La scrittrice e sociologa marocchina Fatema Mernissi si è spenta il 30 novembre, all’età di 75 anni. Conosciuta in Italia e nel mondo soprattutto per i suoi romanzi, Fatema Mernissi ha lasciato un’impronta importante nel pensiero femminista islamico, di cui è considerata una delle apripista. Tra i suoi libri tradotti in italiano: Le donne del profeta, (ECIG, 1992), La terrazza proibita, (Giunti, 1996), L’harem e l’Occidente, (Giunti, 2000), e Islam e democrazia (Giunti, 2002). Pubblichiamo qui di seguito l’intervista che Nina zu Fürstenberg raccolse per il n° 115 di Reset.
RABAT – «Non mi importa dell’Occidente, dei musulmani in Europa, di Hirsi Ali; non m’importa della laicità né della democrazia “delle bombe”». Questo grido di protesa contro le democrazie occidentali, la loro arroganza e il tradimento dei valori umani non proviene da un fanatico fondamentalista, ma dalla scrittrice e sociologa marocchina Fatima Mernissi: «Sono un’intellettuale e uno spirito libero». Parla, e intanto mi guida per la sua amata e affollata medina, il mercato di Rabat, dove il rosa vivido degli abiti spicca, forte e brillante, quanto la sua popolarità e il suo carattere, e commenta ritrovando il suo abituale entusiasmo mite: «Guarda, questi giovani indaffarati, sono tutti esperti di nuove tecnologie. Il Marocco e il mondo arabo stanno cambiando. Osserva il dinamismo della nuova medina digitale. Ho bisogno del tuo punto di vista, dello sguardo di un estraneo per comprendere meglio la mia realtà».
Ci fermiamo in un angolo dove numerosi libri in vendita sono sparpagliati a terra. «Se vuoi capire cosa sta succedendo in questo paese, dai un’occhiata qui». Riconosco i volumi di Al Qaradawi sul lecito e il proibito nell’islam e un libro di un altro telepredicatore musulmano; e poi raccogliamo dal bancone Fear of Flying, (Paura di volare) di Erica Jong, in originale. Una icona del femminismo occidentale, globale, mentre Mernissi ha rappresentato il femminismo musulmano. Potenza della narrativa: questa autrice globale, tradotta ovunque, ancora riesce a stupirsi quando riceve e-mail da New York, da Parigi o dalla Malesia. Fatima Mernissi è stata per le donne musulmane quel che Erica Jong è stata per le occidentali. I suoi libri, Harem, Islam and Democracy e altri, hanno preparato il terreno emotivo e intellettuale su cui le donne marocchine hanno potuto combattere la battaglia per i diritti. Affinità e distanze: mentre Jong scriveva di liberazione sessuale, invocando la Zipless Fuck, il femminismo di Mernissi portava alla luce i luoghi e i passi in cui il Corano dà alle donne il diritto ai diritti.
Tuttavia, il presente di Fatima Mernissi non è assorbito affatto dai temi politici e giuridici, la scrittrice di quei saggi su islam e democrazia è assorbita oggi dalla sua gente, dal suo impegno sociale nella «Umma» locale: l’artigianato, l’hip hop, la necessità di fermare l’esodo dalle montagne dell’Atlante, l’Arte-terapia contro la depressione e lo stress, il lavoro con le Ong locali e il potere illuminante della rivoluzione delle tecnologie digitali.
Sono questi gli ingredienti della sua ricetta: «Il mio problema oggi è comprendere come combattere il consumismo che trasforma le persone in macchine. Noi tutti dobbiamo ritrovare la dimensione umana, la forza della coesione nella comunità. So che anche in Occidente si cercano risposte alle stesse domande». Per un attimo parla la scrittrice di fama internazionale che ha vissuto in America, poi torna a pensare ai giovani del suo paese: «Io sono di Fes, che è ciò che conosco meglio; vivo a Rabat. E mi voglio occupare di piccoli progetti locali, non sono una Sinbad. La sua Caravane Civique è un progetto itinerante, una libreria su ruote, che gira per le aree più remote del paese per presentare alla popolazione i libri e la bellezza delle storie locali o spiegare la nuova legge di famiglia, per illustrare la bellezza dei mestieri artigiani, la tessitura dei tappeti, e anche l’utilità di creare nuovi mercati digitali».
Fatima è orgogliosa del suo impegno sociale in numerose Ong; sta cercando sostegno per i suoi progetti. Poi ammette, quasi come il ritorno di una vecchia tentazione peccaminosa, che sta scrivendo il suo prossimo libro, riceverà inviti dai giornali e dovrà tenere conferenze in tutto il mondo. Ma il suo impegno qui rimane al primo posto: «Il mio workshop più importante ha avuto come oggetto la realizzazione di una guida turistica del paese interamente a opera di marocchini del sud. Fino ad allora infatti tutte le guide erano state realizzate da stranieri. Finalmente invece la nuova guida mostrerà come ai marocchini piace illustrare il proprio paese. Anche se alcuni dei partecipanti al progetto erano analfabeti, sono stati aiutati dagli altri. Dar loro visibilità è ciò di cui hanno bisogno; questo è il mio contro-terrorismo. Recluto aiutanti, ma guarda tu stessa». Usciamo fuori dalla Medina ed entriamo attraverso una piccola porta in uno spazio ampio pieno di dipinti: «Qui è dove Rashid vende arte e l’artigianato dei giovani artisti. Non so come riesca a mandare avanti questo posto, penso sia la nostra educazione sufi a renderci inclini a donare. C’è così tanta creatività in questo paese; guarda il dinamismo di questa medina digitale».
