giovedì 30 aprile 2015

Disoccupazione femminile: 6 storie di donne di Sara Ficocelli

Il primo maggio è la festa dei lavoratori. Ma il lavoro, in tempi di crisi e di precarietà, è diventato ormai sempre più spesso un miraggio che, quando svanisce, colpisce e fa male. Un problema che coinvolge soprattutto le donne, costrette a fare i conti anche con i pregiudizi che ancora esistono riguardo alla maternità. Noi abbiamo voluto dare voce a 6 di voi che ci hanno raccontato le loro storie, tra licenziamenti e ricerca affannosa e (spesso infruttuosa) di una nuova occupazione
Primo maggio, festa del lavoro. Lavoro che da diritto è diventato privilegio. Soprattutto per le donne. Secondo i dati Istat aggiornati a febbraio, il tasso di disoccupazione rimane stabile all'11,7% per gli uomini mentre per le donne sale al 14,1%. Ne abbiamo intervistate cinque per capire con loro cosa significa svegliarsi la mattina senza doversi recare in ufficio, collegarsi a una postazione da pc, insomma senza doversi preparare per “andare a lavoro”. Un impiego che sia retribuito. Perché, non dimentichiamocelo: tutte le donne, tra figli e faccende domestiche, un lavoro da fare ce l’hanno, eccome. Ma non vengono pagate. Ecco le loro storie, nel giorno della festa dei lavoratori.
DANIELA SOLA, 35 ANNI
"Dopo il periodo di maternità, il licenziamento"
"Sono sposata e mamma di un bambino di quattro anni, diplomata in ragioneria e con una laurea breve di tre anni conseguita nel 2004. Nel mio settore non ho trovato nulla, nemmeno valutando ditte molto lontane dalla mia zona. Così ho accettato lavori in nero e poco retribuiti, ma che mi hanno permesso di farmi un po' di esperienza. A fine 2005 il mio primo contratto: apprendista operaio, nonostante svolgessi lavori di segreteria. Ma pur di avere un lavoro retribuito e con i contributi ho accettato. Nel 2007 (anno del mio matrimonio) ho cambiato lavoro, sempre con contratto di apprendistato. Nel 2010 abbiamo deciso di mettere su famiglia e nel 2011 è nato il mio splendido cucciolo. Dopo il periodo di maternità, al rientro al lavoro, ho ricevuto una lettera di licenziamento e mi sono ritrovata disoccupata.
Ho cercato lavoro per diversi mesi, anni tra invii di curricula, ricerche di annunci, passaparola, agenzie interinali, centri per l'impiego. Trovare lavoro è durissimo. Ho avuto qualche raro cenno di interesse ma appena sanno della mia età (non più fruibile per un apprendistato) e capiscono che sono mamma di un bimbo piccolo ('quindi vorrà dargli un fratellino?') mi salutano. Poi con la laurea, anche se mi propongo come operaia, vengo scartata perché potrei avere troppe pretese. Capire che avrei dovuto dedicarmi interamente alla famiglia è stato un duro colpo. Un conto è essere in maternità e avere in testa l'idea di tornare al lavoro. Un altro è avere come meta le mura di casa. Non nego di essere depressa ogni tanto. Occuparsi del bimbo, della famiglia e della casa è facile fisicamente, ma faticoso psicologicamente. L'inghippo è che si vive sempre la stessa routine senza avere un momento per staccare. L'umore non ne ha giovato, anche a causa dell'aspetto economico. Il nostro bilancio ne ha risentito pesantemente e il nostro stile di vita è cambiato. Curiosando tra le vetrine mi fermo spesso a pensare: 'Bello, ma non ne ho bisogno, con quella cifra meglio comprare le scarpe nuove per lui, le altre sono già piccole'. Non parliamo di andare al ristorante, chi l'ha più fatto? Quanto mi manca il mio stipendio! L'aspetto più duro, ora che il bimbo va alla scuola materna, è avere le mattine libere e ritrovarsi a fare continuamente le stesse cose. Le mie amiche che lavorano mi dicono che sono molto fortunata perché ho potuto crescere il bambino e fare i lavori di casa senza dover concentrare tutto nel weekend. È senz'altro vero ma quando chiedo: 'Ma tu, quando vuoi comprarti una borsa nuova, lo fai? O pensi che stipendio ce n'è uno solo e il budget del mese è già quasi finito?'…Mi rispondono con un sorriso...
