Agorà
del Lavoro di Milano, 27 gennaio 2014
Silvia
Motta presenta Ina Praetorius
Buongiorno,
benvenute e benvenuti all’Agorà.
Quella
di stasera è un’occasione speciale di incontro e confronto qui
all’Agorà perché abbiamo la fortuna di avere con noi Ina
Praetorius.
Alcune
già la conoscono: Ina è stata presente più volte a incontri alla
Libreria delle Donne che, tra l’altro, ha tradotto e pubblicato il
suo bel libro “Penelope
a Davos, idee femministe per un’economia globale”.
Anche
la rivista Via Dogana fin dal 2002 ha riportato suoi testi e
conversazioni con il gruppo lavoro. Ma, per chi la conosce meno, due
parole su di lei prima di cominciare.
Ina
– che con gran senso dell’umorismo si autodefinisce una
rompiscatole postpatriarcale, come abbiamo scritto nell’invito –
è una pensatrice femminista di prima grandezza, autrice di numerosi
libri, saggi, articoli su varie riviste. È nata in Germania e vive
con la famiglia a Wattwil in
Svizzera. È dottora in teologia, casalinga e madre di una figlia.
Se
qualcuno però andasse a leggere la sua presentazione sul suo sito
internet, nella sezione “about
me”,
troverebbe una cosa molto divertente: Ina si presenta in tre modi,
con tre curriculum.
-
Un CV (livello C), dove descrive quello che è fa in maniera
personale /non neutra, ma piuttosto convenzionale: sua madre l’ha
messa al mondo nel tal anno, dove è cresciuta, gli studi che ha
fatto, chi ha sposato, che ha avuto una figlia, dove abita ora.
-
Un CV (livello A), dove la stessa Ina è nata in vari paesi e
cresciuta in varie città, Manila, Tokio, ha studiato e lavorato in
tutto il mondo, è stata consigliera permanente al Pentagono e al
Ministero Afgano degli Affari esteri, ha avuto tanti figli, ha
sposato Bill Gates et Britney Spears …
Cioè
si descrive come cittadina del mondo e artefice del mondo, per
un’autorevolezza che non le deriva dall’esterno ma che lei si dà.
Poi
un ulteriore CV (livello A*) , dove inizia dicendo:
“Nel
marzo 1956 sono uscita dal corpo di mia madre come una neonata
sanguinante, appiccicosa, urlante, ricoperta di muco. Negli anni
delle persone più grandi mi hanno fornito nutrimento, riparo, il
calore e il senso della vita. Ho ricevuto delle parole come “Dio”,
“Amore” o “Gesù Cristo” per orientarmi nel mondo e dare
senso alla mia vita… ecc.Poi
dice che al mattino si alza e alla sera va a letto e cosa fa tra
questi due intervalli, fino a concludere “
Un giorno morirò”.
Cioè
descrive se stessa a partire da quello che, nella costruzione
patriarcale della storia, è stato rimosso: la nascita, che tutti
nasciamo da donna e siamo esseri dipendenti. Un rimosso che ha
prodotto quello che Ina definisce “un
errore del pensiero, fonte di una serie infinita di conseguenze,
intorno alla quale ruota la nostra percezione del mondo”.
In
questa presentazione c’è molto del suo pensiero. Un pensiero che
si misura con i grandi temi dell’oggi e che sovverte in maniera
radicale il modo patriarcale di guardare all’economia, al lavoro,
alla vita.
È
un pensiero che io ho incontrato per la prima volta leggendo Penelope
a Davos. Quella Davos dove ogni anno, anche in questi giorni, si
riuniscono i big dell’economia e della finanza per, secondo loro,
dare una sistemata al mondo, e dove Ina ha partecipato in qualità di
osservatrice.
In
una fantasia di Ina, Penelope è lì negli ingressi super sorvegliati
del lussuoso centro congressi… è lì con il suo telaio per la
tessitura, non più figura passiva come tradizione vuole, ma con il
distacco e il punto di vista di una donna che sa che va ripensato
tutto dall’inizio. Quindi disfa, per poi tessere, ri-tessere.
