Parole, parole, parole…
Dopo tanto discutere siamo ancora qui.
Inchiodati sotto il 47% di occupazione femminile; alle dimissioni in bianco; all’uno virgola “rotti” di figli per donna (per giunta con sempre meno “rotti” dopo la virgola).
Ce lo ha ricordato l’altro ieri Christine Lagarde, presidente del Fondo monetario internazionale. E, nell’editoriale pubblicato oggi sul Corriere della Sera, Maurizio Ferrera sottolinea che “il nodo principale sta nel nostro modello economico-sociale che ostacola la realizzazione del progetto di vita a cui aspirano le donne italiane (come quelle di tutti i Paesi sviluppati): avere un lavoro e fare figli. Tutte e due le cose, non solo una”.
Come è concesso agli uomini, d’altra parte: perché dovrebbe stupire che questa possa essere l’aspirazione anche di una donna?
E allora? E allora è tempo di smetterla con le parole e di prendere decisioni VERE da parte di chi queste decisioni è tenuto a prenderle. Abbiamo, per prima cosa, un governo e un parlamento. E, poi, abbiamo Confindustria, Rete Imprese Italia, sindacati di tutte le sigle. Ci siamo noi stesse/i.
Non è impossibile decidere, la legge che ha introdotto le quote di genere nelle società quotate e pubbliche è la dimostrazione che si può. Se si vuole.
Cosa fare? Poche cose semplici e senza troppi distinguo (basta – e non solo in tema di famiglia – con le leggine che normano mille situazioni diverse!):
1) Congedo di paternità OBBLIGATORIO per 3 MESI (discutere su uno, due, tre o comunque pochi giorni come “simbolo” è solo tempo perso).
2) Detrazione COMPLETA dalla dichiarazione dei redditi dei lavori di cura, qualunque essi siano (per i figli fino alla scuola media compresa, per le persone anziane, per le persone non autosufficienti) e per qualunque reddito. A fronte, ovviamente, di un regolare contratto di assunzione della persona che presta il lavoro di cura. (Io, peraltro, aspetto con speranza il famoso e più generale “conflitto di interessi” fiscale)
Poi, c’è il piano culturale, che richiede tempi più lunghi ma che non dev’essere un alibi per stare fermi.
Agire, quindi, come sta facendo il Corriere della Sera, mettendo in evidenza gli stereotipi per poterli combattere; mutando il linguaggio (più ministre e avvocate, definitivamente basta con “l’ha uccisa perché l’amava troppo”); chiedendo la collaborazione degli uomini.
La mia agenda è tutta qui.
Ps. A chi obietta che non tutte le donne vogliono fare carriera ma molte preferiscono occuparsi della famiglia e della casa, rispondo che è perfettamente legittimo e non c’è alcun giudizio negativo, anzi! Ma 1) lavoro significa indipendenza economica, non necessariamente carriera, 2) nel caso in cui in una famiglia si scelga una divisione dei ruoli “tradizionale” è bene metterlo per iscritto fin dall’inizio perché non si debbano pagare conseguenze troppo alte quando diventa impossibile recuperare il tempo perduto.
La busta
paga virtuale delle casalinghe di Irene Maria Scalise
“Il loro
lavoro vale 7mila euro al mese” Cuoche, autiste, psicologhe nello
stesso tempo: uno studio calcola lo stipendio che meritano
Cuoca, autista, insegnante, psicologa, contabile, manager, addetta
alle pulizie, operaia, lavandaia, babysitter. Dieci professioni in un
corpo solo ma, ufficialmente, un nonlavoro: casalinga. Stipendio
effettivo? Zero euro. Retribuzione teorica ai prezzi di mercato?
Quasi 7mila euro al mese. Circa 83 mila euro l’anno. Non una cifra
a caso, ma il risultato di un preciso algoritmo — calcolato da una
ricerca del sito americano Salary. com che monetizza la rivincita
delle desperate housewives.
Non più
mogli e madri sull’orlo di una crisi di nervi, bensì
insospettabili “tesoretti” di una famiglia media. Gli esperti
hanno intervistato oltre sei mila donne, indagando sul tempo che
dedicano ai dieci fondamentali lavori domestici ogni settimana. Una
casalinga avrebbe cucinato per 14 ore settimanali a 10 euro l’ora.
Si sarebbe trasformata in autista, per figli grandi e piccoli, per 8
ore alla settimana a 10 euro l’ora. Avrebbe impartito ripetizioni
per 13 ore la settimana, alla stessa cifra. Non solo. Per tamponare
le varie crisi familiari si sarebbe trasformata in psicologa almeno 7
ore alla settimana, a 28 euro l’ora, e in manager a 40 euro l’ora.
A quanto
ammonterebbe dunque lo stipendio di una super mamma? Il risultato si
ottiene moltiplicando il numero di ore trascorse, tra una lavatrice e
una corsa per portare i figli in piscina, con le tariffe medie delle
diverse categorie professionali. La somma finale, niente affatto
trascurabile,
è pari a
quella di un quadro di un’azienda o di un manager di buon livello:
6.971 euro al mese. Sfacchinando una media di 94 ore alla settimana,
le “non lavoratrici” multitasking raggiungerebbero così un
reddito annuo di 83 mila euro.
Una cifra
destinata a lievitare in grandi metropoli come Roma, Milano, Parigi o
New York dove uno psicologo o una governante viaggiano su ben altre
tariffe.
Le
casalinghe italiane, secondo i dati Istat, sono 4 milioni 879 mila.
