il deturnamento dell’immaginario femminile», in sostanza rivendicando il diritto a una sessualità svincolata da pretesi obblighi procreativi. Laboratori su questi temi denominati «gender panic» pare molto partecipati da ragazze dai 20 ai 35 anni. E dalla discussione fatta è venuto fuori che lo sciopero delle donne polacche contro la proposta di legge che cancellava la possibilità di abortire e l’analogo movimento in Argentina sono state sentite come un segnale, un campanello d’allarme anche in Italia a risvegliare le coscienze e la lotta per i diritti.
Frizione di fondo con il governo è sui finanziamenti ai centri antiviolenza. «La ministra fa solo tavoli tecnici, le Regioni si tengono i soldi in tasca e i centri sono sempre a rischio chiusura», sintetizza Maria Marinelli della casa-rifugio di Latina. Lì una donna che tenta di uscire da maltrattamenti domestici ha ricamato a mano uno striscione a fiori: «L’Amore non uccide». «Vogliamo che i centri siano gestiti da associazioni vere, che trattano le donne non da malate o da utenti, basate sui nostri criteri», dicono.
La rete dei 77 centri DiRe contesta la mancata salvaguardia di una impostazione non professionalizzante dei centri e delle case protette. Ma nella folla della manifestazione c’è anche un piccolo striscione retto da una delegazione del Consiglio nazionale degli psicologi. «Abbiamo posizioni diverse, noi pensiamo che visti i riflessi dei maltrattamenti sulle benessere delle donne e dei loro figli sia un diritto della donna essere assistita dalla sanità pubblica», dice una psicologa del pronto soccorso di Cagliari. «L’ultimo miglio, cioè il percorso nella casa protetta, è giusto sia fatto dalle associazioni di donne – prova a mediare una collega – ma la rete delle essere integrata, istituzionale e operativa».
È un mondo molto ampio quello che combatte la violenza di genere, che per la prima volta si è visto in piazza ieri ma esiste da tempo. Le donne di «Se Non ora Quando» di Osimo dicono che rispetto a quell’appuntamento che decretò la fine di Berlusconi «allora fu una reazione di pancia, ora c’è molta più elaborazione e organizzazione, ci siamo unite».
http://ilmanifesto.info/a-roma-la-carica-delle-duecentomila-contro-la-violenza/
Appoggiata a un parafango, occhiali con montatura pesante che scendono sul naso, truccatissima, in short e calze nere, regge un cartello con aria disinvolta e sigaretta in mano. Sta scritto semplice semplice: «Se non te la do non te la prendere».
È così, una miriade di cose spiazzanti di questo genere, piccole, grandi, singole, collettive, collettive tutte insieme: una marea, sì, fatta di tante, tantissime onde, una diversa dall’altra. Delle duecentomila persone che hanno sfilato ieri per le strade di Roma – dati delle organizzatrici – al novanta per cento donne, resta questo colpo d’’cchio di tanta complessità. Una dimensione che è lì, nel quotidiano, ma dispersa e poco illuminata, al contrario di ieri quando si è presentata in blocco, per conquistarsi la scena. La più grande manifestazione femminista mai vista dagli anni Settanta. Questa volta con i complimenti del questore per l’organizzazione.
Libere e libertà, le parole, a conti fatti, più gettonate. La manifestazione «Non Una di Meno», con i centri antiviolenza in testa, è stata convocata contro il femminicidio, per affermare uno scatto culturale della società intera nel senso del riconoscimento dell’autodeterminazione femminile, e per chiedere al governo, allo Stato – dalla magistratura ai medici alle forze di polizia – e al sistema dei media, un approccio non più antidiluviano e maschilista al problema della violenza contro le donne.
«La violenza amore non è», «Il patriarcato ci campa con il raptus della stampa», sono gli slogan delle donne di Perugia e Terni. Richiami a una narrazione sbagliata, deformante, arretrata, dei media, alla necessità di un aggiornamento dei codici linguistici per raccontare le donne e gli abusi: «architetta, sindaca, avvocata, anche la lingua va educata», hanno voluto dire da Vicenza, sposando in pieno ciò che da anni vanno predicando le giornaliste dell’associazione Giulia, scese anche loro in piazza ieri.
Poi, come sempre quando si parla certi temi, di sessualità, procreazione, desideri, rapporti di coppia, ruoli, tutto si interseca e si dipana in storie, ma i fili dei ragionamenti sono netti, non si aggrovigliano.
Al concentramento in piazza Esedra tra i primi ad arrivare ci sono Paolo e Diana, una coppia di trentenni, vengono da Livorno e Pavia. Lui, fotografatissimo, ha i capelli rossi e un cartello fuksia,
da lei per la verità, con un simbolo femminista e la scritta: «Educhiamo uomini migliori». Ci crede davvero: «Non penso che dipenda solo dalle donne farsi rispettare e spero mi verrà naturale insegnarlo a una figlia o un figlio, ho avuto la fortuna di avere un padre che è andato presto in pensione e faceva da mangiare, andava lui a parlare con i professori, vincere il maschilismo dipende anche dai modelli maschili che sappiamo trasmettere». Diana è abbastanza ottimista: «Non so se le nuove generazioni siano migliori, se penso alla cassa di risonanza dei social mi viene da pensare che si vada in peggio, ma poi di fronte a una manifestazione così grande e bella si capisce che invece la consapevolezza c’è e si sta diffondendo».
Poco più in là Matteo, 22 anni, porta un cartello un po’ osceno: «Io lavo i piatti», come fosse un gesto di cui farsi vanto. «Ma è che ne lavo tanti!», si scusa, al circolo Arci di Mantova.
Gli uomini, più o meno giovani, sono relegati dietro il Tir noleggiato dal comitato romano «Io Decido» – promotore insieme a Udi e DiRe del corteo nazionale – che divide quasi a metà la fiumana di manifestanti. Subito dietro il bilico che diffonde comunicati, bolle di sapone e taranta, una ragazza romana, Laura, porta sulle spalle una scatola di cartone su cui in verde ha vergato alla svelta la sua risposta: «In questo giorno tanti uomini sono pubblicamente solidali poi arriva domani, chiudono le porte e ti alzano le mani».
Creatività, ce n’è a iosa. Oltre alle consuete bande da strada, di ottoni e di tamburi da capoeira, oltre alle coreografie di trampolieri danzanti, alle coccarde «Io sono mia», alle silouette delle matrioske con i nomi delle donne morte, c’è anche un teatrino su ruote del bar-libreria Tuba del Pigneto: la quinta è una vagina con un pallino stroboscopico in cima, ogni tanto qualcuna tira fuori la testa e recita una poesia o un brano, di Carla Lonzi o Audre Lorde.