Ecco,
“ripensare tutto dall’inizio” è quello che Ina Praetorius fa
sviluppando il suo pensiero economico e politico. Un’economia e
un’antropologia della natalità.
Le
abbiamo chiesto di parlarne qui all’Agorà del lavoro, perché
l’Agorà è nata proprio con l’ambizione di portare
nell’economia, nel lavoro, nel mondo il punto di vista delle donne.
Ambizione e contenuti che io ritengo molto in sintonia con il
pensiero di Ina Praetorius.
È
proprio qui, all’Agorà, che abbiamo dato voce e sostanza a
concetti come il “Primum
vivere”, che “il
lavoro è molto di più”,
che “il
lavoro è tutto il necessario per vivere, non solo il lavoro per il
mercato”
ecc.
Ma,
proprio perché ne parliamo qui all’Agorà – che vuole essere un
luogo di elaborazione politica e una pratica attiva – le abbiamo
chiesto di parlarci anche delle traduzioni politiche e pratiche che
lei fa del suo pensiero.
In
particolare le abbiamo chiesto di raccontarci l’esperienza che ha
fatto nella campagna in Svizzera sul reddito di base incondizionato,
un’attività che ha portato avanti con l’intento di interpretare
questo obiettivo in maniera post-patriarcale. E che le ha procurato
non pochi conflitti.
Passo
la parola a Ina Praetorius e a Traudel Sattler che farà le
traduzioni.
Ina
Praetorius
Il
reddito di base incondizionato come progetto postpatriarcale.
Per
quanto ne sappiamo, finora tutti gli esseri umani sono venuti al
mondo come poppanti: dal corpo di un essere umano di sesso femminile
della generazione precedente. I “nuovi arrivati” possono
sopravvivere solo se qualcuno/a dà loro ciò di cui hanno bisogno.
Di che cosa hanno bisogno? Di protezione, di cibo, vestiti, calore,
amore, stimoli, sonno, tranquillità, regole, lingua, morale e di
molte altre cose. Tutto questo i nuovi nati lo ricevono come dono,
perché non sono in grado di pagarlo.
Se
cominciamo a ripensare l’economia a partire da questo fondamento –
difficilmente contestabile – della conditio
humana,
allora molte cose cambiano. Perché oggi, nel tempo del fine
patriarcato, viviamo ancora con un ordine simbolico che mette al
centro il maschio adulto oppure uno pseudo-neutro da lui derivato: il
soggetto economico “libero”, colui che partecipa al mercato, il
cittadino ecc. Nella stessa logica l’economia viene sì definita
come azione collettiva, basata sulla divisione del lavoro per
soddisfare i bisogni umani, ma di fatto si comincia a parlare di
economia a partire dai soldi, dal mercato, dallo stato e dall’età
adulta, tacendo così almeno la metà delle misure atte a soddisfare
i bisogni: infatti il lavoro di cura indispensabile, finora in larga
misura gratuito, è il settore maggiore dell’economia, come è
stato dimostrato. In Svizzera è entrato da qualche anno nella
statistica ufficiale; solo che i media e la ricerca mainstream finora
non ne hanno davvero preso atto. Anche se una grande parte della
società continua a rifiutarsi di guardare tutta l’economia,
è giusto dire che solo chi ha una visione d’insieme – che
comprende cura di base, lavoro volontario, mercato e forse altro
ancora – e solo chi vede il nostro agire economico inserito nel
cosmo vulnerabile che continua ad elargire doni, può affrontare le
varie crisi del nostro tempo in modo adeguato e sviluppare delle
soluzioni durevoli.
2400
anni di Self
Made Man (l’uomo che si è fatto da sé)
Dal
21 aprile 2012 fino ai primi di marzo 2013 ero impegnata a
raccogliere firme per l’“iniziativa popolare per un reddito di
base incondizionato”. In quell’occasione, nelle strade e piazze
svizzere, ho sentito dire tante volte: “La mia vita me la sono
guadagnata da solo!”
