Auguri d'obbligo alle mamme, nella festa della mamma; e con un pensiero speciale alle madri in lotta. Madri nella battaglia in un modo che brucia fra difficoltà e guerre.
La Stampa racconta di Monique che va a Raqqa a recuperare la figlia Asha, sedotta e subito delusa dal l'Isis, una fra le tante che sfida (e batte) i jihadisti di al Baghdadi. Mentre infatti i bombardamenti della coalizione internazionale sembrano finora poco risolutivi, è proprio l’offensiva femminile, declinata in varie forme, che più ottiene successi e mette, anche psicologicamente, in grave difficoltà lo Stato Islamico.
Fa piacere che l'articolo ricordi in primis le combattenti curde. Quando l’estate scorsa il mondo si è improvvisamente accorto che la tragedia siriana riguardava tutti ha cercato alleati last minute e ha trovato (solo) i curdi. In realtà i peshmerga, così come i battaglioni del PKK, erano in trincea da tempo. Ma tant’è: riflettori puntati in fretta e furia sui valorosi guerrieri nemici giurati di Ankara e fanfare d’incoraggiamento alla loro e nostra controffensiva. Abbiamo allora scoperto che, tradizionalmente, le milizie curde non fanno distinzioni di genere e che le donne vanno all’assalto esattamente come i compagni. Haram! peccato, anzi sacrilegio, per gli esaltati che credono troveranno un paradiso pullulante di vergini, purché non vengano uccisi da mano femminile. Quando poi a fine agosto i media globali hanno diffuso le immagini delle peshmerga Rehana, che dalle retrovie della resistenza di Kobane sorrideva facendo il segno della vittoria con le dita, gli uomini di al Baghdadi sono andati nel panico.
Poi ci sono le spose del jihad. Quelle obbligate, come le fanciulle di Ninive o le yazide, ma anche volontarie: Tunisine, americane, australiane, circa 200 europee partite sognando di sacrificarsi per una causa ideale (tra cui riprodurre martiri) e ritrovatesi invece schiave. Immaginarle in balia dell’odio machista e fondamentalista è indubbiamente una sconfitta per le donne, ma a ben guardare c’è di più. Le “jihadiste” infatti vanno in Siria soprattutto per ragioni umanitarie, non compaiono mai nei video come quelli in cui l’ego degli uomini si gonfia di ferocia, difficilmente affiancano tronfie rivendicazioni di barbarie e molto spesso si pentono. Storie come quella di Aisha, che dopo qualche mese chiama casa disperata, sono numerosissime, anche se assai più raro è il lieto fine. Il franco-tunisino Fouad el Balthy sta ancora cercando di riportare ad Avignone la sorella che da Raqqa lo implora di salvarla.
Infine c’è mamma Monique. Scacco matto - la forza dell’amore contro quella dell’odio. Monique avrebbe potuto essere catturata a Raqqa e uccisa, avrebbe potuto vedere la figlia senza riuscire a portarla via, piangere per decenni le lacrime del fallimento esiziale. Quando i teorici dello Stato Islamico proclamano di essere invincibili perché, diversamente dai dissoluti occidentali e dai loro amici musulmani occidentalizzati, adorano la morte più della vita farebbero bene a ricordarsi delle donne. Le donne che s’innamorano della jihad illudendosi che significhi vita e non hanno paura di fare retromarcia, le donne che come le combattenti curde di Kobane si uccidono per non cadere prigioniere degli jihadisti (che errore grossolano chiamarle kamikaze…), l’organizzazione delle donne arabe che vuole deferire gli uomini di al Baghdadi al Tribunale Penale Internazionale con l’accusa di crimini contro l’umanità, le madri che scendono agli inferi e diversamente da Orfeo tornano indietro vittoriose. Certo, ci sono le eccezioni tipo la presunta jihadista britannica che sarebbe alla guida di un traffico di spose del jihad. Ma le regola è diversa. Che possano essere le donne l’argine psicologico che può sfasciare da dentro il Califfato?
Ecco questa è la domanda. Potranno le donne rendere effettiva la loro resistenza, che dura da sempre, contro le politiche delle dittature e della guerra?
Dall'altra parte del mondo, ci sono poi le madri occidentali che hanno perso figli attratti dalle chimere dell'Isis - e che ora faticosamente nutrono un network di madri di foreign fighters in aiuto di ragazzi a rischio. Si chiama Mothers for Life, l'ha creato Christianne dopo aver perso in Siria il giovanissimo figlio che si era unito alle truppe dell'Isis, per farne un grande ombrello che agisca soprattutto preventivamente. «Convincere i figli a tornare indietro è davvero difficile: da un lato sanno che li aspetta la prigione, dall’altro hanno il terrore di disertare per paura di essere giustiziati da Isis». Meglio allora puntare a dissuadere i ragazzi dalla partenza e imparare a riconoscere i segnali.
Alle madri di piazza de Mayo e a quelle di Kobanè. Alla madre di Narin. A Hanem, madre di Zardest. Alla madre di Reyaneh. Alle madri antimilitariste americane e alle madri di ovunque contro la guerra.
Alle madri indigene che non si arrendono mai. Alle 13 Grandmothers indigene che da 11 anni girano il mondo pregando per la Terra e a tutte le donne e madri impegnate ovunque per le foreste, per i diritti dei popoli indigeni e per il clima.
Alle madri africane e asiatiche che reggono sulle loro spalle il peso di indicibili violenze e ingiustizie.
Alla madre di Baltimora che in piena manifestazione trascina via suo figlio dalla strada, per paura dei troppi decessi causati dalla polizia: “E’ il mio unico figlio. Non voglio che diventi un altro Freddie Gray”. Alla madre sudafricana che dopo il femmincidio della figlia Reeva battaglia contro la violenza su tutte le donne e all'italiana Antonella Penati, che dopo l'assassinio del suo piccolo Federico combatte contro il bambinicidio. A Marinella Colombo e a tutte le altre madri che combattono contro leggi draconiane come lo Jugendamt. Alla madre di famiglia Màxima Acuña, piccola coltivatrice indigena peruviana che per 4 anni ha resistito coraggiosamente agli attacchi violenti, supportati da polizia e istituzioni, di una multinazionale mineraria… è un elenco infinito. A tutte loro, a tutte le madri del mondo in lotta, auguri: di continuare a resistere e di farcela.
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