La settimana scorsa, il Time ha pubblicato l’elenco dei 25 teenager più influenti del mondo.
Tra campionesse dello sport, giovanissime attrici, la recente premio Nobel Malala Yousafzai, c’è anche Jazz Jennings, quattordicenne transgender divenuta nota grazie a I Am Jazz, libro semi autobiografico per bambini e bambine. Strumento per genitori e insegnanti di condivisione di valori di parità con figli e alunni, trans o meno.
Jazz dichiara: “Ho scritto questo libro per aiutare a educare altri giovani transgender e le loro famiglie al fatto che essere “differenti” sia OK. [...] Mi auguro che possa avere un grande impatto nel lasciare che ognuno sappia che deve accettare gli altri perché siamo parte tutti della stessa società”
Jazz è stata riconosciuta come un maschio alla nascita, ma ha iniziato a vivere come una femmina già a 5 anni. All’età di sei anni la sua famiglia ha iniziato a fare dei brevi video su come crescere una figlia transgender, condividendo in rete le scoperte fatte insieme. Da questi video nasce anche un documentario I Am Jazz: A Family in Transition, che riunisce le esperienze fondamentali della famiglia Jennings.
Sua madre racconta, ad esempio, di aver sempre scelto di raccontare a sua figlia ciò che stava accadendo e provando come qualcosa di molto speciale. D’altronde “non ci sono molte bambine con un pene”.
Nel 2004 a Jazz è stato diagnosticato un disturbo dell’identità di genere, disforia di genere. Dal 2012 Jazz ha preso parola, discutendo della sua identità di genere e del suo orientamento sessuale con la giornalista americana Barbara Walters durante il programma 20/20. Da quel momento, non ha mai smesso di lottare per i diritti e le libertà trans.
Il 2014 è stato un anno di grande esposizione mediatica per le transgender. Pensiamo a Laverne Cox, attrice e produttrice televisiva, diventata nota grazie alla serie tv Orange is the new black, ma anche a Conchita Wurst, cantante che ha vinto l’Eurovision suscitando un polverone di domande circa la sua identità di genere – pur non essendo trans. E come ogni volta che le identità vengono rappresentate, queste aiutano a essere almeno considerate esistenti, a smettere di essere completamente invisibili. Danno l’occasione di parlare di sé come differenti eppure ugualmente narrabili. Sempre su un sottile discrimine tra sfruttamento del “fenomeno” trans e reale inclusione delle rappresentazioni.
Per eccesso di chiarezza, vale la pena ribadire che il termine transessualismo indica l’esperienza vissuta da tutte quelle persone che non sentono di appartenere al sesso biologico acquisito con la nascita e che quindi intraprendono un percorso di adattamento del proprio fisico alla percezione psicologica ed emozionale che hanno di sé. In Italia, la legge del 14 aprile 1982, n. 164: “Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso”, prevede che con il concerto di psicologi ed endocrinologi, sia possibile la riconversione del sesso.
Solo una volta completato questo lungo processo, è possibile avanzare domanda al Tribunale competente per ottenere l’autorizzazione alla riassegnazione del sesso ed al cambiamento del nome.
Una norma a doppio taglio che obbliga ad un processo chirurgico tutti e tutte coloro vogliano vedersi riconosciute secondo la loro identità transgender.
Questo risponde alla necessità culturale del nostro sistema di volere gli individui tutti inquadrati in un sistema binario maschio/femmina. La stessa che affligge ad esempio le persone intersessuali, il cui genere è patologizzato e quindi trattato nell’ottica di ristabilire il binarismo di genere, procurando gravi danni al corpo e all’identità delle persone intersex.
Il preteso binarismo si ripercuote sulle persone trans soprattutto durante l’infanzia, quando la riconversione del sesso non è nemmeno un’opzione e l’identità rimane sospesa tra corpo e percezione.
Quando si incontra ostilità e pregiudizio legato a una scarsissima cultura in fatto di quei diritti e quelle libertà per cui si battono tanti, compresa Jazz.
Quando cioè spesso si preferisce quella invisibilità, all’esposizione al giudizio della comunità
Il momento più difficile è sicuramente la pubertà, quando, se si ha avuto la fortuna di una famiglia di sostegno, questa può sempre meno nella relazione con il mondo.
Per una persona trans, vedere il proprio corpo cambiare senza rispettare la percezione della propria identità può essere shockante, perché nel perdere l’androginia infantile, vedere comparire il seno per un ragazzo o le spalle larghe e i peli folti per una ragazza trans diventa un passaggio davvero complesso della crescita. Non è raro che adolescenti trans vengano emarginati, stigmatizzati, subiscano bullismo e quindi si spingano verso atteggiamenti autolesionisti o tristemente verso il suicidio. L’ultimo a togliersi la vita è stato Riley, 17enne statunitense che ad agosto di quest’anno ha lasciato un biglietto con su scritto solo “Sono prigioniero del mio stesso corpo”.
Secondo il Family Acceptance Project, ovviamente fa la differenza il modo in cui i genitori accettano la confidenze, i sentimenti e i dolori dei propri figli, ma sarebbe altrettanto importante un’educazione alle differenze, anche trans, a scuola, per educatori e insegnanti.
In Italia per un libro a tematica omosessuale in un liceo si sollevano orde di neofascisti e cattolici; sarà mai possibile sviluppare un sistema didattico capace di insegnare il rispetto e l’inclusività?
Primo criterio da diffondere sarebbe ad esempio l’invito a non dover correggere nulla dell’identità di un essere umano, del suo corpo, della sua percezione di sé, l’invito a repellere la “normalizzazione”, ma invece a valorizzare le differenze. Permettendo a bambine col pene e bambini con la vagina di non sentirsi prigionieri, ma solo in attesa di potersi sentire davvero a proprio agio nel loro corpo.
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