Che
cosa vogliono dire i numerosi ex poppanti con questa frase?
Loro
pensano che, dopo aver ricevuto gratuitamente per anni da qualcun
altro tutto il necessario, alla fine hanno fatto degli sforzi per
guadagnare soldi: per esempio hanno fatto la scuola, si sono dati una
formazione, hanno trovato un posto di lavoro oppure hanno “fatto
carriera” . Queste fatiche pluriennali meritano, senza dubbio, un
certo riconoscimento. Posso persino capire che alcune persone
che sentono di
“mantenere con le loro fatiche” se stessi e forse anche una
famiglia, non se la sentano spontaneamente di dare una parte del loro
denaro a coloro che si impegnano meno.
Questa
affermazione “guadagnarsi la vita con le proprie forze” è
abbastanza corrente e stranamente poco messa in dubbio. È il
riflesso fedele della visione semplicistica dell’economia, con la
quale conviviamo dalla fine del ‘700 circa. Il liberalismo
economico moderno, a sua volta – così come molte parti della
teoria socialista – si basa su una visione sdoppiata del mondo che
troviamo già nel quarto sec. A. C., ad esempio
nell’autorevole Politica di
Aristotele: Il filosofo sostiene che l’uomo che secondo la sua
natura non appartiene a se stesso ma ad un altro è per natura uno
schiavo, e anche il rapporto tra maschile e femminile sarebbe per
natura così: uno è meglio, l’altra inferiore, uno governa,
l’altra viene governata. Sempre secondo il filosofo, la gestione
della casa è una monarchia – perché ogni casa viene governata da
un’unica persona – la politica al contrario consiste nel
governare uomini liberi e uguali tra loro.
Esiste
quindi una continuità strutturale tra la società schiavista
dell’antichità, che molti ancora oggi chiamano affettuosamente “la
culla della civiltà occidentale” – e la nostra vita collettiva
di oggi. Ma si comincia a vedere che “la mano invisibile del
mercato”, buona erede del “Dio padre” patriarcale, in realtà
sono innumerevoli mani, soprattutto femminili, che lavorano. Ora
quelle mani cominciano a diventare visibili, e ciò crea degli
spostamenti, delle crisi – ed enormi spazi d’azione.
Si
potrebbe ricominciare a riflettere …
Il
dibattito sul reddito di base incondizionato sarebbe, ad esempio, una
possibilità straordinaria per pensare noi stessi come esseri umani
in modo del tutto nuovo – o forse antico: liberi nella dipendenza.
Esseri umani che hanno ricevuto molti doni, in continuazione,
all’inizio della vita e anche in età adulta, e che “si sono
guadagnati da soli” solo una piccola parte della loro vita. La
politologa Antje Schrupp spiega il necessario cambio di paradigma
dicendo:
“La
realizzazione dell’idea del reddito di base richiede un profondo
ripensamento culturale, con due aspetti che non si possono guardare
separatamente: da una parte l’idea che è normale ricevere qualcosa
senza prestazione in cambio, dall’altra parte l’idea che le
persone si sentono responsabili del loro ambiente e che fanno il
necessario, anche senza essere costrette o remunerate.”
Se
si affrontasse il dibattito alla luce dell’intera economia,
invece di quella basata esclusivamente sul denaro, allora si vedrebbe
che il reddito di base non è solo una questione di più
libertà,
come continuano a sottolineare molti dei protagonisti maschili di
questo movimento, ma che si tratta piuttosto di organizzare
le attività necessarie in modo nuovo. Finora
si è parlato molto di libertà e poco di dipendenza e necessità –
e solo raramente si dice che le donne già da molto tempo si stanno
facendo carico della maggior parte della attività necessarie, senza
quegli “incentivi economici”, da molti ritenuti indispensabili.
