L'ideologia
del gender non esiste.
Nelle classi si insegna ai più piccoli "a
volare liberi"
Matilde
era una mia alunna che in seconda elementare, a una mostra d’arte
contemporanea, mi chiese se l’artista potesse essere una femmina,
visto che in quella esposizione gli artisti erano solo maschi.
Mohammed,
in quella stessa classe, nella gita di più giorni, lo trovammo una
mattina al risveglio che aveva sistemato tutti i suoi compagni di
stanza sui letti mentre dava il cencio sul pavimento perché in un
posto sudicio non si dormiva bene.
Laura
in prima elementare disse che da grande voleva fare la muratrice -
non il muratore, proprio la muratrice - perché le piaceva il lavoro
del suo babbo.
Giorgio
ha un trasporto affettivo fisico verso tutti e tutte, maschi e
femmine, ma il suo amico del cuore è Andrea ed è sempre lì a
riempirlo di baci.
Edoardo
ha messo in scena un teatro di burattini fatti con le bic e i
tovagliolini di carta in cui prende le difese di un compagno che è
un po’ più basso degli altri e lo fa diventare volante perché
così si riscatta.
Anna
elenca i compagni più importanti per lei e cita maschi e femmine
perché ha sempre detto che lei si sente anche un po’ maschio, ma
lo dice a bassa voce.
Luca
non ha nessun imbarazzo nella pettinatura con la cresta alta che si
fa lui stesso ogni mattina e nessuno lo ha mai preso in giro per la
sua originalità.
Detesto
di tutta questa campagna contro una non ben specificata “ideologia
del gender” che alcune insegnanti starebbero veicolando nella
scuola pubblica, detesto - dicevo - il non avere idea di cosa accada
in una classe. Non sapere la complessità, non interrogarsi su chi
entra in classe ogni giorno e sa di avere davanti una trentina di
mondi che cercano di entrare in relazione tra loro e con noi.
Chi
urla che le maestre indottrinano ha forse la famosa coda di paglia:
pronto a concepire questo lavoro come un’opera di indottrinamento,
di plagio e di riempimento di vuoti.
Ma
insegnare è tutta un’altra faccenda.
La
mia prima reazione di fronte agli attacchi scomposti e molteplici di
quest’ultimo mese è stata un rifiuto. Si è trattato di un attacco
ibrido: argomentazioni senza spessore, toni caricaturali, nessuna
capacità di citare fonti, banalità, falsità ma anche diffidenza,
toni violenti, diffamazione ed un’aggressiva chiamata alle armi
dimenticando che, a fare così, il terreno di battaglia diventano i
bambini e le bambine. Mi fa specie pensare che in alcuni casi siano
stati dei genitori a gridare al lupo rivolgendosi alla stampa invece
di cercare una spiegazione dalle insegnanti. Significa che queste
persone consegnano i propri figli per otto ore al giorno a delle
persone di cui non si fidano e di cui bisogna aspettare il passo
falso, l’errore, la caduta così da poterle cogliere in flagrante.
Più
è profonda la cattiva fede (qui nome omen), più io mi ritiro in
classe dove, in questi giorni, abbiamo allestito una piccola
officina/falegnameria e stiamo lavorando sulla bicicletta. Vorrei
dire, infatti, di venire a titolare che anche nella nostra scuola si
fa propaganda di “ideologia gender” perché - indovina un po’,
caro sentinello in piedi - le bambine smontano i pezzi della
bicicletta come fossero meccanici e - incredibile! - ne capiscono il
funzionamento come fossero ingegneri. Ma allora il sentinello avrebbe
gridato allo scandalo pure qualche mese fa, quando abbiamo fatto un
laboratorio di cucito per realizzare delle stelline e dei pupazzini
morbidi, ed è stato naturale che i bambini - maschi - imparassero e
volessero cucire esattamente come le femmine.
La
cattiva fede sta nell’attaccare la scuola pubblica e prima di tutto
le insegnanti senza minimamente chiedersi su che basi la scuola
scelga di attivare alcune pratiche. Nel 2010 mi capitò tra le mani
il Rapporto Eurydice, la Rete di Informazione sull’Istruzione in
Europa, dal titolo “Differenze di genere nei risultati educativi -
Studio sulle misure adottate e sulla situazione adottata in Europa”.
Leggendolo presi chiaramente visione del problema: l’Italia veniva
richiamata perché sprovvista di sguardi e pratiche relative al
genere, sia a livello politico che educativo. Analizzando la
situazione, emergeva questo, ad esempio: “L’obiettivo più comune
delle politiche di uguaglianza di genere nell’istruzione è la
lotta contro i ruoli e gli stereotipi tradizionali [...] Sembra che
si facciano sforzi per includere genere ed uguaglianza di genere come
argomenti o temi interdisciplinari nei curricoli scolastici dei paesi
europei. Lo stesso non si può dire riguardo allo sviluppo di
adeguati metodi didattici e linee guida specificamente orientati al
genere, che invece potrebbero avere un ruolo importante nel
contrastare gli stereotipi di genere rispetto all’interesse e
all’apprendimento”.