Sono grata e felice di aver sempre la casa pulita e in ordine, la spesa fatta e la cena pronta, ma la soddisfazione dov'è? Il mio è un lavoro a tutti gli effetti ma non sono retribuita, se sto male non posso mettermi in mutua, non ho giorni di ferie o permessi... voglio una settimana di ferie dalla famiglia!"
MARICA ROSSI, 33 ANNI
“Tutta la mia disponibilità, tutte le ore di straordinario non solo non pagate, ma spesso mai recuperate, erano servite solo ad autorizzare gli altri a pretendere ancora e ancora”
"Ho due figli e una laurea in sociologia. Vivo a Roma da quattro anni con il mio compagno che ha una sua attività indipendente. Al momento sono disoccupata 'per mia scelta', da novembre. La richiesta di questa intervista mi ha entusiasmata e sorpresa proprio perché cade in un momento personale di riflessione sugli ultimi anni della mia vita, una sorta di elaborazione della mia ultima esperienza lavorativa. Pur avendo una laurea in sociologia e avendo attivamente cercato in quest'ambito un'occupazione che però non fosse volontariato (dovendo sostenere quanto meno il costo di una babysitter), quattro anni fa mi sono ritrovata col secondo figlio di pochi mesi ad accettare un lavoro part time di 20 ore settimanali come assistente alla vendita per un marchio di abbigliamento abbastanza noto. Inizialmente ero parecchio soddisfatta, il contratto era a tempo determinato, con tre settimane di ferie, due di permessi e le malattie; certo, pagata la babysitter mi restava davvero poco, ma lo vedevo come un inizio e soprattutto riassaporavo un po' di libertà dalla casa e dai bambini. Avevo già fatto questo tipo di lavoro saltuariamente per arrotondare quando studiavo all'università e anche se non sono assolutamente una 'schiava del fashion' risultavo simpatica alla gente, cercando di essere nei limiti sincera e non invadente. Spesso però questo mi creava difficoltà quando mi scontravo con superiori che avevano un approccio diametralmente opposto e che pretendevano che assillassimo le persone. Attraverso meccanismi e calcoli delle percentuali di vendita, del raggiungimento di obiettivi (spesso impossibili e assolutamente slegati da ogni tipo di contesto economico o climatico) l'ambiente non era piacevole, la competizione per una maglietta venduta in più (che poi in busta paga si sarebbe trasformata in non più di cinque centesimi) era davvero sconfortante. Ciononostante ho resistito anzi ho fatto carriera! Ho aumentato le ore fino a diventare full time e se non altro grazie a questo mio figlio ha finalmente scalato la graduatoria del nido, visto che se non lavori non hai punteggio sufficiente ma neanche i soldi per permetterti un nido privato, e questo meccanismo un po' perverso porta purtroppo molte donne disoccupate a rimanere tali.
Negli ultimi tre anni ho anche cambiato diverse volte sede di lavoro, ma dovunque approdassi ero sempre l'unica ad avere dei figli, la più 'vecchia' e sicuramente una delle poche a saper leggere un minimo la busta paga e ad avere un'idea seppur vaga dei miei diritti per contratto. Perché il gioco è proprio questo, nel fantastico mondo dei contratti macina persone: un ricambio velocissimo del personale (con tutto ciò che comporta anche per quanto riguarda la possibilità di stringere rapporti duraturi con i colleghi) e neoassunti giovanissimi part time, studenti fuori sede, troppo spesso disposti/costretti a farsi sfruttare con lo spauracchio sempre tenuto vivo di una fila interminabile di cloni pronti a prendere il loro posto. Non so dire di preciso quando ho iniziato a stare davvero male con me stessa, giorno dopo giorno, nel recarmi al lavoro, nel prestarmi sempre più a logiche che non solo non mi appartenevano, ma che lucidamente riconoscevo come sbagliate, insostenibili, nemiche. Forse quando ho dovuto ricoverare mio figlio e quindi assentarmi diversi giorni e per la prima volta ho toccato con mano che tutta la mia disponibilità, tutte le ore di straordinario non solo non pagate, ma spesso mai recuperate, erano servite solo ad autorizzare gli altri a pretendere ancora e ancora. Avevo nell'ultimo anno raggiunto un ruolo di responsabilità, è vero, ma troppo spesso questo era inteso come il dover assicurare una disponibilità e una