I più curiosi e significativi restano comunque i messaggi piccoli, fatti a mano, come pensieri in bottiglia. Il più strano: «La mia favolosità non è un invito a commentare». Mentre una biondina gira freneticamente alzando il suo che parafrasando Non Una di Meno, dice: «Non un euro di meno, il mio lavoro vale quanto quello di un uomo».
La favolosa coalizione di Bologna – si chiama così la rete di «transfemminismo queer e antifascista» nata per contestare le sentinelle in piedi con presenze ironiche e non muscolari e che da sola ha portato a Roma 300 persone – mostra in strada il suo Sfertiliy Game. L’impegno della Favolosa coalizione è concentrato soprattutto sulla difesa della legge 194, oltre alla ricerca laboratoriale di analisi su quello che chiamano «il deturnamento dell’immaginario femminile», in sostanza rivendicando il diritto a una sessualità svincolata da pretesi obblighi procreativi. Laboratori su questi temi denominati «gender panic» pare molto partecipati da ragazze dai 20 ai 35 anni. E dalla discussione fatta è venuto fuori che lo sciopero delle donne polacche contro la proposta di legge che cancellava la possibilità di abortire e l’analogo movimento in Argentina sono state sentite come un segnale, un campanello d’allarme anche in Italia a risvegliare le coscienze e la lotta per i diritti.
Frizione di fondo con il governo è sui finanziamenti ai centri antiviolenza. «La ministra fa solo tavoli tecnici, le Regioni si tengono i soldi in tasca e i centri sono sempre a rischio chiusura», sintetizza Maria Marinelli della casa-rifugio di Latina. Lì una donna che tenta di uscire da maltrattamenti domestici ha ricamato a mano uno striscione a fiori: «L’Amore non uccide». «Vogliamo che i centri siano gestiti da associazioni vere, che trattano le donne non da malate o da utenti, basate sui nostri criteri», dicono.
La rete dei 77 centri DiRe contesta la mancata salvaguardia di una impostazione non professionalizzante dei centri e delle case protette. Ma nella folla della manifestazione c’è anche un piccolo striscione retto da una delegazione del Consiglio nazionale degli psicologi. «Abbiamo posizioni diverse, noi pensiamo che visti i riflessi dei maltrattamenti sulle benessere delle donne e dei loro figli sia un diritto della donna essere assistita dalla sanità pubblica», dice una psicologa del pronto soccorso di Cagliari. «L’ultimo miglio, cioè il percorso nella casa protetta, è giusto sia fatto dalle associazioni di donne – prova a mediare una collega – ma la rete delle essere integrata, istituzionale e operativa».
È un mondo molto ampio quello che combatte la violenza di genere, che per la prima volta si è visto in piazza ieri ma esiste da tempo. Le donne di «Se Non ora Quando» di Osimo dicono che rispetto a quell’appuntamento che decretò la fine di Berlusconi «allora fu una reazione di pancia, ora c’è molta più elaborazione e organizzazione, ci siamo unite».
http://ilmanifesto.info/a-roma-la-carica-delle-duecentomila-contro-la-violenza/
sabato 26 novembre 2016
SABATO 26.11 ORE 21 SALA LA PIANTA
venerdì 25 novembre 2016
Femminicidio: una barbarie uscita dal passato di Luisella Battaglia
Di fronte ai femminicidi, una autentica ‘guerra di genere’, e ai richiami suggestivi alla barbarie della jihad, occorre meditare sulla nostra storia di barbarie giuridica
Con l’art 587 il nostro ordinamento giuridico interpretava il valore particolare che la società attribuiva all’onore personale e familiare, in connessione esclusiva con i costumi sessuali. Era un incentivo all’omicidio
L‘art. 544 del Codice penale accordava un trattamento privilegiato all’uomo che, avendo commesso una violenza carnale su una minorenne, offriva alla vittima un matrimonio riparatore. In caso di accettazione il reato era estinto
Il femminicidio rappresenta la sopravvivenza di idee antiche di onore legato alla proprietà del corpo femminile e all’affermazione della potestà maschile
Dinanzi all’ondata crescente dei femminicidi, se vogliamo accantonare sia il dibattito teorico sull’appropriatezza o meno del termine, sia la liturgia rituale delle deprecazioni, non ci resta che riflettere sulla ‘guerra di genere’ che si sta scatenando con inaudita violenza nel nostro paese. Credo, infatti, che, al di là di richiami suggestivi alla barbarie della jihad, che ravvisa somiglianze tra i maschi assassini e i guerriglieri del califfato, sia più proficuo meditare su una storia abbastanza recente di barbarie giuridica tutta nostra che forse ci può illuminare sulla criminalità di certi comportamenti.
Dovremmo, ad esempio, ricordarci che per lungo tempo il nostro Codice penale aveva previsto un trattamento speciale per chi commetteva un delitto per causa d’onore. Secondo l’articolo 587 “Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni”. Il nostro ordinamento giuridico interpretava così il valore particolare che la società attribuiva all’onore personale e familiare, in connessione esclusiva con i costumi sessuali. Di fatto, il diritto di recuperare il proprio onore, commettendo un delitto sanzionato con una pena irrisoria, funzionava come incentivo all’omicidio, tanto più che chi non se ne avvaleva subiva una pesante sanzione, particolarmente in certe comunità, dalla pubblica opinione. Indimenticabile è il quadro tracciato da Pietro Germi in “Divorzio all’italiana” con l’irrisione inflitta a Fefè da tutta una comunità che si trasmette le “ultime novità sul fronte delle corna” in attesa che venga compiuto il delitto riparatore - un delitto che, come sappiamo, servirà al protagonista per liberarsi da una moglie ingombrante e convolare a nuove nozze. Così la legge, invece di contrastare la barbarie del costume, la recepiva elevandola a diritto. Alla stessa matrice ideologica può esser fatto risalire l‘art. 544 del Codice penale che accordava un trattamento privilegiato all’uomo che, avendo commesso una violenza carnale su una minorenne, offriva alla vittima un matrimonio riparatore: in caso di accettazione, il reato era estinto. In tal modo, il diritto dello stupratore a fruire dell’impunità, grazie al matrimonio riparatore, sanciva la violazione dell’integrità e della dignità come comportamento tollerato dal nostro ordinamento.