Che
piaccia o meno a guardiani, sentinelle e altri crociati, la scuola
era ed è un luogo in cui si veicolano disuguaglianze di genere.
Certo, il genere non è l’unica variabile che incide sul successo
scolastico e sul benessere in classe. Tra i fattori decisivi c’è
sempre la condizione socio-economica di provenienza, cosa che
dovrebbe accendere molti campanelli d’allarme quando si erodono
soldi e finanziamenti alla scuola pubblica a vantaggio di quella
privata. Leggendo, comunque, la variabile “genere” in molte
ricerche e anche in alcune indagini internazionali (PIRLS, PISA,
TIMMS) vengono fuori alcuni problemi: che le ragazze hanno
un’autostima minore dei ragazzi nelle scienze nonostante abbiano il
medesimo interesse; che le percezioni degli insegnanti sulle
peculiarità maschili e femminili (peculiarità o stereotipi?) sono
ancora decisive per promuovere equità tra i generi; che la presenza
femminile è prevalente tra le insegnanti ma scarsa fra i dirigenti
scolastici e che decresce al crescere della scala accademica; che le
politiche per la formazione dei docenti non prendono in
considerazione la prospettiva di genere.
A
me, come insegnante, preoccupa molto il fatto di avere un così
grande potere su delle giovani persone. Sono moltissimi gli studi su
come le aspettative di chi insegna riescano ad influenzare
l’autostima, la fiducia in se stessi, il successo scolastico di
ragazzi e ragazze e, prima ancora, di bambini e bambine. Abbiamo
discusso spesso con alcune colleghe del perché ci aspettiamo che le
bambine siano più “diligenti” e i bambini più “intuitivi”
in scienze e matematica e scagli la prima pietra chi può dire di
essere totalmente immune da questi stereotipi. Siamo figlie di una
cultura che ha prodotto “uomini che non sanno amare e donne che si
tengono lontane dalla scienza”, come scriveva Evelyn Fox Keller in
un bellissimo saggio di trent’anni fa (Sul genere e la scienza,
Garzanti, Milano 1987), perciò decostruire questi schemi fa molto
bene anche a noi, ci rende più responsabili delle nostre pratiche.
Ci invita a pensare alle nostre proiezioni ed attese su bambini e
bambine e su cosa trasmettiamo loro, ovvero a tutto ciò che non è
ufficialmente presente nei programmi scolastici ma che veicola molti
più contenuti di quanto immaginiamo. Gli esempi che cito all’inizio
parlano, in un certo senso, di ruoli non così attesi rispetto al
genere di appartenenza: bambini che imparano ad esprimere affetti ed
emozioni, a prendersi cura dello spazio di tutti; bambine che si
immaginano in ambiti in cui non sono rappresentate né immaginabili.
Molti anni dopo gli scritti di Bruno Munari, il punto è ancora
questo: aprire il ventaglio delle possibilità, ampliare le
conoscenze, cercare di scegliere consapevolmente, sentirsi nello
spazio aperto della relazione e non in quello chiuso del confine.
Non
si tratta di pratiche che si attivano con un solo strumento - un
libro, un gioco, un laboratorio - né in un tempo circoscritto. Si
tratta di uno sguardo da allenare, di nuove lenti con cui guardare,
di un clima senza censura da costruire quotidianamente. È facile e
probabile che, sentendosi libera di esprimersi, una classe tiri fuori
le peculiarità di ciascuno, permetta di osservare e conoscere altri
punti di vista, ampliando così le possibilità di immaginarsi e di
ispirarsi.
E
allora di cosa parliamo, quando diciamo “genere” a scuola?
Di
costruzione di uno spazio pubblico che è ambito diverso dal privato
della casa e della famiglia e che ci insegna a riflettere sulla
nostra identità. Su chi siamo e cosa immaginiamo di essere in
futuro. La scuola serve anche a questo: a imparare che esistiamo in
autonomia, che ci viene richiesto un pensiero nostro perché lo
abbiamo e possiamo imparare a praticare la libertà di esprimerlo.
Forse è questo che spaventa così tanto: immaginare che già da
piccoli si voglia lasciare il nido per andare alla scoperta del
mondo.
Eppure è proprio così. Le nostre classi sono piene di Cipì. Per
favore, lasciamoli liberi di imparare a volare.
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