No,
l’ideologia del gender non esiste davvero. È una trovata
propagandistica che distorce gli studi di genere
Si
salvi chi può da coloro che, per combattere le discriminazioni
basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere,
vogliono colonizzare le menti di bambini e bambine con una visione
antropologica distorta, con un’azione di indottrinamento gender. Il
monito l’ha lanciato, a più riprese, il mondo cattolico.
Lo
ha fatto, per esempio, il cardinale Angelo Bagnasco in apertura del
Consiglio della Conferenza episcopale italiana. Il Forum delle
associazioni familiari dell’Umbria ha stilato addirittura un
vademecum per difendersi dalla pericolosa introduzione nelle scuole
italiane di percorsi formativi e di sensibilizzazione sul gender. Che
si parli di educazione all’effettività, educazione sessuale,
omofobia, superamento degli stereotipi, relazione tra i generi o cose
simili, tutto secondo loro concorre a un unico scopo:
l’indottrinamento. E anche l’estrema destra a Milano (ma non
solo) ha lanciato la sua campagna “contro l’aggressione
omosessualista nelle scuole milanesi” per frenare eventuali
seminari “diseducativi”.
La
diffusione dell’ideologia gender nelle scuole, secondo ProVita
onlus, l’Associazione italiana genitori, l’Associazione genitori
delle scuole cattoliche, Giuristi per la vita e Movimento per la
Vita, è una vera emergenza educativa. Perché in sostanza, dietro al
mito della lotta alla discriminazione, in realtà spesso si nasconde
“l’equiparazione di ogni forma di unione e di famiglia e la
normalizzazione di quasi ogni comportamento sessuale”. Tanto che,
nello spot che ProVita ha realizzato per promuovere la petizione
contro l’educazione al genere, una voce fuori campo chiede “Vuoi
questo per i tuoi figli?”. Ma cos’è la teoria/ideologia gender?
La
teoria del gender
Non
esiste. Nessuno, in ambito accademico, parla di teoria del gender. È
infatti un’espressione usata dai cattolici (più conservatori) e
dalla destra più reazionaria per gridare “a lupo a lupo” e
creare consenso intorno a posizioni sessiste e omofobe.
Significativa,
per esempio, la posizione di monsignor Tony Anatrella che, nel libro
La teoria del gender e l’origine dell’omosessualità, ci mette in
guarda da questa fantomatica teoria, tanto pericolosa quanto
oppressiva (più del marxismo), che si presenta sotto le mentite
spoglie di un discorso di liberazione e di uguaglianza e vuole
inculcarci l’idea che, prima d’essere uomini o donne, siamo tutti
esseri umani e che la mascolinità e la femminilità non sono che
costruzioni sociali, dipendenti dal contesto storico e culturale.
Un’ideologia (udite, udite) che pretende che i mestieri non abbiano
sesso e che l’amore non dipenda dall’attrazione tra uomini e
donne. Talmente perniciosa, da essersi ormai insediata all’Onu,
all’Unesco, all’Oms, in Parlamento europeo.
“Ma
non ha alcun senso parlare di teoria del gender e men che mendo di
ideologia del gender”, sostiene Laura Scarmoncin, che studia Storia
delle donne e di genere alla South Florida University. “È un’arma
retorica per strumentalizzare i gender studies che, nati a cavallo
tra gli anni 70/80, affondano le loro radici nella cultura femminista
che ha portato il sapere creato dai movimenti sociali all’interno
dell’accademia. Così sono nati (nel mondo anglosassone) i
dipartimenti dedicati agli studi di genere” e poi ai gay, lesbian e
queer studies.
In
sostanza, come spiega Sara Garbagnoli sulla rivista AG About Gender,
la teoria del gender è un’invenzione polemica, un’espressione
coniata sul finire degli anni ’90 e i primi 2000 in alcuni testi
redatti sotto l’egida del Pontificio consiglio per la famiglia con
l’intento di etichettare, deformare e delegittimare quanto prodotto
in questo campo di studi. Poi ha avuto una diffusione virale quando,
in particolare negli ultimi due-tre anni, è entrata negli slogan di
migliaia di manifestanti, soprattutto in Francia e in Italia,
contrari all’adozione di riforme auspicate per ridurre le
discriminazioni subite dalle persone non eterosessuali.
“È
un blob di slogan e di pregiudizi sessisti e omofobi”. Un’etichetta
fabbricata per distorcere qualunque intervento, teorico, giuridico,
politico o culturale, che voglia scardinare l’ordine sessuale
fondato sul dualismo maschio/femmina (e tutto ciò che ne consegue,
come subordinazione, discriminazione, disparità, ecc.) e
sull’ineluttabile complementarietà tra i sessi.
