Si dà il caso che il 10 maggio, festa della mamma, fosse anche il giorno natale della donna che mi ha messo al mondo e amato tanto da farmi studiare, nonostante la condizione economica della famiglia non lo permettesse.
Ma il dono più grande e inaspettato da chi aveva conosciuto il destino femminile come dedizione e obbedienza al comando altrui, amore e maltrattamenti, era racchiuso in una frase impensabile in quell’epoca, in quella cultura contadina: “Stai libera!”.
Che cosa significasse come scelte di vita devo averlo intuito e incorporato tanto da muovere i piedi, appena ho potuto, fuori dal cortile di casa, in fuga verso la città.
Solo più tardi, dopo aver incontrato il femminismo, avrei capito “per virtù di analisi” – sono le parole di Sibilla Aleramo – la dolorosa ambiguità che tiene annodate nell’esistenza femminile la donna e la madre, la forza e la debolezza, l’esaltazione immaginativa e l’insignificanza storica a cui l’ha consegnata la cultura del sesso dominante.
In tutti gli anni che sono vissuta lontano, fino alla sua morte, non ho mai capito se il richiamo che mi faceva perché ricordassi il 10 maggio fosse per il compleanno di una persona generosa che amavo o per la “festa” che ipocritamente, retoricamente, si fa alle “mamme”, perché restino tali, perché continuino a “vivere in funzione degli uomini” (Rousseau), consolarli, sostenerli, avere cura di bambini, malati, anziani e adulti in perfetta salute.
La madre è il primo e l’ultimo tabù, monumento intoccabile della potenza originaria che l’uomo ha conosciuto inerme, in totale dipendenza, e poi sottomesso con le armi che – come scrive Jules Michelet – gli ha dato un “privilegio naturale”, “rafforzato dalla storia con le sue istituzioni e con le sue leggi”. È solo per “magnanimità” che il progresso “civile” l’avrebbe poi accolta nel corso dei secoli come fonte di sussistenza e di rinnovamento morale.
Che altro sono oggi il “Valore D”, i “talenti femminili” – capacità di ascolto e di mediazione, sensibilità e attitudine alla cura –, se non le tradizionali doti attribuite per “natura” al materno?
Che la donna non dovesse mai aver bisogno di affermare la sua individualità, che fosse destinata a “vivere per gli altri”, “amare e partorire”, e che questo sacrificio di sé facesse di lei una “religione”, era stato il massimo tributo che pensatori del secolo precedente, come Michelet, Bachofen, Mantegazza, avevano creduto di fare alla “differenza” femminile.
La donna madre è la donna completa: la donna giovane, bella, ricca non è né può essere felice se in lei non palpita la maternità. La donna che non è madre è l’eunuco del proprio sesso, e l’intricato meccanismo della nostra società civile fabbrica purtroppo ogni giorno a mille di queste mutilate.
Con la messa a tema di un conflitto ancora più provocatorio – La donna clitoridea e la donna vaginale, di Carla Lonzi – all’inizio degli anni settanta comincia la stagione di un femminismo radicale che avrebbe terremotato ruoli tradizionali, certezze identitarie, equilibri tra natura e storia, famiglia e società, individuo e collettivo, sopravvissuti a cambiamenti secolari.
Evidentemente, separare la sessualità dalla procreazione, legittimare l’aborto, scrollarsi di dosso le tante illibertà di cui hanno sofferto le donne, a partire dalla cancellazione di esistenza propria, non è bastato a scalfire il carattere fondativo dell’identità femminile, che ancora viene attribuito all’essere madre. C’è ancora una comprensibile resistenza delle donne ad abbandonare un potere – sostitutivo di altri a loro negati – che viene dal rendersi indispensabili, necessarie a uomini che non hanno mai smesso di affidarsi alle loro cure come figli, mettendo a rischio la loro maschera virile.
Ma c’è anche chi, forte di una sia pur controversa libertà ereditata dalla generazione di donne che l’ha preceduta, scrive:
Perché dovrei essere madre per forza? Per il solo fatto di essere donna? C’è un gusto selvaggio nel dire no. C’è piacere nel dire: che le mie mani restino libere da vincoli. Ho troppo da dare al mondo per dare a uno soltanto. Ho bisogno di stare con me stessa, ora e qui su questo mondo. Non voglio essere due solo perché si deve. Pare che, quando l’occupazione principale di una donna non sia quella di madre ma di cittadina, c’è sempre qualcuno che si preoccupa di metterla a posto. (Eleonora Cirant, Una su cinque non lo fa. Maternità e altre scelte, Franco Angeli 2012)
Tra i molti modi per “rimettere le donne al loro posto” ci sono le mimose dell’8 marzo, i cuoricini di cioccolata del 10 maggio e i penosi attestati di solidarietà del 25 novembre alle vittime della violenza maschile.
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