Si ricorderà che fu una ragazza coraggiosa, nel 1966, Franca Viola, a rifiutare imprevedibilmente di sposare il suo aggressore e, quindi, a inchiodarlo alla sanzione penale. Un gesto di grande valore simbolico che significava il rifiuto di subire la tirannia del costume e l’arretratezza del diritto e, insieme, la volontà di affermare la dignità della donna. Barbarie del diritto - si dirà - da cui ci siamo felicemente liberati (entrambi gli articoli furono abrogati nel 1981). Ma la realtà non è così semplice. Come dimostra la strage odierna, le sopravvivenze di quelle idee antiche di onore, legato alla proprietà del corpo femminile e all’affermazione della potestà maschile, sono ancora sotterraneamente presenti tra noi. Certo, abbiamo avuto la liberazione sessuale, il riconoscimento almeno formale di pari diritti, l’avanzata del femminismo ma… si tratta solo della punta dell’iceberg. Nel femminicidio riaffiora infatti l’idea mai sopita di fare giustizia, di ristabilire l’ordine patriarcale violato.
Non esiste, come ameremmo credere, un’evoluzione progressiva dell’etica. Come il luogo della terra in cui abitiamo è sorretto da vari strati geologici, così il presente dei nostri costumi è formato da elementi costitutivi di età differenti, ciascuno dei quali si è formato in altri contesti. Le nostre concezioni del bene e del male crescono una sull’altra come strati sovrapposti che esprimono spesso disarmonie e lacerazioni della coscienza. Dovremmo oggi riconoscere di trovarci in presenza di aberrazioni ideologiche che appartengono a periodi diversi della nostra storia, una storia troppo recente perché ce ne possiamo dimenticare. Per questo non bastano le vaghe promesse che nelle scuole si introducano corsi mirati a un ‘riequilibrio di genere’, o gli annunci tardivi di ‘una cabina inter-istituzionale antiviolenza sulle donne’. Nel frattempo si chiudono i centri anti violenza e le case delle donne che garantivano una continuità nell’impegno e nei servizi a favore delle vittime! Nella situazione di emergenza che stiamo vivendo, il legislatore deve intervenire in maniera urgente e decisa, inserendo - come da più parti si propone - il femminicidio fra i reati per i quali il condannato non può ottenere benefici penitenziari e trattando gli assassini come i mafiosi, compreso il sequestro dei beni e il risarcimento immediato del danno. Ma il vero risarcimento degli errori del passato è che venga sancita la gravità assoluta di un crimine che offende la nostra coscienza civile, riportandoci ad una barbarie che abbiamo vissuto e che credevamo di avere definitivamente superato.
http://www.noidonne.org/articolo.php?ID=05672
Con l’art 587 il nostro ordinamento giuridico interpretava il valore particolare che la società attribuiva all’onore personale e familiare, in connessione esclusiva con i costumi sessuali. Era un incentivo all’omicidio
L‘art. 544 del Codice penale accordava un trattamento privilegiato all’uomo che, avendo commesso una violenza carnale su una minorenne, offriva alla vittima un matrimonio riparatore. In caso di accettazione il reato era estinto
Il femminicidio rappresenta la sopravvivenza di idee antiche di onore legato alla proprietà del corpo femminile e all’affermazione della potestà maschile
Dinanzi all’ondata crescente dei femminicidi, se vogliamo accantonare sia il dibattito teorico sull’appropriatezza o meno del termine, sia la liturgia rituale delle deprecazioni, non ci resta che riflettere sulla ‘guerra di genere’ che si sta scatenando con inaudita violenza nel nostro paese. Credo, infatti, che, al di là di richiami suggestivi alla barbarie della jihad, che ravvisa somiglianze tra i maschi assassini e i guerriglieri del califfato, sia più proficuo meditare su una storia abbastanza recente di barbarie giuridica tutta nostra che forse ci può illuminare sulla criminalità di certi comportamenti.
Dovremmo, ad esempio, ricordarci che per lungo tempo il nostro Codice penale aveva previsto un trattamento speciale per chi commetteva un delitto per causa d’onore. Secondo l’articolo 587 “Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni”. Il nostro ordinamento giuridico interpretava così il valore particolare che la società attribuiva all’onore personale e familiare, in connessione esclusiva con i costumi sessuali. Di fatto, il diritto di recuperare il proprio onore, commettendo un delitto sanzionato con una pena irrisoria, funzionava come incentivo all’omicidio, tanto più che chi non se ne avvaleva subiva una pesante sanzione, particolarmente in certe comunità, dalla pubblica opinione. Indimenticabile è il quadro tracciato da Pietro Germi in “Divorzio all’italiana” con l’irrisione inflitta a Fefè da tutta una comunità che si trasmette le “ultime novità sul fronte delle corna” in attesa che venga compiuto il delitto riparatore - un delitto che, come sappiamo, servirà al protagonista per liberarsi da una moglie ingombrante e convolare a nuove nozze. Così la legge, invece di contrastare la barbarie del costume, la recepiva elevandola a diritto. Alla stessa matrice ideologica può esser fatto risalire l‘art. 544 del Codice penale che accordava un trattamento privilegiato all’uomo che, avendo commesso una violenza carnale su una minorenne, offriva alla vittima un matrimonio riparatore: in caso di accettazione, il reato era estinto. In tal modo, il diritto dello stupratore a fruire dell’impunità, grazie al matrimonio riparatore, sanciva la violazione dell’integrità e della dignità come comportamento tollerato dal nostro ordinamento.
Si ricorderà che fu una ragazza coraggiosa, nel 1966, Franca Viola, a rifiutare imprevedibilmente di sposare il suo aggressore e, quindi, a inchiodarlo alla sanzione penale. Un gesto di grande valore simbolico che significava il rifiuto di subire la tirannia del costume e l’arretratezza del diritto e, insieme, la volontà di affermare la dignità della donna. Barbarie del diritto - si dirà - da cui ci siamo felicemente liberati (entrambi gli articoli furono abrogati nel 1981). Ma la realtà non è così semplice. Come dimostra la strage odierna, le sopravvivenze di quelle idee antiche di onore, legato alla proprietà del corpo femminile e all’affermazione della potestà maschile, sono ancora sotterraneamente presenti tra noi. Certo, abbiamo avuto la liberazione sessuale, il riconoscimento almeno formale di pari diritti, l’avanzata del femminismo ma… si tratta solo della punta dell’iceberg. Nel femminicidio riaffiora infatti l’idea mai sopita di fare giustizia, di ristabilire l’ordine patriarcale violato.