reperibilità che esulava largamente dai miei obblighi contrattuali. Era così per tutti, ma ovviamente essendo l'unica ad avere anche il peso di una famiglia, per me risultava sempre più difficile conciliare 'imprevisti', sostituzioni e rinunce più o meno spontanee alle ferie per 'esigenze aziendali'. Troppe volte mi sono chiesta come una stessa azienda potesse comportarsi in modi così diversi con i propri dipendenti a seconda del loro Paese, perché pagare gli straordinari in Francia o in Germania era possibile, mentre a noi italiani era chiesto sempre un sacrificio in più. La risposta che mi sono data è che ovunque la differenza la fanno le persone. Ovviamente le persone che hanno un minimo di potere nel prendere alcune decisioni. Se chi hai di fronte, nonostante la bella maschera di democraticità, la moda delle riunioni o i gruppi whatsapp aziendali, sotto sotto è convinto che non sia veramente un tuo diritto riposare, godere delle ferie stabilite per legge, avere un tempo di vita privato da potersi organizzare, quello che succede è che ci si ritrova a doverli elemosinare questi diritti. Nel mio caso mi sono trovata a farlo per me, e, cosa ancora più assurda dal punto di vista dei miei superiori, per i miei colleghi. Cercavo di essere equa nei turni, nella distribuzione dei riposi e sì, anche nel venire incontro alle esigenze personali degli altri, perché rimango fermamente convinta che il lavoro serva per vivere e non viceversa. Ho visto persone letteralmente impazzire per il troppo stress e da un giorno o l'altro vederlo diventare un peso di cui liberarsi con ogni mezzo. Quando ho preso la decisione di rassegnare le dimissioni, dopo mesi di nervosismo, ansia, insonnia e continui mal di testa, mi è stato rinfacciato di essere una privilegiata, solo perché per fortuna potevo contare sul mio compagno e questo se anche sul momento non ci ho dato peso, mi ha ferita molto. Mi sono sentita per diverso tempo debole, sconfitta, in qualche modo in colpa per non essere stata abbastanza forte da 'tenermi' il mio lavoro. Anche se la mia parte razionale continuava a ripetermi che non c'erano le condizioni perché io o chiunque altra nella mia situazione potesse lavorare serenamente e organizzarsi una vita normale. Questo che viene sarà di nuovo un primo maggio di festa dopo tanti passati al lavoro e il mio bilancio personale per ora si chiude con la consapevolezza della mia forza. Oggi so che se non sapessi come sfamare i miei figli, come tutti, potrei anche sottostare a condizioni inumane, ma ho capito che se si ha anche solo una minima alternativa è altrettanto nostro dovere dissociarci da tutto ciò che ci allontana da noi stessi".
DANIELA MATTA, 39 ANNI
“Non voglio recriminare più di tanto, attribuisco gran parte dei miei insuccessi a me stessa”
"Provo un po' di imbarazzo quando mi si chiede cosa faccio, specie se non ho il tempo per raccontare di questo lavoro che, a oltre dieci anni dalla laurea in lettere (a Cagliari, nel 2001, ma dal 2002 vivo a Firenze) a spizzichi e bocconi, non mi ha consentito mai né di essere autonoma (dai miei prima, dal mio compagno e padre di mia figlia ora), né di possedere un'identità precisa.
Sì perché una parte della propria identità, vuoi o non vuoi, si definisce con il tuo lavoro. E io appunto un lavoro fisso, che mi depositi un bel tot sul conto in banca, che mi tenga occupata regolarmente e mi regoli le giornate non ce l'ho. Ma io, poi, le voglio regolate queste giornate? O forse ho perso l'abitudine alla regolarità? O forse mi spaventa oggi più che mai il lavoro fisso, quello che ti sfinisce la schiena, la vista, il cervello perché troppo sedentario o pressante, perché a ritmo troppo sostenuto o noioso? Si vede che non sono disperata ora, altrimenti non parlerei così. Eppure lo sono stata, ho passato mesi alla ricerca di uno straccio di lavoro. Persa nel mare magnum degli annunci, della pena dell'invio dei curriculum (no, non mi piace dire 'curricula'), ognuno con la sua letterina, nel tentativo spasmodico di far colpo su gente che magari un lavoro non lo offriva nemmeno, e tu a spiegare cosa sapevi fare e quanto eri disposta a fare anche quello che non sapevi fare, a mostrare duttilità, interesse, capacità di lavorare in team.