Secondo
gli ideatori dell’espressione teoria/ideologia del genere, nasciamo
maschi o femmine. Punto. Il sesso biologico è l’unica cosa che
conta. L’identità sessuale non si crea, ma si riceve. E il genere
è una fumisteria accademica, come scrive Francesco Bilotta, tra i
soci fondatori di Avvocatura per i diritti Lgbti – Rete Lenford.
In
realtà gli studi di genere costituiscono un campo di indagine
interdisciplinare che si interroga sul genere e sul modo in cui la
società, nel tempo e a latitudini diverse, ha interpretato e
alimentato le differenze tra il maschile e il femminile, legittimando
non solo disparità tra uomini e donne, ma anche negando il diritto
di cittadinanza ai non eterosessuali.
L’identità
sessuale
Gli
studi di genere non negano l’esistenza di un sesso biologico
assegnato alla nascita, né che in quanto tale influenzi gran parte
della nostra vita. Sottolineano però che il sesso da solo non basta
a definire quello che siamo. La nostra identità, infatti, è una
realtà complessa e dinamica, una sorta di mosaico composto dalle
categorie di sesso, genere, orientamento sessuale e ruolo di genere.
Il
sesso è determinato biologicamente: appena nati, cioè, siamo
categorizzati in femmine o maschi in base ai genitali (a volte, però,
genitali ambigui rendono difficile collocare il neonato o la neonata
nella categoria maschio o femmina, si parla allora di
intersessualità).
Il
genere invece è un costrutto socioculturale: in altre parole sono
fattori non biologici a modellare il nostro sviluppo come uomini e
donne e a incasellarci in determinati ruoli (di genere) ritenuti
consoni all’essere femminile e maschile. La categoria di genere ci
impone, cioè, sulla base dell’anatomia macroscopica sessuale
(pene/vagina) e a seconda dell’epoca e della cultura in cui
viviamo, delle regole cui sottostare: atteggiamenti, comportamenti,
ruoli sociali appropriati all’uno o all’altro sesso.
Il
genere, in sostanza, si acquisisce, non è innato, ha a che fare con
le differenze socialmente costruite fra i due sessi. Non a caso nel
tempo variano i modelli socioculturali, e di conseguenza le cornici
di riferimento entro cui incasellare la propria femminilità o
mascolinità.
L’identità
di genere riguarda il sentirsi uomo o donna. E non sempre coincide
con quella biologica: ci si può, per esempio, sentire uomo in un
corpo da donna, o viceversa (si parla in questo caso di disforia di
genere).
Altra
cosa ancora è l’orientamento sessuale: l’attrazione cioè,
affettiva e sessuale, che possiamo provare verso gli altri
(dell’altro sesso, del nostro stesso sesso o di entrambi).
Educare
al genere
“Nelle
nostre scuole – sottolinea Nicla Vassallo, ordinario di filosofia
teoretica all’Università di Genova – a differenza di quanto si è
fatto in altri Paesi, non c’è mai stata una vera e propria
educazione sessuale e anche per questo l’Italia è arretrata
rispetto alla considerazione delle categorie di sesso e genere.
Eppure, educare i genitori e dare informazioni corrette agli
insegnanti affinché parlino in modo ragionato, e non dogmatico, di
sesso, orientamento sessuale, identità e ruoli di genere, a figli e
scolari è molto importante perché sono concetti determinanti per
comprendere meglio la nostra identità personale. E per essere
cittadini occorre sapere chi si è”.
Educare
al genere (come si legge nel bel saggio Educare al genere) significa,
in fondo, sostenere la crescita psicologica, fisica, sessuale e
relazionale, affinché i bambini e le bambine di oggi possano
progettare il proprio futuro al di là delle aspettative sulla
mascolinità e la femminilità.
Basti
pensare, come scrivono le curatrici nell’introduzione,
all’appellativo effeminato che viene usato per descrivere quegli
uomini che non si comportano da “veri maschi” (coraggiosi,
determinati , tutti di un pezzo, che non devono chiedere mai) e danno
libero sfogo alle emozioni tradendo lo stereotipo dominante. E la
scuola può (deve) avere un ruolo fondamentale per scalfire gli
stereotipi di genere, ancora fin troppo radicati nella nostra
società, offrendo a studenti e studentesse gli strumenti utili e
necessari per diventare gli uomini e le donne che desiderano.