… e
spesso si lascia perdere
A
questo proposito vorrei citare l’esempio della polemica nata
attorno alla trasmissione-dibattito “Arena” alla televisione
svizzera del 27 aprile 2012, dedicata alla discussione sul reddito di
base. In
quella trasmissione si confrontavano quattro uomini, due favorevoli e
due contrari. La trasmissione durava 75 minuti. Gli uomini presenti
ne hanno occupato 72 per i loro interventi, le donne tre. Dopo 10
minuti viene inserito un grafico per illustrare il progetto reddito
di base: una sagoma maschile, accompagnata dal commento
“Uno
che guadagna 10.000 franchi, nel nuovo sistema riceve un reddito di
base di 2.500 franchi e uno stipendio di 7.500.”
Poi
appare una sagoma femminile, accompagnata dal testo:
“Chi
non lavora riceve, senza
fare niente,
2.500 franchi.”
L’affermazione
ripetuta più volte dai contrari all’iniziativa, cioè “chi non
guadagna denaro non rende, e quindi bisogna stimolare queste persone
con incentivi monetari” non incontra quasi alcuna obiezione.
Fortunatamente
la massima istanza per il controllo dei media ha accolto
all’unanimità il ricorso di una telespettatrice, Martha
Beéry-Artho, che aveva formalmente protestato per mancanza di
informazione adeguata in questa trasmissione. Il giudizio che le dà
ragione dice che il maggiore settore economico, non pagato o
sottopagato, cioè la cura, non deve essere un “aspetto secondario”
in una trasmissione dedicata al futuro della convivenza umana.
Ma
la storia non finisce qui: nelle
settimane successive al giudizio dell’autorità di ricorso, io in
quanto membro del comitato d’iniziativa ho cercato di far capire
alle e agli altri promotori e anche ai media che questo fatto era da
mettere in grande rilievo.Ma giornalisti di grido, redattrici e
attivisti per il reddito di base si sentivano infastiditi dalla mia
richiesta e mi spiegavano che non spettava a loro “portare più
donne in televisione”. Erano sordi alla mia obiezione che una
rappresentazione adeguata della dipendenza dalla cura non si ottiene
grazie a “più donne”, ma solo attraverso precise analisi
economiche. Il comitato d’iniziativa ha deciso a maggioranza di non
pubblicare un commento positivo sul giudizio dell’autorità di
ricorso. Il giudizio è poi stato pubblicato in Internet e io ho
smesso di raccogliere firme per l’iniziativa popolare, cosa
piuttosto inusuale per una che l’ha promossa. In seguito la potente
società televisiva ha trascinato il caso davanti alla corte suprema.
Quest’ultima ha revocato il giudizio dell’autorità di ricorso
l’11 ottobre 2013.
Ancora
da capo
L’
“iniziativa popolare per un reddito di base incondizionato” ha
consegnato a Berna il 4 ottobre 2013 più di 120.000 firme valide. Il
dibattito continua, e ciò significa che avremo ancora molte
occasioni per dare un’impronta postpatriarcale al reddito di base
incondizionato, contro una resistenza massiccia, ma con molto
divertimento e molto lavoro sulle relazioni e sul linguaggio.
Insomma,
la questione fondamentale di questo dibattito è di capire chi siamo
in realtà, noi esseri umani: riconosciamo il fatto di essere
dipendenti dalla cura, e che riceviamo tanti doni, anche da adulti?
Capiamo che per questo motivo ogni forma di attività nel mondo è un
atto di restituzione per qualcosa ricevuto in precedenza? In futuro,
tutti, non solo le casalinghe e le madri, saranno disposti a fare le
cose sensate e necessarie, senza incentivi monetari?
La
politica postpatriarcale è un’arte. È un processo di
contrattazione che non finisce mai. Mi capita di disperarmi per
l’ottusità di tante persone. Mi capita di essere talmente
arrabbiata da voler prendere d’assalto il grattacielo della società
televisiva, e anche il tribunale federale. Ma quasi sempre è una
festa continuare il lavoro, imperterrita, insieme alle mie amiche
politiche. Traduzione
dal tedesco: Traudel Sattler
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