Milano, il giorno
dopo gli attacchi dei black blocToya Graham: il mondo ha bisogno di
donne (e in generale di persone) così. Di donne che pur vivendo
condizioni quotidiane di fatica, ingiustizia e pericolo trasformano
la rabbia, ampiamente motivata, in costruttività, educazione e
solidarietà. Di lei non sapremmo nulla se non fosse per il video
girato durante la manifestazione a Baltimora di qualche giorno fa,
per l’uccisione di un giovane nero da parte della polizia.
Toya, madre di sei
figlie e di un ragazzo, già nonna, in tv riconosce il figlio
Michael, sedici anni, che tira mattoni vestito di nero e
incappucciato. La madre esce da casa di corsa, lo raggiunge, lo
prende per le orecchie, lo spinge fuori dalla strada, gli tira due
ceffoni quando il ragazzo accenna a tornare sui suoi passi. Alla
stampa dichiarerà: “Lo proteggo, non me lo faccio uccidere”.
Toya sa benissimo di cosa parla: lavora in un centro per il recupero
dalla tossicodipendenza. Violenza, droga e delinquenza sono gli
approdi di molti giovani neri a Baltimora, e lei, descritta dalle
colleghe come estroversa e volitiva, vuole dare una lezione a quel
ragazzo che ama.
La buona politica è
anche questo. Toya non è la prima: nel 2006 un gruppo di donne,
molte delle quali madri, sorelle e compagne dei giovani immigrati che
stavano dando alle fiamme le banlieues di Parigi scrissero una
lettera pubblica contro quella violenza, affermando che distruggere
auto, scuole, negozi nei loro quartieri era danneggiare, imbruttire e
violare il bene comune. Nel 2001, un mese prima del G8 a Genova, un
gruppo di donne con diverse esperienze politiche e di movimento
scrissero insieme un documento rivolto ai compagni che teorizzavano
la bontà della violenza ‘rivoluzionaria’, affermando che mimare
la brutalità del potere in nome di un (presunto) ideale di
cambiamento era solo mimesi, non cambiamento.
Fu allora che per la
prima volta fu nominata la pornografia in connessione con la
globalizzazione: la globalizzazione neoliberista, si disse, riduce
l’umano a una sola dimensione, quella di acquirente (chi può), e
chi non può è destinato a soccombere, giacché l’unico spazio
possibile è quello del mercato. O compri o scompari. Se, quindi, il
rischio è quello che il mercato diventi l’unico metro regolatore
delle relazioni, il salto semantico è con la pornografia, lo spazio
nel quale si enfatizza la sessualità genitale, eiaculatoria, spesso
violenta, in stretta connessione con il denaro e il potere, che
taglia fuori la relazione.
Anche Raimo su
Internazionale usa la metafora della pornografia (scrive di riot
porn) ragionando sulle devastazioni di Milano, e la memoria va
all’analisi di Robin Morgan, che nel suo ‘Demone amante –
sessualità del terrorismo’, decostruisce il tema della violenza,
ne svela funzione e moventi, sia nel caso del dominio di Stato così
come delle fattezze della violenza ‘rivoluzionaria’.
Raimo parla di crisi
performativa dei movimenti, e ha ragione: quando si cede alla facile
giustificazione della rabbia per sfasciare ogni cosa sul proprio
cammino (e si minimizza, da parte di chi guarda, la portata del gesto
distruttore) vuol dire che si rinuncia alla creatività, alla
fantasia, all’empatia, allo studio e alla ricerca di strade
alternative di comunicazione delle proprie ragioni, d’inclusione,
di consenso e soprattutto si perde irrimediabilmente il senso del
proprio agire.
Moltissime sono le
ragioni di critica a Expò, come moltissime erano quelle fatte al G8
nel 2001. Il risultato delle violenza di allora, come di quelle di
ora, è la messa nell’angolo dei contenuti della critica.
Possibile che ancora
si conceda credito (e riparo) alle meschine pratiche di chi, senza
volto, spacca tutto sulle strade che calpesta?
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