Non esiste, come ameremmo credere, un’evoluzione progressiva dell’etica. Come il luogo della terra in cui abitiamo è sorretto da vari strati geologici, così il presente dei nostri costumi è formato da elementi costitutivi di età differenti, ciascuno dei quali si è formato in altri contesti. Le nostre concezioni del bene e del male crescono una sull’altra come strati sovrapposti che esprimono spesso disarmonie e lacerazioni della coscienza. Dovremmo oggi riconoscere di trovarci in presenza di aberrazioni ideologiche che appartengono a periodi diversi della nostra storia, una storia troppo recente perché ce ne possiamo dimenticare. Per questo non bastano le vaghe promesse che nelle scuole si introducano corsi mirati a un ‘riequilibrio di genere’, o gli annunci tardivi di ‘una cabina inter-istituzionale antiviolenza sulle donne’. Nel frattempo si chiudono i centri anti violenza e le case delle donne che garantivano una continuità nell’impegno e nei servizi a favore delle vittime! Nella situazione di emergenza che stiamo vivendo, il legislatore deve intervenire in maniera urgente e decisa, inserendo - come da più parti si propone - il femminicidio fra i reati per i quali il condannato non può ottenere benefici penitenziari e trattando gli assassini come i mafiosi, compreso il sequestro dei beni e il risarcimento immediato del danno. Ma il vero risarcimento degli errori del passato è che venga sancita la gravità assoluta di un crimine che offende la nostra coscienza civile, riportandoci ad una barbarie che abbiamo vissuto e che credevamo di avere definitivamente superato.
http://www.noidonne.org/articolo.php?ID=05672
giovedì 24 novembre 2016
A Roma si manifesta contro la violenza sulle donne
Il 25 novembre in tutto il mondo è la giornata contro la violenza sulle donne e a Roma è stata indetta una manifestazione nazionale il 26 novembre.
Perché? “La violenza maschile sulle donne non è un fatto privato, non è un’emergenza, ma è un fenomeno strutturale e trasversale della nostra società”. Questo è il pensiero alla base del movimento Non una di meno, nato in Argentina. La rete italiana ha coinvolto donne di ogni età, ma anche uomini. In piazza si manifesterà per sottolineare l’inefficacia dei programmi istituzionali nel contrasto al femminicidio. Ma anche per per ricordare le vittime, per combattere le ingiustizie sul lavoro e per ottenere la parità dei salari. L’obiettivo finale è quello di creare un Piano femminista contro la violenza maschile, che porti alla revisione del piano antiviolenza adottato dal governo italiano nel 2015.
Quando si manifesta? Il 26 novembre. Il corteo parte alle 14 da piazza Esedra a Roma e si conclude in piazza San Giovanni. Il 27 novembre alle 10, nella scuola elementare Federico Di Donato della capitale, si terrà poi un’assemblea per decidere come cominciare a lavorare su un piano antiviolenza nazionale.
Chi organizza gli incontri? La rete italiana Non una di meno, che è promossa da Donne in rete contro la violenza (D.i.re), Io decido e Unione donne in Italia (Udi). La manifestazione è il frutto di mesi di confronto tra i diversi collettivi.
Quali sono i dati sulla violenza contro le donne in Italia? Una donna su tre in Italia è vittima di violenze fisiche, psicologiche e sessuali. Sono più di sei milioni le donne che hanno subìto violenza nell’arco della loro vita. Dall’inizio del 2016 in Italia sono state uccise 93 donne. Le violenze, fisiche e psicologiche, avvengono ovunque: negli uffici, nelle scuole, per strada, negli ospedali, di persona, attraverso internet o altri mezzi di comunicazione. Nella maggior parte dei casi avvengono nell’ambiente domestico, e gli autori sono familiari o conoscenti.
Qual è il ruolo dei centri antiviolenza? Ogni anno i centri antiviolenza offrono supporto e assistenza a più di 16mila donne. Molti di questi centri rischiano la chiusura per ragioni burocratiche, legate alla revoca degli spazi a loro assegnati, e a causa dei tagli alle risorse. Per esempio, a Roma il Servizio sos donna è stato chiuso il 26 giugno, lasciando sole più di 300 donne che avevano appena cominciato un percorso di riabilitazione.
http://www.internazionale.it/notizie/2016/11/23/manifestazione-violenza-donne
Perché? “La violenza maschile sulle donne non è un fatto privato, non è un’emergenza, ma è un fenomeno strutturale e trasversale della nostra società”. Questo è il pensiero alla base del movimento Non una di meno, nato in Argentina. La rete italiana ha coinvolto donne di ogni età, ma anche uomini. In piazza si manifesterà per sottolineare l’inefficacia dei programmi istituzionali nel contrasto al femminicidio. Ma anche per per ricordare le vittime, per combattere le ingiustizie sul lavoro e per ottenere la parità dei salari. L’obiettivo finale è quello di creare un Piano femminista contro la violenza maschile, che porti alla revisione del piano antiviolenza adottato dal governo italiano nel 2015.
Quando si manifesta? Il 26 novembre. Il corteo parte alle 14 da piazza Esedra a Roma e si conclude in piazza San Giovanni. Il 27 novembre alle 10, nella scuola elementare Federico Di Donato della capitale, si terrà poi un’assemblea per decidere come cominciare a lavorare su un piano antiviolenza nazionale.
Chi organizza gli incontri? La rete italiana Non una di meno, che è promossa da Donne in rete contro la violenza (D.i.re), Io decido e Unione donne in Italia (Udi). La manifestazione è il frutto di mesi di confronto tra i diversi collettivi.
Quali sono i dati sulla violenza contro le donne in Italia? Una donna su tre in Italia è vittima di violenze fisiche, psicologiche e sessuali. Sono più di sei milioni le donne che hanno subìto violenza nell’arco della loro vita. Dall’inizio del 2016 in Italia sono state uccise 93 donne. Le violenze, fisiche e psicologiche, avvengono ovunque: negli uffici, nelle scuole, per strada, negli ospedali, di persona, attraverso internet o altri mezzi di comunicazione. Nella maggior parte dei casi avvengono nell’ambiente domestico, e gli autori sono familiari o conoscenti.