Educare
al genere significa dunque interrogarsi sul modo in cui le varie
culture hanno costruito il ruolo sociale della donna e dell’uomo a
partire dalle caratteristiche biologiche (genitali). Contrastare
quegli stereotipi e quei luoghi comuni, socialmente condivisi, che
finiscono col determinare opportunità e destini diversi a seconda
del colore del fiocco (rosa o azzurro) che annuncia al mondo la
nostra nascita.
Concedere
diritto di cittadinanza ai diversi modi di essere donna e uomini. E
significa anche riflettere “sul fatto che le attuali dicotomie di
sesso (maschio/femmina) e di genere (uomo/donna) non sono in grado,
di fatto, di descrivere la complessità della realtà” sottolinea
Vassallo. E dietro questa consapevolezza non ci sono le famigerate
lobby Lgbt, ma decenni di studi interdisciplinari.
A
scuola per scalfire stereotipi e pregiudizi
Trasmettere
ai bambini e alle bambine, attraverso alcune attività
ludico-didattiche, il valore delle pari opportunità e abbattere
tutti quegli stereotipi che, fin dalla più tenera età, imprigionano
maschi e femmine in ruoli predefiniti, granitici, e sono alla base di
molte discriminazioni, è l’obiettivo del progetto Il gioco del
rispetto.
Dopo
la fase pilota dello scorso anno, sta per partire in alcune scuole
dell’infanzia del Friuli Venezia Giulia. Accompagnato però da non
poche polemiche alimentate, ancora una volta, da chi vuole tenere
lontano dalle scuole l’educazione al genere. Come se possa esserci
qualcosa di pericoloso nell’illustrare (lo fa uno dei giochi del
kit didattico) un papà alle prese con il ferro da stiro e una mamma
pilota d’aereo. Alcuni l’hanno definito “una pubblica
vergogna”, un tentativo di “costruire un mondo al contrario“,
l’ennesima propaganda gender, “lesivo della dignità dei bambini”
e inopportuno, perché non avrebbe senso sensibilizzare i bambini
contro la violenza sulle donne, “come se un bambino di 4 o 5 anni
potesse essere un mostro, picchiatore o stupratore“.
Eppure,
poter riflettere sugli stereotipi sessuali, combattere i pregiudizi,
sviluppare consapevolezza dei condizionamenti storico-culturali che
riceviamo, serve anche a prevenire comportamenti violenti e porre le
basi per una società più civile.
Le
esperienze italiane
Lungo
lo Stivale sono diversi i progetti che si prefiggono di abbattere
pregiudizi e stereotipi in classe. Per esempio, l’associazione
Scosse ha promosso l’anno scorso a Roma La scuola fa differenza,
per colmare, attraverso percorsi formativi rivolti a educatori e
insegnanti dei nidi e delle scuole dell’infanzia, le carenze del
nostro sistema scolastico in merito alla costruzione delle identità
di genere, all’uso di un linguaggio non sessista e al contrasto
alle discriminazioni. Da diversi anni lo fa anche la Provincia di
Siena nelle scuole di ogni ordine e grado.
Così
come “da un po’ di anni ”, spiega Davide Zotti, responsabile
nazionale scuola Arcigay, “attività di prevenzione dell’omofobia
e del bullismo omofobico sono organizzate nelle scuole italiane da
Arcigay, Agedo e altre associazioni, attraverso percorsi di
educazione al rispetto delle persone omosessuali”.
In
Toscana, per esempio, la Rete Lenford ha coordinato una rete di
associazioni impegnate in percorsi didattici contro le violenze di
genere e il bullismo omotransfobico, per una scuola inclusiva. E a
Roma l’Assessorato alla scuola, infanzia, giovani e pari
opportunità ha promosso, in collaborazione con la Sapienza, il
progetto lecosecambiano@roma, rivolto alle studentesse e agli
studenti degli istituti superiori della Capitale. Apripista, però, è
stato il Friuli Venezia Giulia, dove da cinque anni Arcigay e
Arcilesbica portano avanti il progetto A scuola per conoscerci, che
nel 2010 ha ricevuto l’apprezzamento da parte del Capo dello Stato,
per il coinvolgimento degli studenti nella formazione civile contro
ogni forma di intolleranza e di discriminazione.
