Come diventare un paese
anche per donne di Gianna Fregonara e Orsola Riva
I dati diffusi
dall’Istat confermano che l’Italia non è un Paese per donne. Le
culle restano vuote, le più vuote d’Europa. E la partecipazione al
mercato del lavoro non decolla: meno di una donna su due ha un
impiego. Con un tasso di occupazione femminile del 46,6 per cento
siamo il penultimo Paese del Continente, davanti soltanto a Malta.
Come ci ha rimproverato qualche settimana fa il direttore del Fondo
monetario internazionale Christine Lagarde, siamo «uno dei Paesi che
incoraggiano di meno la partecipazione delle donne al lavoro». Una
donna su due, dopo il primo figlio, alza bandiera bianca e lascia la
fabbrica o l’ufficio.
È questa una scommessa
persa non solo per le donne — perché tutte le volte che leggiamo
una statistica sul fatto che non facciamo più figli ci giriamo a
guardare solo dalla parte delle donne? — ma per tutto il Paese. Si
calcola, infatti, che se ci allineassimo agli standard europei, il
nostro Pil aumenterebbe di sei o sette punti percentuali. E forse
anche le nostre culle resterebbero meno vuote. Perché non è più
vero che ci sia un nesso negativo fra tasso di fecondità e tasso di
impiego. Vale semmai l’opposto: le donne francesi sono in cima alla
classifica europea per numero di figli (un paio a testa, contro una
media Ue di uno e mezzo e il record negativo italiano di 1,3) e il
loro tasso di impiego è sensibilmente più alto che da noi (sfiora
il 60 per cento). Certo, loro possono contare su una serie di misure
(in primis il celeberrimo sistema di nidi) che aiutano la
conciliazione fra vita professionale e famiglia. Mentre da noi solo
10 bambini su 100 nella fascia d’età fra zero e due anni trovano
posto negli asili pubblici.
Il problema è che
finora gli interventi a sostegno della maternità sono stati pensati
prevalentemente come aiuti alle famiglie deboli, ai redditi bassi,
come welfare anti-povertà, senza un vero e proprio riconoscimento
del valore sociale della maternità in generale. Né tantomeno del
valore del lavoro femminile.
E così finisce che a
molte donne lavorare non conviene: senza reti familiari (per trovare
un impiego spesso bisogna essere disposti a spostarsi da casa e
andare dove il mercato chiama) e prive di strutture pubbliche di
sostegno (non solo per l’accudimento dei più piccoli ma anche per
la cura degli anziani che, tradizionalmente in Italia, è in capo
alle figlie o alle nuore), lavorare diventa, paradossalmente, non una
fonte di guadagno ma un costo personale, e anche economico,
insostenibile. Uno studio riportato oggi sul Corriere dimostra come
nelle aziende italiane siano ormai tramontati i vecchi pregiudizi
sulle donne ma permanga un’organizzazione rigidissima del lavoro
che spesso le costringe a rinunciare quando fanno un figlio. Alcuni
progressi sono stati fatti in termini di incentivi fiscali alle
aziende che assumono donne dopo la maternità, ma le politiche sulla
conciliazione lavoro-famiglia restano molto indietro. Il Nord e il
Sud poi ci raccontano due realtà completamente diverse con una
qualità dei servizi molto distante e punte di inefficienza
inaccettabili come il caso della chiusura lo scorso anno dell’ultimo
asilo rimasto a Reggio Calabria.
Come aiutare l’Italia
a diventare un Paese anche per donne (e bambini)? Qualche mese fa
sulle pagine del Corriere Maurizio Ferrera ha fatto una proposta in 4
punti che vorremmo rilanciare.
Primo: allungare il
congedo obbligatorio di paternità; un giorno non basta nemmeno da un
punto di vista simbolico, figuriamoci sul piano pratico.
Secondo: ampliare
l’offerta dei nidi pubblici creando almeno 100 mila posti in più
in 5 anni.
Terzo: aumentare i
servizi anche a domicilio per la cura dei nostri genitori.
Ultimo ma non per
ultimo, agire sugli orari di lavoro rendendoli molto più flessibili
(la stessa Lagarde citava il modello olandese dove il part-time è
quasi un diritto e a chiederlo sono sempre più spesso anche gli
uomini).
Si potrebbe aggiungerne
un quinto. Come suggerito qualche giorno fa sulla Lettura da Paola
Mastrocola, basta con le scuole medie chiuse al pomeriggio. Non ha
senso abbandonare i nostri ragazzi a se stessi in una fase così
delicata del loro sviluppo. Usiamo quelle ore in più non per lezioni
frontali ma ad esempio per la lettura condivisa di un libro in
classe. Aiuteremo loro a diventare grandi e sgraveremo le loro mamme
dal compito (oggi immane) di educarli da sole. Certo per farlo ci
vogliono dei soldi ma, come diceva Benjamin Franklin, nessun
investimento paga un rendimento più alto di quello in conoscenza.