Qual è il ruolo dei centri antiviolenza? Ogni anno i centri antiviolenza offrono supporto e assistenza a più di 16mila donne. Molti di questi centri rischiano la chiusura per ragioni burocratiche, legate alla revoca degli spazi a loro assegnati, e a causa dei tagli alle risorse. Per esempio, a Roma il Servizio sos donna è stato chiuso il 26 giugno, lasciando sole più di 300 donne che avevano appena cominciato un percorso di riabilitazione.
http://www.internazionale.it/notizie/2016/11/23/manifestazione-violenza-donne
martedì 22 novembre 2016
IMPORTANTE
vi ricordiamo che mercoledì 23 alle 20.30 vi aspettiamo tutte e tutti al BemViver,via Monti 5 Corsico, per parlare insieme degli effetti della violenza sulle donne sui figli e le figlie, vittime invisibili e trascurate dalla nostra società
domenica 20 novembre 2016
venerdì 18 novembre 2016
Domenica 20 novembre ore 14 Tutti e tutte al Parco Cabassina di Corsico
Comunicazione sulla Festa dell’Albero
Domenica 20 novembre si terrà la Festa dell’Albero al Parco Cabassina. Per l’occasione abbiamo organizzato un pomeriggio tutti insieme al parco per giocare e scoprire la natura in autunno. Grazie alla partecipazione di tutti i comitati genitori di altre associazioni locali e alla collaborazione di tanti volontari, è stato possibile realizzare una Caccia al Tesoro ricca di giochi dedicati agli alberi.
Abbiamo però dovuto rinunciare al patrocinio del Comune di Corsico, rilasciato al Circolo Il Fontanile per questo evento, poiché per il coinvolgimento delle altre associazioni si è reso indispensabile richiedere un’estensione di patrocinio. Richiesta presentata il giorno 7 novembre ma che ci è stato comunicato non essere stata gestita dall’amministrazione per mancanza di tempi tecnici.
Per la buona riuscita dell’evento abbiamo dunque rinunciato al patrocinio e come da indicazione dell’assessore di riferimento, abbiamo proceduto alla richiesta alla Polizia Locale per la concessione d’uso degli spazi che ci è stata regolarmente rilasciata.
Domenica alle 14,00 al Parco Cabassina vi aspettiamo quindi alla Festa dell’Albero per giocare e festeggiare insieme.
Corsico, 18 novembre
Circolo Il Fontanile Corsico-Buccinasco
Comitato Genitori Buonarroti
Comitato Genitori Copernico
Comitato Genitori Galilei
Comitato Genitori Dante
Ventunesimodonna
BuonMercato
giovedì 17 novembre 2016
mercoledì 16 novembre 2016
Per un ragazzo su quattro la violenza sulle donne è dovuta al troppo amore\ Posted on 18 novembre 2015 by Blogdelledonne
Per un giovane su cinque quello che accade in una coppia non deve interessare agli altri. Per uno su quattro, la violenza sulle donne è dovuta a “raptus momentanei, giustificati dal troppo amore”. Per uno su tre, gli episodi di violenza domestica “vanno affrontati dentro le mura di casa”. Questi i dati che emergono dal rapporto “Rosa Shocking 2. Violenza e stereotipi di genere: generazioni a confronto e prevenzione”, presentato oggi alla Biblioteca del Senato a Roma dall’associazione We World Onlus. Il rapporto è diviso in due parti: nella prima, We World Onlus compie un’analisi degli investimenti in termini di prevenzione della violenza contro le donne. Nella seconda, condotta insieme a Ipsos Italia, viene svolto un sondaggio per capire come i giovani tra i 18 e i 29 anni si posizionino su questi temi.
Emergono così dati contrastanti: cresce l’attenzione sul tema, in particolare nelle regioni del centronord, ma, rispetto al 2013, calano da 16,1 a 14,4 milioni gli investimenti in prevenzione e contrasto alla violenza di genere. Dall’analisi condotta dall’istituto Ipsos, inoltre, emerge una chiara frattura generazionale: i giovani tra i 18 e i 29 anni rispondono a tutte le domande con un atteggiamento sensibilmente più indulgente nei confronti della violenza di genere rispetto al resto del campione. Particolarmente allarmanti i risultati di due domande: per il 19% dei giovani, contro la media nazionale del 13%, è normale che un uomo tradito diventi violento; la violenza, inoltre, è dovuta “agli atteggiamenti esasperanti delle donne” per il 16% dei giovani contro la media dell’11%. L’analisi Ipsos conclude suddividendo il campione in tre diverse classi: il 45% del campione rientra nella classe “dalla parte delle donne senza se e senza ma”, il 35% preferisce relegare la violenza di genere a episodi domestici, il 20% individua nella donna le responsabilità delle violenze.
“È importante non dimenticare le dimensioni della violenza sulle donne, i cui numeri continuano ad essere allarmanti”, dichiara Marco Chiesara, presidente We World Onlus, che spiega: “Nel nostro paese sono quasi 7 milioni le donne che hanno subito violenza, ma di queste solo l’11,8% denuncia. Questo e’ un dato su cui ci dobbiamo confrontare”. “Il lavoro di We World Onlus- prosegue Chiesara- si basa su tre livelli: advocacy, sensibilizzazione e azione. Questo rapporto, che si unisce ai nostri progetti sui territori e negli ospedali di tutta Italia, rappresenta un passaggio fondamentale per affrontare questo tema”.
“Questo rapporto è un lavoro straordinariamente importante, un salto qualitativo fondamentale che sara’ distribuito tra tutti i parlamentari della Repubblica”. A dichiararlo e’ la vice presidente del Senato, Valeria Fedeli, durante la presentazione del rapporto “Ringrazio We World Onlus – prosegue- anche perche’ ha un presidente uomo. In Italia questo e’ un problema perche’ la campagna internazionale ‘He for She’ per il coinvolgimento degli uomini nella lotta alle violenza di genere, stenta a partire. Per questo- annuncia la Fedeli- il 15 dicembre rilanceremo questa campagna in Italia, con la presenza di almeno venti universita’”. La vicepresidente del Senato, infine, fa un richiamo al linguaggio della politica, “che dovrebbe essere piu’ responsabile: non si capisce perche’, quando parla Gasparri, anziche’ usare argomenti di merito deve offendere la donna, chiamandoci ‘velone’. Anche quello linguistico e’ un aspetto del problema della violenza di genere.