Inoltre,
il ministero per le Pari opportunità e l’Unar (Ufficio nazionale
antidiscriminazioni razziali a difesa delle differenze) hanno
elaborato una strategia nazionale per la prevenzione, rispondendo a
una raccomandazione del Consiglio d’Europa di porre rimedio alle
diffuse discriminazioni legate all’orientamento sessuale e
all’identità di genere (nelle scuole, nel mondo del lavoro, nelle
carceri e nei media). In quest’ambito, l’Istituto Beck ha
realizzato degli opuscoli informativi per fornire ai docente
strumenti utili per educare alla diversità, facendo riferimento alle
posizioni della comunità scientifica nazionale e internazionale sui
temi dell’orientamento sessuale e del bullismo omofobico. E sono
stati organizzati dei corsi di formazione per tutte le figure apicali
del mondo della scuola, al fine di contrastare e prevenire la
violenza, l’esclusione sociale, il disagio e la dispersione
scolastica legata alle discriminazioni subite per il proprio
orientamento sessuale.
Da
qui la levata di scudi contro l’ideologia gender che
destabilizzerebbe le menti di bambini e adolescenti. Perché non solo
tra moglie e marito, ma anche tra genitori e figli non si deve
mettere il dito: guai a mettere in discussione la famiglia
tradizionale e a istillare domande nella testa di bambini e
adolescenti che abbiano a che fare con l’identità (sessuale),
l’affettività o la sessualità.
Il
genere come ideologia
“Se
qualcuno del gender ha fatto un’ideologia è stata la Chiesa
cattolica”. Non ha dubbi in proposito la Vassallo che, nel suo
ultimo libro Il matrimonio omosessuale è contro natura (Falso!), ci
mette in guardia dall’errore grossolano di far coincidere la
femmina (quindi il sesso, categoria biologica) con la donna (il
genere, categoria socioculturale), o il maschio con l’uomo:
negando, in questo modo, identità e personalità a ogni donna e a
ogni uomo.
“Nei
secoli, infatti, la Chiesa cattolica ha costruito l’idea che uomo e
donna siano complementari e si debbano accoppiare per riprodursi”.
Questo, in pratica, sarebbe il solo ordine naturale possibile.
“Invece, se oggi parliamo di decostruzione del genere, non lo
facciamo per una presa di posizione ideologica, ma partendo dalla
costatazione che, di fatto, non ci sono solo due sessi (ce lo dice la
biologia, si pensi all’intersessualità), ci sono più generi e non
c’è un unico orientamento sessuale: ovvero quello eterosessuale,
che la Chiesa ha sempre promosso, etichettando come contro natura
quello omosessuale”.
Ma
la natura non è omofoba. Anzi. Nel libro In crisi d’identità,
Gianvito Martino, direttore della divisione di Neuroscienze del San
Raffaele di Milano, spiega (e documenta) che è un gran paradosso
etichettare l’omosessualità, ma anche il sesso non finalizzato
alla riproduzione, come contro natura. Ci sono infatti organismi
bisessuali, multisessuali o transessuali, la cui dubbia identità di
genere è essenziale per la loro sopravvivenza. Additare quindi come
contro natura certi comportamenti significa ignorare la realtà delle
cose, scegliendo deliberatamente di essere contro la natura.
“Inoltre,
– aggiunge lo psichiatra e psicoanalista Vittorio Lingiardi,
ordinario di psicologia dinamica alla Sapienza di Roma – non solo
ciò che è considerato caratteristico della donna o dell’uomo
cambia nel corso della storia e nei diversi contesti culturali, ma
anche il concetto di famiglia ha conosciuto e sempre più spesso
conosce configurazioni diverse: famiglie nucleari, adottive,
monoparentali, ricombinate, omogenitoriali, allargate, ricomposte,
ecc. Delegittimarle significa danneggiare le vite reali di molti
genitori e dei loro figli. Ci sono molti modi, infatti, di essere
genitori (e non tutti sono funzione del genere). Non lo affermo io,
ma le più importanti associazioni scientifiche e professionali nel
campo della salute mentale dopo più di quarant’anni di
osservazioni cliniche e ricerche scientifiche, dall’American
Academy of Pediatrics, alla British Psychological Society,
all’Associazione Italiana di Psicologia”.
“In
sostanza – conclude Lingiardi – adulti coscienziosi e capaci di
fornire cure, che siano uomini o donne, etero o omosessuali, possono
essere ottimi genitori. Ciò di cui i bambini hanno bisogno è
sviluppare un attaccamento verso genitori coinvolti, competenti,
responsabili. Una famiglia, infatti, non è soltanto il risultato di
un accoppiamento riproduttivo, ma è soprattutto il risultato di un
desiderio, di un progetto e di un legame affettivo e sociale”.
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