Quando, passando davanti a una scuola, inizieremo a guardarla con
occhi nuovi, a pensare che lì dentro è custodito un pezzo del
nostro Pil (e una garanzia per la nostra pensione), allora e solo
allora forse le nostre culle non saranno più vuote.
La rivoluzione Huffington "Donne, lavorate meno"di ARIANNA HUFFINGTON
IL CONCETTO di
successo che va per la maggiore adesso (in base al quale lavorare
fino al logoramento psicofisico si considera un titolo di merito), e
che ci porta all’annientamento, se non addirittura alla tomba, è
stato introdotto dagli uomini, in una cultura dominata dagli uomini.
Però è un modello di successo che non funziona per le donne, e in
realtà nemmeno per gli uomini. A quanto ci dicono, nulla funziona
meglio dell’eccesso. Se una certa dose di qualcosa ci sta bene, una
dose maggiore deve andare ancora meglio. Dunque lavorare ottanta ore
alla settimana dev’essere meglio che lavorarne quaranta. E si dà
per scontato che essere reperibili 24 ore al giorno per sette giorni
alla settimana sia un requisito standard di qualunque lavoro serio;
il che significa che dormire meno e fare costantemente più cose
assieme è il modo più rapido per fare carriera. Siete d’accordo?
È venuto il momento di rivedere queste ipotesi. Quando lo facciamo,
si vede chiaramente che il prezzo che paghiamo per questo modo di
pensare e di vivere è decisamente troppo alto e
insostenibile.
L’architettura della nostra vita dev’essere assolutamente rinnovata e ristrutturata. Ciò che apprezziamo davvero è fuori sincronia rispetto al nostro modo di vivere. E occorrono urgentemente nuovi progetti per riconciliare le due cose. Nell’Apologia di Platone, Socrate afferma che la missione della sua vita è far capire agli ateniesi quanto sia importante prendersi cura della propria anima. Il suo invito senza tempo a entrare in sintonia con noi stessi rimane ancora l’unica ricetta per prosperare veramente. Siamo decisamente in troppi a lasciarci dietro la vita — e anche l’anima — quando andiamo al lavoro. [...] Il concetto di successo che va per la maggiore adesso — in base al quale lavorare fino all’esaurimento e al logoramento psicofisico si considera un titolo di merito — , e che ci porta all’annientamento, se non addirittura alla tomba, è stato introdotto dagli uomini, in una cultura dominata dagli uomini. Però è un modello di successo che non funziona per le donne, e in realtà nemmeno per gli uomini. Se vogliano ridefinire il significato di successo, se vogliamo adottare una terza metrica che va al di là del denaro e del potere, dovranno essere le donne a segnare la via, e gli uomini, liberati dall’idea che l’unica strada per il successo sia prendere l’autostrada dell’infarto verso la città dello stress, ci seguiranno riconoscenti sia al lavoro sia a casa. È la terza rivoluzione femminile.
La prima fu guidata dalle suffragette più di un secolo fa, quando donne coraggiose come Susan B. Anthony, Emmeline Pankhurst ed Elizabeth Cady Stanton combatterono per assicurare alle donne il diritto di voto. La seconda fu guidata da Betty Friedan e Gloria Steinem, che combatterono — e Gloria continua a farlo — per ampliare il ruolo delle donne nella nostra società e dare loro pieno accesso alle stanze e ai corridoi del potere, dove si prendono le decisioni. La seconda rivoluzione è ancora in corso, come è giusto che sia. Ma non possiamo proprio più aspettare che cominci la terza rivoluzione. Questo perché le donne stanno pagando un prezzo ancora più alto degli uomini per la partecipazione a una cultura del lavoro alimentata dallo stress, dalla privazione del sonno e dal logoramento psicofisico. Il che spiega perché molte donne di talento e molto qualificate, che occupano posizioni di grandissima responsabilità, finiscono per rinunciare alla carriera appena possono permetterselo.
Vediamo come e perché questi costi personali sono insostenibili. Come accennavo nell’Introduzione — ma è fondamentale ripeterlo — le donne che svolgono lavori altamente stressanti hanno un rischio di sofferenza cardiaca superiore di circa il 40% a quello delle colleghe meno stressate, e un rischio superiore del 60% di ammalarsi di diabete di tipo 2 (un collegamento che non esiste per gli uomini, detto per inciso). Le donne colpite da infarto hanno quasi il doppio delle probabilità degli uomini di morire entro un anno, e le donne che occupano posizioni ad alto stress hanno maggiori probabilità delle altre di diventare alcoliste. Lo stress e le pressioni che si accompagnano a una carriera di alto profilo possono anche causare disordini alimentari nelle donne di età compresa tra i 35 e i 60 anni. Il più delle volte, il dibattito sui problemi che affliggono le donne top manager si incentra sulla difficoltà di conciliare la carriera con l’allevamento dei figli, di “riuscire a fare tutto quanto”. È ora di riconoscere che, di fronte alla struttura attuale dell’ambiente di lavoro, tantissime donne non vogliono arrivare al vertice né rimanerci, perché non vogliono pagarne il prezzo, in termini di salute, di benessere e di felicità. Quando le donne lasciano posti di grande responsabilità, il dibattito si riduce quasi sempre alla contrapposizione binaria tra madre-casalinga e donna in carriera. In realtà, però, quando le donne che occupano posizioni di vertice — o di alto profilo — decidono di andarsene, non è solo per curare i figli, anche se a volte questi prendono il posto del lavoro. [...] Stando a un’indagine di ForbesWoman, un incredibile 84% delle donne lavoratrici intervistate dichiara che stare a casa a curare i figli è un lusso finanziario a cui aspirano. Il che la dice lunga sia sulla soddisfazione che ricaviamo dal lavoro sia sull’amore che ci lega alla nostra certamente adorabile prole.