(Fonte: D.I.RE)
https://stopviolenzadonne.wordpress.com/2015/11/18/1254/
Emergono così dati contrastanti: cresce l’attenzione sul tema, in particolare nelle regioni del centronord, ma, rispetto al 2013, calano da 16,1 a 14,4 milioni gli investimenti in prevenzione e contrasto alla violenza di genere. Dall’analisi condotta dall’istituto Ipsos, inoltre, emerge una chiara frattura generazionale: i giovani tra i 18 e i 29 anni rispondono a tutte le domande con un atteggiamento sensibilmente più indulgente nei confronti della violenza di genere rispetto al resto del campione. Particolarmente allarmanti i risultati di due domande: per il 19% dei giovani, contro la media nazionale del 13%, è normale che un uomo tradito diventi violento; la violenza, inoltre, è dovuta “agli atteggiamenti esasperanti delle donne” per il 16% dei giovani contro la media dell’11%. L’analisi Ipsos conclude suddividendo il campione in tre diverse classi: il 45% del campione rientra nella classe “dalla parte delle donne senza se e senza ma”, il 35% preferisce relegare la violenza di genere a episodi domestici, il 20% individua nella donna le responsabilità delle violenze.
“È importante non dimenticare le dimensioni della violenza sulle donne, i cui numeri continuano ad essere allarmanti”, dichiara Marco Chiesara, presidente We World Onlus, che spiega: “Nel nostro paese sono quasi 7 milioni le donne che hanno subito violenza, ma di queste solo l’11,8% denuncia. Questo e’ un dato su cui ci dobbiamo confrontare”. “Il lavoro di We World Onlus- prosegue Chiesara- si basa su tre livelli: advocacy, sensibilizzazione e azione. Questo rapporto, che si unisce ai nostri progetti sui territori e negli ospedali di tutta Italia, rappresenta un passaggio fondamentale per affrontare questo tema”.
“Questo rapporto è un lavoro straordinariamente importante, un salto qualitativo fondamentale che sara’ distribuito tra tutti i parlamentari della Repubblica”. A dichiararlo e’ la vice presidente del Senato, Valeria Fedeli, durante la presentazione del rapporto “Ringrazio We World Onlus – prosegue- anche perche’ ha un presidente uomo. In Italia questo e’ un problema perche’ la campagna internazionale ‘He for She’ per il coinvolgimento degli uomini nella lotta alle violenza di genere, stenta a partire. Per questo- annuncia la Fedeli- il 15 dicembre rilanceremo questa campagna in Italia, con la presenza di almeno venti universita’”. La vicepresidente del Senato, infine, fa un richiamo al linguaggio della politica, “che dovrebbe essere piu’ responsabile: non si capisce perche’, quando parla Gasparri, anziche’ usare argomenti di merito deve offendere la donna, chiamandoci ‘velone’. Anche quello linguistico e’ un aspetto del problema della violenza di genere.
(Fonte: D.I.RE)
https://stopviolenzadonne.wordpress.com/2015/11/18/1254/
martedì 15 novembre 2016
Questa vignetta riassume perfettamente la vita quotidiana di una mamma Di Eleonora Giovinazzo
Dall’asilo alla scuola, dal lavoro al supermercato, dalla casa allo studio medico. Il tutto senza tregua. Niente paura, è “solo” la vita quotidiana di una mamma, che oltre a lavorare come casalinga spesso lavora anche al di fuori della vita familiare. Un’esistenza riassunta perfettamente nella vignetta creata da André-Philippe Côté, pubblicata in origine sul quotidiano Le Soleil e ben presto giunta in ogni parte del mondo grazie agli apprezzamenti del web.
“Mi sento un po’ depressa dottore”, ammette la protagonista nell’ultimo riquadro. “Faccia un po’ di sport”, le consiglia il medico. Come se la donna non corresse da una parte all’altra già abbastanza. Il suggerimento dello specialista è sicuramente valido, in tanti lo avranno dato alle proprie madri o mogli. Ma è estremamente difficile che una mamma, magari impossibilitata ad avere il sostegno di nonni o tate, riesca a trovare anche il tempo di fare sport, o in qualche modo di rilassarsi ed estraniarsi da una vita che ama ma che la assorbe.
“Anche il mio dottore mi ha prescritto di fare attività fisica”, scrivono alcune donne commentando la vignetta su Facebook. Tutte e tutti sono comunque concordi su una cosa: questo disegno si avvicina in modo spaventoso alla realtà. “Ha avuto un successo inaspettato - racconta il vignettista del Quebec (Canada), classe 1955 - Indice che la situazione delle donne che vivono in Occidente si somigli molto. Io ho tratto ispirazione principalmente dalle donne della mia famiglia, mia moglie e le mie due figlie (ha anche due figli maschi, n.d.r.), ma ho riscontrato la stessa situazione anche nelle giovani famiglie che conosco. La relazione lavoro-famiglia è davvero difficile per le donne. Anche nei casi in cui gli uomini siano collaborativi nella gestione delle faccende e nelle attività dei figli, la situazione non cambia di molto. E’ una questione davvero complessa”.
http://www.huffingtonpost.it/2016/11/13/vignetta-vita-mamma_n_12910308.html
“Mi sento un po’ depressa dottore”, ammette la protagonista nell’ultimo riquadro. “Faccia un po’ di sport”, le consiglia il medico. Come se la donna non corresse da una parte all’altra già abbastanza. Il suggerimento dello specialista è sicuramente valido, in tanti lo avranno dato alle proprie madri o mogli. Ma è estremamente difficile che una mamma, magari impossibilitata ad avere il sostegno di nonni o tate, riesca a trovare anche il tempo di fare sport, o in qualche modo di rilassarsi ed estraniarsi da una vita che ama ma che la assorbe.
“Anche il mio dottore mi ha prescritto di fare attività fisica”, scrivono alcune donne commentando la vignetta su Facebook. Tutte e tutti sono comunque concordi su una cosa: questo disegno si avvicina in modo spaventoso alla realtà. “Ha avuto un successo inaspettato - racconta il vignettista del Quebec (Canada), classe 1955 - Indice che la situazione delle donne che vivono in Occidente si somigli molto. Io ho tratto ispirazione principalmente dalle donne della mia famiglia, mia moglie e le mie due figlie (ha anche due figli maschi, n.d.r.), ma ho riscontrato la stessa situazione anche nelle giovani famiglie che conosco. La relazione lavoro-famiglia è davvero difficile per le donne. Anche nei casi in cui gli uomini siano collaborativi nella gestione delle faccende e nelle attività dei figli, la situazione non cambia di molto. E’ una questione davvero complessa”.
http://www.huffingtonpost.it/2016/11/13/vignetta-vita-mamma_n_12910308.html
lunedì 14 novembre 2016
DACIA MARAINI: ha vinto il patriarcato ma non finirà così di Cecilia Sabelli
Elezioni USA • Interviste
Per Dacia Maraini, scrittrice, drammaturga, saggista, popolarissima icona del femminismo italiano, che oggi compie 80 anni e li festeggia con una mostra dedicata alla madre gallerista e pittrice, non ci sono dubbi: l’elezione di Trump rappresenta un ritorno a una forma di arcaismo e per le donne il segno di un’altra vittoria del patriarcato. Le abbiamo chiesto perchè di questo metà America non ne ha tenuto conto e se i tempi sono comunque maturi per dare un’altra occasione all’America di avere come futuro leader una donna.