In realtà un bel lavoro, quello per cui avevo studiato (lettere moderne con indirizzo storico-artistico, poi master in beni culturali a Siena), l'avevo anche trovato, eppure stupidamente, come tutte quelle che sono passate di lì, sono scappata: contratti a progetto fasulli, una costante per me, rinnovati sempre all'ultimo momento, con la paura, forse irrazionale, di non vedermelo rinnovato proprio; paga da contratto di 750 euro per lavorare dalle 9 alle 18-19, più straordinari; poi diventavano anche 900, ma una volta ne presi 600, perché mi ero assentata, tra vacanze di Natale e influenza. Ecco, questo mi ha sempre fatto rabbia, il dover vivere e lavorare con la paura del domani. Eppure credo che se avessi resistito, oggi sarei ancora lì, a lavorare all'organizzazione, comunicazione, promozione di mostre. Dopo ho trovato solo di peggio, e magari provavo anche per necessità a fare altro, sempre con poco successo e soddisfazione personale. In realtà non voglio recriminare più di tanto, e attribuisco gran parte dei miei insuccessi a me stessa, alle scelte formative fatte senza troppa motivazione, al non troppo impegno (sono severa con me stessa e allo stesso tempo a tratti poco sicura delle mie capacità), al non aver saputo riconoscere attitudini e interessi dall'inizio (le lingue, l'editoria, gli eventi). Troppo poca determinazione anche. Ho fatto tanti altri corsi di formazione dopo, con finanziamenti per disoccupati, ma non sono riuscita comunque ad andare fino in fondo. Ora l'unico che mi dà da lavorare è il mio compagno, l'unico che mi dice 'sei brava, devi venderti bene'. Perché altrimenti sarei solo una casalinga disperata (con Equitalia alle calcagna)".
ANTONELLA LAROTONDA, 34 ANNI
“Sono preoccupata perché inizio a essere triste e disillusa. Io che poco tempo fa credevo di spaccare il mondo…”
Una licenza liceale, una laurea magistrale in scienze della comunicazione conseguita alla Sapienza di Roma nei canonici cinque anni, un costosissimo master in giornalismo. Anni di studi durante i quali pensavo che avrei avuto una meravigliosa carriera. Sono partita con due stage non retribuiti presso noti gruppi editoriali. Esperienze molto belle, ma al termine delle quali mi è stato dato un cordiale benservito. Poi la carriera è passata attraverso l'infernale girone dei co. co. co. Ho trovato lavoro in una piccola televisione locale che aveva bisogno di due braccia in più in vista delle elezioni provinciali. L'azienda mi aveva avvista: un co.co. co. di sei mesi, se sei brava un secondo rinnovo, ma poi stop perché altrimenti ti dobbiamo assumere a tempo indeterminato. E non sia mai!. Sono stata brava e di contratti a termine me ne hanno fatti due. Altro giro, altra corsa. Ritorno a scrivere per pochi euro ad articolo in un quotidiano locale. Lo faccio per diversi mesi e poi la svolta: mi fanno un contratto di sostituzione maternità. È sempre un contratto a termine, ma è un contratto vero. Ci sono le ferie pagate, la tredicesima e tutti gli annessi e connessi. La collega che sto sostituendo si dimette e tutto sembra portare verso la mia assunzione definitiva. Se non fosse che l'editore viene investito da una tempesta giudiziaria, il giornale sospende le pubblicazioni e dopo un periodo di cassa integrazione io e i miei colleghi ci ritroviamo senza lavoro. Ok, questa è sfortuna con la esse maiuscola. Ma non mi preoccupo più di tanto, sono convinta che in tempi brevi troverò un altro lavoro. Così non è stato e adesso sono preoccupata perché sembra che nessuno voglia più assumere una donna di 34 anni, che nel frattempo è diventata mamma, con un curriculum come il mio. Sono preoccupata perché quando mi candido a un'offerta di lavoro che sembra perfetta per me non ricevo mai risposta. Sono preoccupata perché passo i pomeriggi sui motori di ricerca dedicati al lavoro, mando mille curriculum ed è come lanciare palloncini in aria. Sono preoccupata perché ho fatto solo tre colloqui in quasi quattro anni grazie a delle conoscenze e non sono andati a buon fine. Perché? Nel primo caso ero 'troppo qualificata'. Un'associazione di categoria cercava una segretaria di direzione e io, secondo il direttore, con una laurea e un master avrei potuto lasciarli se avessi trovato di meglio. Nel secondo caso l'azienda (un'importante multinazionale) ha deciso di 'non