L’architettura della nostra vita dev’essere assolutamente rinnovata e ristrutturata. Ciò che apprezziamo davvero è fuori sincronia rispetto al nostro modo di vivere. E occorrono urgentemente nuovi progetti per riconciliare le due cose. Nell’Apologia di Platone, Socrate afferma che la missione della sua vita è far capire agli ateniesi quanto sia importante prendersi cura della propria anima. Il suo invito senza tempo a entrare in sintonia con noi stessi rimane ancora l’unica ricetta per prosperare veramente. Siamo decisamente in troppi a lasciarci dietro la vita — e anche l’anima — quando andiamo al lavoro. [...] Il concetto di successo che va per la maggiore adesso — in base al quale lavorare fino all’esaurimento e al logoramento psicofisico si considera un titolo di merito — , e che ci porta all’annientamento, se non addirittura alla tomba, è stato introdotto dagli uomini, in una cultura dominata dagli uomini. Però è un modello di successo che non funziona per le donne, e in realtà nemmeno per gli uomini. Se vogliano ridefinire il significato di successo, se vogliamo adottare una terza metrica che va al di là del denaro e del potere, dovranno essere le donne a segnare la via, e gli uomini, liberati dall’idea che l’unica strada per il successo sia prendere l’autostrada dell’infarto verso la città dello stress, ci seguiranno riconoscenti sia al lavoro sia a casa. È la terza rivoluzione femminile.
La prima fu guidata dalle suffragette più di un secolo fa, quando donne coraggiose come Susan B. Anthony, Emmeline Pankhurst ed Elizabeth Cady Stanton combatterono per assicurare alle donne il diritto di voto. La seconda fu guidata da Betty Friedan e Gloria Steinem, che combatterono — e Gloria continua a farlo — per ampliare il ruolo delle donne nella nostra società e dare loro pieno accesso alle stanze e ai corridoi del potere, dove si prendono le decisioni. La seconda rivoluzione è ancora in corso, come è giusto che sia. Ma non possiamo proprio più aspettare che cominci la terza rivoluzione. Questo perché le donne stanno pagando un prezzo ancora più alto degli uomini per la partecipazione a una cultura del lavoro alimentata dallo stress, dalla privazione del sonno e dal logoramento psicofisico. Il che spiega perché molte donne di talento e molto qualificate, che occupano posizioni di grandissima responsabilità, finiscono per rinunciare alla carriera appena possono permetterselo.
Vediamo come e perché questi costi personali sono insostenibili. Come accennavo nell’Introduzione — ma è fondamentale ripeterlo — le donne che svolgono lavori altamente stressanti hanno un rischio di sofferenza cardiaca superiore di circa il 40% a quello delle colleghe meno stressate, e un rischio superiore del 60% di ammalarsi di diabete di tipo 2 (un collegamento che non esiste per gli uomini, detto per inciso). Le donne colpite da infarto hanno quasi il doppio delle probabilità degli uomini di morire entro un anno, e le donne che occupano posizioni ad alto stress hanno maggiori probabilità delle altre di diventare alcoliste. Lo stress e le pressioni che si accompagnano a una carriera di alto profilo possono anche causare disordini alimentari nelle donne di età compresa tra i 35 e i 60 anni. Il più delle volte, il dibattito sui problemi che affliggono le donne top manager si incentra sulla difficoltà di conciliare la carriera con l’allevamento dei figli, di “riuscire a fare tutto quanto”. È ora di riconoscere che, di fronte alla struttura attuale dell’ambiente di lavoro, tantissime donne non vogliono arrivare al vertice né rimanerci, perché non vogliono pagarne il prezzo, in termini di salute, di benessere e di felicità. Quando le donne lasciano posti di grande responsabilità, il dibattito si riduce quasi sempre alla contrapposizione binaria tra madre-casalinga e donna in carriera. In realtà, però, quando le donne che occupano posizioni di vertice — o di alto profilo — decidono di andarsene, non è solo per curare i figli, anche se a volte questi prendono il posto del lavoro. [...] Stando a un’indagine di ForbesWoman, un incredibile 84% delle donne lavoratrici intervistate dichiara che stare a casa a curare i figli è un lusso finanziario a cui aspirano. Il che la dice lunga sia sulla soddisfazione che ricaviamo dal lavoro sia sull’amore che ci lega alla nostra certamente adorabile prole.
Nessun commento:
Posta un commento