A l’Unità ha detto che Hillary si è scontrata con un’America in cui pesa ancora e tanto la misoginia. Ebbene, non ce l’ha fatta. Che segno è questo per le donne americane e di tutto il mondo?
Sul piano simbolico è di nuovo una vittoria del patriarcato, non c’è dubbio. Perché rispetto a quello che si dice, io non vedo questa differenza tra i due. Io capirei se si fosse trattato di un rivoluzionario di destra. Accusano Hillary di essere una donna legata al potere economico, ma perché lui non lo è? Dietro di lei ci sono i mondi della finanza dei grandi affari. Ma lui è ancora peggio.
Già, che effetto le ha fatto la sua vittoria?
Mi ha fatto un effetto di sorpresa e anche di preoccupazione, d’inquietudine. Non per il fatto che si tratti di un presidente repubblicano, ne abbiamo avuti tanti, ma per quanto ha sempre dichiarato.
A cosa si riferisce in particolare?
Prima di tutto mi inquieta che ritenga i problemi legati al cambiamento climatico delle sciocchezze. Stavamo prendendo la direzione giusta, congiuntamente con altri paesi, per affrontare questo problema da cui derivano pericoli per il mondo intero, come lo scioglimento dei ghiacci, le alluvioni, i tornado che portano a grandi disastri. Poi, che voglia cancellare quel poco che Obama è riuscito a fare per la salute pubblica: la possibilità concessa con l’Obama Care agli americani più poveri di curarsi attraverso un’assistenza dal quale prima erano esclusi. È un fatto gravissimo, è antisociale. Penso infine al suo atteggiamento verso le donne, molto sprezzante, addirittura direi razzista. E poi a tanti altri aspetti, ma questi per primi.
Come si spiega il fenomeno Trump?
Per me sono valide le parole di Wilhelm Reich, grande studioso psicanalista allievo di Freud, che ha scritto un libro sulla psicologia delle masse. Secondo Reich, quando si affronta una crisi, economica soprattutto, ma anche etica, ideologica, i popoli esprimono un bisogno arcaico, lo stesso che legava il branco animalesco originario: ricercano un capo, un padre del branco. Il prescelto può essere cattivo, violento, criminale, brutale, non ha importanza: conta che sia un capo e per esserlo deve avere un certo carisma.
È il caso di Trump?
Lui ce l’ha. Il carisma non è qualcosa che ha a che vedere né con il programma politico e neanche con l’onestà di una persona. Il carisma è il carisma: ce lo aveva anche Hitler, quindi si capisce che è relativo alla capacità di coinvolgere emotivamente le folle, però come un capo, come un padrone, come un padre. Reich sostiene si tratti di una forma di arcaismo. Credo che questo ragionamento sia condivisibile. Altrimenti, come spiegarsi quanto accaduto: gli americani, che erano nel loro momento migliore, avevano votato Obama che rappresenta esattamente il contrario di Trump, (si preoccupa del clima, degli emarginati, delle minoranza etniche, che ha molto rispetto per le donne), come hanno potuto a un certo punto votare in maggioranza il suo opposto? A me risulta molto strano. Il ragionamento di Reich mi convince perché effettivamente ora la crisi sta impoverendo il paese, le differenze tra ricchi e poveri si stanno allargando. Questo è un segnale di mancanza di democrazia. Probabilmente, il Paese sentendosi in pericolo si rivolge, però, alla persona sbagliata secondo me. Dovrebbe, invece, chiedere più democrazia non meno democrazia.
Soprattutto se si tratta di donne, allora ci si domanda come è possibile, nonostante le ragioni socio-economiche che anche lei ha citato, non abbia contato l’appartenenza di genere?
Le donne sono dentro una cultura. Non tutte sono consapevoli che questa è una cultura che le punisce e le emargina. Ci sono dentro fino al collo senza rendersene conto, soprattutto le donne più ignoranti, infatti, le proteste vengono dalle università, dalle professioniste. Le donne consapevoli non hanno certamente votato per Trump. Hanno votato le donne più semplici che non hanno avuto la possibilità di sviluppare un pensiero proprio e quindi si sono adeguate al pensiero comune in quel momento.
Possiamo dire che non si è riusciti a far capire fino in fondo l’enorme peso simbolico di investire una donna di un ruolo tanto importante…
Certo. Però pensiamo adesso anche che metà America non la pensa come Trump. Anche analizzando i voti, lui ha vinto perché ha avuto una maggioranza, però c’è comunque una metà dell’America che non lo vuole. Mi pare che lo slogan delle giovani donne, delle universitarie scese in strada, sia proprio “non mi rappresenta”, che non è un insulto ma è come dire che non ci si riconosce nelle sue idee e nella sua politica.
Eppure c’è chi insiste che nel caso di Hillary non sia stata bocciata la donna ma la sua appartenenza all’establishment…
Ma quale establishment, questa cosa mi fa molto ridere. Trump lo è anche di più perché è di quell’establishment che vuole rimanere tale, e che non vuole fare nessuna concessione ai più poveri, agli emarginati. C’è forse la sirena di Trump che ha affermato di voler abbassare le tasse, di dare lavoro, c’è la paura dell’immigrazione: questo è ciò che senza riflettere molto ha convinto molti tra coloro impoveriti dalla crisi a votarlo.
I tempi sono comunque maturi per dare presto un’altra occasione all’America di avere come futuro leader una donna?
Si, penso di si, e credo che molti americani si pentiranno di questo voto.
Ci conforta, significa che siamo tornati indietro di molto ma non al punto di dover “ricominciare”?