integrare nel proprio organico la figura precedentemente richiesta', che nello specifico sarebbe stato un responsabile della comunicazione esterna. Avevo fatto tre colloqui, all'ultimo dei quali mi avevano parlato di stipendio e orari di lavoro e mi avevano liquidato con un 'la chiameremo per i dettagli in settimana'. Non mi hanno mai richiamata e quando sono riuscita a parlare con qualcuno, questo qualcuno mi ha spiegato che il grande capo aveva deciso che non avevano più bisogno di quel tipo di risorsa, ma che avrebbero tenuto da conto il mio curriculum per eventuali altre posizioni aperte. Nel terzo caso, un posto da copywriter in un'agenzia di comunicazione, ero 'troppo vecchia' dato che il titolare avrebbe voluto farmi sottoscrivere un contratto di apprendistato. Dunque sono preoccupata perché io il lavoro lo cerco e non lo trovo. Sono preoccupata perché sono disoccupata da troppo. Sono preoccupata perché inizio a essere triste e disillusa. Io che poco tempo fa credevo di spaccare il mondo".
ROSITA, 36 ANNI
“Mi trasferisco all'estero, la decisione è stata presa subito dopo la notizia che anche il mio compagno tra un mese avrà la sua lettera di licenziamento. Non aspetteremo e non aspetterò che anche lui cambi e si senta come me!”
"C'era una volta in un fantastico negozio d'arredamento con un titolare dispotico, una povera impiegata che sperava ogni giorno di trovare un altro lavoro... La lettera di licenziamento è arrivata e lei da 25 mesi cerca ancora quel lavoro. L'inizio fiabesco è solo per continuare a sperare, anche perché le favole le racconta già senza tregua chi ci governa. La mia storia è come tante che ho sentito, e ahimè continuo a sentire ogni volta che vado ai colloqui di lavoro e parlo nell'attesa con i miei 'colleghi', oppure chiacchierando con amici che si trovano nella mia situazione: è incredibile, ho solo 36 anni, io che dovrei mangiarmi il mondo, mi trovo masticata e vomitata da una società che fino a 25 mesi fa progrediva anche grazie al mio lavoro, alle mie tasse.
I colloqui, altro capitolo: per qualsiasi lavoro siamo sempre tanti. Una volta per un posto da segretaria eravamo in 18, ho fatto il colloquio dopo oltre un'ora. Poi ancora un colloquio per un famoso negozio di cosmetici a basso costo: mi chiedono perché voglio cambiare settore e mi dicono che sono troppo qualificata. Scusate se ho studiato e fatto esperienze all'estero. Ho trovato anche da lavorare: in call center per 30 giorni e se sei fortunato ti rinnovano il contratto per altri dieci giorni. Non ci paghi nemmeno l'abbonamento ai mezzi pubblici, e devi lavorare per 40 giorni e poi stare a casa altri 50 giorni, se tutto va bene. Se riesci a trovare un altro lavoro con un fisso bene, altrimenti devi accontentarti di lavorare a provvigione, e se a fine mese non arrivi a un minimo di appuntamenti, vendite e altri cavilli simili non avrai neanche quei 300 euro. Non puoi lamentarti con nessuno, i tuoi diritti non ci sono, sono stati abbandonati quando hai accettato di 'lavorare' e recarti ogni mattina in quegli uffici. Ho letto un articolo, dicono che ai disoccupati cambi il carattere: allora è vero, ora che un giornale ne ha parlato sarà vero, perché io mi sento davvero cambiata. Per me il mio lavoro è un po' la mia identità, è quello per cui ho lottato, ho studiato, ho cambiato città, ho messo tutta la mia passione, e ora questa crisi mi porta via la mia identità, forse per questo sono ferita, disgustata e amareggiata. A volte ho paura di aver sbagliato tutto, di trovarmi in questa situazione a causa mia, perché non sono riuscita a crearmi la mia strada, la mia indipendenza, e ora è difficile, faccio fatica a pensare, a trovare uno stimolo per ricominciare. Questa disoccupazione mi ha tolto la fiducia nelle mie potenzialità, perché vedo ogni mio sforzo vano. Non saprò mai la soluzione: getto la spugna, ma tranquilli, non mi suicido, anche se è quello che vogliono, vogliono che noi disoccupati ci estinguiamo, un po' come i dinosauri, siamo obsoleti, ora gli serve carne fresca, nuovi 25enni con tante speranze e poche esperienze. No, mi trasferisco all'estero, la decisione è stata presa subito dopo la notizia che anche il mio compagno tra un mese avrà la sua lettera di licenziamento. Non aspetteremo e non aspetterò che anche lui cambi e si senta come me!"