Una donna su sei. In parecchi casi sotto i 35 anni. Per tutte loro,
considerate ingiustamente non produttive dal punto di vista
economico, il sondaggio di Salary. com rivoluziona le
cose e
regala una bella gratificazione. «Se non ci fossero le mamme come
farebbero molte famiglie a conciliare i vari impegni? Chi andrebbe a
prendere i bimbi a scuola visto che gli orari non si conciliano mai
con quelli degli uffici? La realtà è che fanno risparmiare parecchi
soldi allo Stato», ama commentare Tina Leonzi, fondatrice del Moica,
Movimento italiano casalinghe. E dall’America arriva la conferma.
«Sicuramente la posizione dell’Italia è insostenibile »,
aggiunge Alessia Mosca, capogruppo Pd nella Commissione Politiche
Europee, da sempre attiva sulle questioni di genere, «senza contare
il fatto che c’è moltissimo lavoro in Italia che viene fatto da
quelle che vengono definite casalinghe ma in realtà non lo sono
affatto perché aiutano il marito nella piccola azienda di famiglia.
Ci troviamo così di fronte a occupazioni sommerse proprio in un
Paese che ufficialmente ha il più alto tasso di casalinghe».
Come
tutelare dunque il lavoro reale rispetto al non lavoro percepito?
«Sicuramente un’ipotesi pensionistica sarebbe auspicabile, noi
abbiamo più volte avanzato la richiesta che nell’età della
pensione di ogni lavoratrice fosse riconosciuto uno sconto per ogni
figlio avuto, ma anche un reddito minimo per quelle che non hanno un
impiego sarebbe un segno di civiltà ». In attesa che le cose
cambino le donne fanno fronte comune. Oltre al Moica o a
Federcasalinghe, è nato il portale la Casalinga Ideale.it.
«Ottimizzare il tempo e pianificare» è il mantra della fondatrice
Giorgia Giorgi, lo stesso dei responsabili delle aziende di tutto il
mondo. Peccato però che per la casalinga ideale non ci siano
stipendi e neppure bonus. Almeno fino a oggi.
Giovannini:
"Asili, welfare e reddito minimo per battere la paura del
futuro"
Per
l'ex ministro del Lavoro, ex presidente Istat e oggi fra i candidati
alla guida dell'istituto, quando si parla di demografia ragionare in
termini di Pil non basta di
LUISA GRION
ROMA
- Non nasceranno bambini finché non riusciremo emergere della cappa
d'incertezza che avvolge il Paese. Per Enrico Giovannini, ex ministro
del Lavoro, ex presidente Istat e oggi fra i candidati alla guida
dell'istituto, quando si parla di demografia ragionare in termini di
Pil non basta. E anche se i bilanci sono stretti, assicura, lo spazio
per uscirne c'è.
Professore
in Italia la natalità è crollata, tutta colpa della crisi
economica? "In
buona parte, ma non del tutto: la perdita di reddito e di occupazione
sono determinanti nelle scelte demografiche, ma in questi anni sta
scemando anche la spinta alla natalità che arrivava dalle famiglie
immigrate. È un effetto dell'integrazione, i loro comportamenti si
stanno omologando ai nostri. Poi certo mancanza di lavoro, e redditi
bassi hanno fatto il resto".
Finché
non faremo ripartire l'economia la natalità sarà destinata a
calare? "Non
dobbiamo guardare solo al Pil, dietro alla scelta di non procreare
c'è anche un sentimento di paura e d'incertezza per il futuro che la
politica deve combattere. Con misure a sostegno dell'occupazione
giovanile, ma non solo".
Come
allora? "Quand'ero
ministro mi sono battuto per avviare il Sostegno per l'inclusione
attiva e garantire un meccanismo universale di reddito minimo,
condizionato all'impegno degli interessati, che potesse contrastare
la povertà. Sono convinto che questa sia una condizione fondamentale
per far ripartire il Paese e vedo con dispiacere che fra le cose di
cui ora si dibatte questo tema non c'è. Ma la paura di cadere in uno
stato di povertà blocca le persone e impedisce di programmare il
futuro. La spirale va fermata perché lo squilibrio generazionale
implica costi elevati".
Anche
il suo meccanismo ha un costo. "Avevamo
calcolato che con 7 miliardi e mezzo potevamo fare uscire tutto il
paese dalla soglia della povertà, ma basterebbe un miliardo e mezzo
per portare tutta la popolazione coinvolta al 50 per cento di quella
soglia. È una cifra sulla quale si può ragionare, anche perché
abbiamo visto che per la manovra Irpef degli 80 euro in busta paga i
10 miliardi di copertura sono stati trovati".
Perché
investire sul lavoro non basta? "Perché
non sempre il lavoro consente di uscire dalla povertà e la povertà
genera effetti devastanti sul futuro. Oggi in Italia c'è un milione
di bambini poveri, cancellare questa insicurezza di sopravvivenza è
una questione centrale, perché i bambini poveri di oggi saranno gli
esclusi di domani. È così che un paese scivola, la bassa natalità
è solo uno dei tanti effetti. Poi certo servono asili nido e
politiche per l'occupazione: con la Garanzia giovani ci stiamo
muovendo nella giusta direzione, forse servirebbe anche una Garanzia
di inclusione".
Che
costi avrà la denatalità? "Costi
previdenziali visto che le pensioni sono pagate da chi lavora e
maggiori costi sanitari. Ma non solo: il valore di una società si
misura nella sua capacità di passare alle nuove generazioni un
testimone fatto di opportunità adeguate".
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