No e poi io stimo molto il popolo americano, conosco le sue risorse straordinarie. Si è trattato di una mancanza di consapevolezza politica. Quando vedranno gli effetti di questa scelta probabilmente se ne renderanno conto.
http://www.cheliberta.it/2016/11/13/dacia-maraini-ha-vinto-il-patriarcato/
Per Dacia Maraini, scrittrice, drammaturga, saggista, popolarissima icona del femminismo italiano, che oggi compie 80 anni e li festeggia con una mostra dedicata alla madre gallerista e pittrice, non ci sono dubbi: l’elezione di Trump rappresenta un ritorno a una forma di arcaismo e per le donne il segno di un’altra vittoria del patriarcato. Le abbiamo chiesto perchè di questo metà America non ne ha tenuto conto e se i tempi sono comunque maturi per dare un’altra occasione all’America di avere come futuro leader una donna.
A l’Unità ha detto che Hillary si è scontrata con un’America in cui pesa ancora e tanto la misoginia. Ebbene, non ce l’ha fatta. Che segno è questo per le donne americane e di tutto il mondo?
Sul piano simbolico è di nuovo una vittoria del patriarcato, non c’è dubbio. Perché rispetto a quello che si dice, io non vedo questa differenza tra i due. Io capirei se si fosse trattato di un rivoluzionario di destra. Accusano Hillary di essere una donna legata al potere economico, ma perché lui non lo è? Dietro di lei ci sono i mondi della finanza dei grandi affari. Ma lui è ancora peggio.
Già, che effetto le ha fatto la sua vittoria?
Mi ha fatto un effetto di sorpresa e anche di preoccupazione, d’inquietudine. Non per il fatto che si tratti di un presidente repubblicano, ne abbiamo avuti tanti, ma per quanto ha sempre dichiarato.
A cosa si riferisce in particolare?
Prima di tutto mi inquieta che ritenga i problemi legati al cambiamento climatico delle sciocchezze. Stavamo prendendo la direzione giusta, congiuntamente con altri paesi, per affrontare questo problema da cui derivano pericoli per il mondo intero, come lo scioglimento dei ghiacci, le alluvioni, i tornado che portano a grandi disastri. Poi, che voglia cancellare quel poco che Obama è riuscito a fare per la salute pubblica: la possibilità concessa con l’Obama Care agli americani più poveri di curarsi attraverso un’assistenza dal quale prima erano esclusi. È un fatto gravissimo, è antisociale. Penso infine al suo atteggiamento verso le donne, molto sprezzante, addirittura direi razzista. E poi a tanti altri aspetti, ma questi per primi.
Come si spiega il fenomeno Trump?
Per me sono valide le parole di Wilhelm Reich, grande studioso psicanalista allievo di Freud, che ha scritto un libro sulla psicologia delle masse. Secondo Reich, quando si affronta una crisi, economica soprattutto, ma anche etica, ideologica, i popoli esprimono un bisogno arcaico, lo stesso che legava il branco animalesco originario: ricercano un capo, un padre del branco. Il prescelto può essere cattivo, violento, criminale, brutale, non ha importanza: conta che sia un capo e per esserlo deve avere un certo carisma.
È il caso di Trump?
Lui ce l’ha. Il carisma non è qualcosa che ha a che vedere né con il programma politico e neanche con l’onestà di una persona. Il carisma è il carisma: ce lo aveva anche Hitler, quindi si capisce che è relativo alla capacità di coinvolgere emotivamente le folle, però come un capo, come un padrone, come un padre. Reich sostiene si tratti di una forma di arcaismo. Credo che questo ragionamento sia condivisibile. Altrimenti, come spiegarsi quanto accaduto: gli americani, che erano nel loro momento migliore, avevano votato Obama che rappresenta esattamente il contrario di Trump, (si preoccupa del clima, degli emarginati, delle minoranza etniche, che ha molto rispetto per le donne), come hanno potuto a un certo punto votare in maggioranza il suo opposto? A me risulta molto strano. Il ragionamento di Reich mi convince perché effettivamente ora la crisi sta impoverendo il paese, le differenze tra ricchi e poveri si stanno allargando. Questo è un segnale di mancanza di democrazia. Probabilmente, il Paese sentendosi in pericolo si rivolge, però, alla persona sbagliata secondo me. Dovrebbe, invece, chiedere più democrazia non meno democrazia.
Soprattutto se si tratta di donne, allora ci si domanda come è possibile, nonostante le ragioni socio-economiche che anche lei ha citato, non abbia contato l’appartenenza di genere?
Le donne sono dentro una cultura. Non tutte sono consapevoli che questa è una cultura che le punisce e le emargina. Ci sono dentro fino al collo senza rendersene conto, soprattutto le donne più ignoranti, infatti, le proteste vengono dalle università, dalle professioniste. Le donne consapevoli non hanno certamente votato per Trump. Hanno votato le donne più semplici che non hanno avuto la possibilità di sviluppare un pensiero proprio e quindi si sono adeguate al pensiero comune in quel momento.
Possiamo dire che non si è riusciti a far capire fino in fondo l’enorme peso simbolico di investire una donna di un ruolo tanto importante…
Certo. Però pensiamo adesso anche che metà America non la pensa come Trump. Anche analizzando i voti, lui ha vinto perché ha avuto una maggioranza, però c’è comunque una metà dell’America che non lo vuole. Mi pare che lo slogan delle giovani donne, delle universitarie scese in strada, sia proprio “non mi rappresenta”, che non è un insulto ma è come dire che non ci si riconosce nelle sue idee e nella sua politica.
Eppure c’è chi insiste che nel caso di Hillary non sia stata bocciata la donna ma la sua appartenenza all’establishment…
Ma quale establishment, questa cosa mi fa molto ridere. Trump lo è anche di più perché è di quell’establishment che vuole rimanere tale, e che non vuole fare nessuna concessione ai più poveri, agli emarginati. C’è forse la sirena di Trump che ha affermato di voler abbassare le tasse, di dare lavoro, c’è la paura dell’immigrazione: questo è ciò che senza riflettere molto ha convinto molti tra coloro impoveriti dalla crisi a votarlo.
I tempi sono comunque maturi per dare presto un’altra occasione all’America di avere come futuro leader una donna?
Si, penso di si, e credo che molti americani si pentiranno di questo voto.
Ci conforta, significa che siamo tornati indietro di molto ma non al punto di dover “ricominciare”?
No e poi io stimo molto il popolo americano, conosco le sue risorse straordinarie. Si è trattato di una mancanza di consapevolezza politica. Quando vedranno gli effetti di questa scelta probabilmente se ne renderanno conto.
http://www.cheliberta.it/2016/11/13/dacia-maraini-ha-vinto-il-patriarcato/
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