DONATELLA NICOLODI, 48 ANNI
"Sono disoccupata. E ho quasi cinquant'anni. Cos'è? Una sentenza? Una diagnosi? È tutto ed è niente. È un pozzo in cui si cade o un trampolino che ti lancia in alto, sempre più in alto. Personalmente preferisco credere di essere su un trampolino, di avere quindi davanti a me nuove occasioni tutte da scoprire. È così facile lasciarsi prendere dallo sconforto, ma non lo permetto. In altre occasioni ho sperimentato l'inutilità di piangersi addosso, bisogna solo rimboccarsi le maniche e una volta toccato il fondo si può risalire. Non è facile. Mi piacerebbe sapere quante donne sono nella mia stessa situazione. Quante sono le donne che come me hanno interrotto gli studi per dedicarsi alla famiglia, convinte di fare la cosa giusta, convinte che il matrimonio sarebbe durato per sempre. Ho peccato di ingenuità. A quanto pare nulla è per sempre e anche un matrimonio può finire. Così dopo quindici anni di vita coniugale e due figli mi sono ritrovata a riflettere sul mio futuro di donna divorziata, che deve reinventarsi la vita. Ricordo di essermi concessa una settimana di 'lutto' in cui il pianto riempiva le mie giornate. Poi presa coscienza di trovarmi su una via senza ritorno, ho posto una grande pietra tombale sul mio matrimonio e ho cominciato a pensare lucidamente. Si ricomincia. Era il 2009 e abitavo in Germania. Ho incominciato allora a frequentare i vari uffici di collocamento. Per chi cerca lavoro quei posti rappresentano la speranza di un nuovo futuro, ci si affida completamente all'impiegato, visto come colui che può darti la soluzione a tutti i problemi. Ma ecco le prime delusioni. È stato terribile constatare che in quei posti si è semplicemente uno dei tanti casi, che per loro i tempi burocratici hanno tutt'altro significato e  non capiscono cosa voglia dire trovare al più presto un'occupazione che permetta semplicemente di sopravvivere. Ho dovuto anche sentirmi chiedere che cosa avessi fatto fino ad allora ('Ma signora, cosa ha fatto in tutti questi anni?'). Dovermi giustificare spiegando che in quei 15 anni avevo cresciuto dei figli (spesso da sola per permettere al marito di viaggiare e fare carriera) è stato per me molto umiliante. C'era molta rabbia in me, molta voglia di spostare montagne, ma cozzavo spesso contro pareti di gomma. Poi finalmente l'occasione tanto aspettata, un posto di lavoro che sembrava una vincita al lotto. La rinascita. Meravigliosa la sensazione dell'indipendenza economica! Il mondo mi appariva con nuovi colori. Il tempo scorre e dopo quasi quattro anni la crisi colpisce anche la ditta presso cui lavoravo obbligandola a ridurre il personale. Sono disoccupata. Di nuovo sono qui a reinventarmi, a combattere. Ma non mi demoralizzo, le crisi mi rendono creativa e sono sicura che almeno uno dei miei progetti potrà realizzarsi. Ho quasi cinquant'anni e tanta voglia di vivere".

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