Ho capito che il Marocco sta crescendo rapidamente. Ovunque nascono grandi centri commerciali e, come la chiama lei, la “religione del mercato” si espande anche qui specie nelle grandi città. Ma l’emigrazione continua verso l’Europa, la Spagna, l’Italia, continua.
Molti lasciano l’Atlante e scendono giù fino Marrakesh. Perdono il contatto con la natura, con il loro bestiame, con l’ arte della tessitura dei tappeti. Ho provato ad aiutare i tessitori a creare la loro galleria digitale, come hanno fatto i tibetani, in modo che potessero sopravvivere, ma non basta. Tradizioni artigianali e creatività hanno bisogno di essere sostenute. È l’unico modo che abbiamo per evitare che le persone lascino questo paese, o il loro ambiente di montagna, per trasferirsi in città più grandi. Sono quelli che potrebbero finire in Italia. Nel 1960 solo il 9% della popolazione viveva nelle città; oggi siamo al 70%. Lo stesso fenomeno in Europa è avvenuto in un tempo compreso tra i 200 e 300 anni. Tuttavia, anche in queste nuove città allargate le persone tornano alle tradizioni e all’artigianato. E imparano a usare internet per la vendita dei manufatti realizzati, grazie anche all’aiuto della banca mondiale. Le Ong sono aumentate enormemente. Il clima è fortemente dinamico. Se lo Stato mettesse le mani su queste iniziative, le ucciderebbe, si innescherebbe un processo di corruzione. Questa attività tiene i giovani fuori dalla portata dei fanatici. I numerosi festival, gli eventi dove i giovani ballano l’hip hop, così come le mostre di arte e artigianato hanno questi stessi effetti positivi.
Abbiamo visto alcune zone di Rabat in cui le baraccopoli sono state sostituite con nuove abitazioni per i più poveri. Ma le donne possono lavorare oggi in queste realtà?
Con la mia Ong ci occupiamo molto di queste aree. Le donne qui hanno più possibilità. Lavorano a casa e vendono il loro cibo o vestiti per le strade. C’è una rinascita dei caffettani, moderni e tradizionali; una moda che ha prodotto un forte aumento della domanda. Le donne non sono più legate alla casa. Inoltre, per i più giovani, l’hip hop sta diventando molto importante. Non vogliono cantare soltanto in arabo ma mescolare le lingue. Inizialmente il fenomeno è stato considerato in modo negativo e alcuni di loro sono stati messi in prigione, ma si è sviluppato un importante movimento giovanile che è riuscito ad allontanare i fondamentalisti.
Creatività in aumento e movimenti artistici di massa sembrano opporsi al fanatismo religioso. Sebbene l’islam sia sempre stato molto importante per te, nei tuoi libri c’è un forte accento su un’interpretazione umanistica del corano e dei diritti delle donne.
Samuel Huntington attaccò la mia considerazione positiva dell’islam perché, dal suo punto di vista, ciò significava che io non credevo nella democrazia. Quando cominciai a studiare il ruolo delle donne nel Corano mi recai dalle autorità religiose per un consulto. Mi indicarono un passo contenuto nel sedicesimo volume, in cui una donna si rifiutava di indossare il velo sostenendo che, se Allah l’aveva creata così bella, allora probabilmente non voleva che si nascondesse. Si mostrarono aperti nei confronti della mia ricerca e mi aiutarono molto. Al contrario, le autorità politiche del tempo vietarono di indossare il velo. E questa non è libertà. L’islam non è una religione, è una visione del mondo a cui siamo legati, non c’è chiesa. L’islam non riguarda il pregare. Io ad esempio non vado in moschea ma festeggio alcune ricorrenze con gli amici. Sono credente, ma considero la definizione di «musulmana» una gabbia.
E il riformismo musulmano, potresti definirti una musulmana riformista? Consideri la laicità una risposta?
Anche il riformismo musulmano è una gabbia. E io rifiuto che mi sia tolta la libertà. Mi dicono spesso che per essere moderna dovrei diventare laica; questo a dire il vero mi fa ridere. La laicità? L’Occidente mi fa venire in mente un dio pagano e sorrido quando gli occidentali parlano di democrazia: prima ci hanno inflitto il colonialismo, adesso ci impongono la democrazia a mano armata, in Iraq. Ma non voglio emettere qui sentenze politiche, voglio parlare il linguaggio della psicologia. Concordo con Soudir Kakar, il famoso psicanalista indiano: il problema dell’Occidente è l’individualismo, di un individuo slegato dalla natura.
Tuttavia, il femminismo, la libertà individuale, il pensiero critico sono aspetti della modernità occidentale che hanno portato benefici non solo in Europa e in America ma anche nel vostro mondo.
Il femminismo non è di dominio occidentale, così come non lo sono la libertà individuale o il pensiero critico. Il primo verso del Corano recita: «Decodifica, non seguire ciecamente, comprendi e impara». Mi piace giocare con il pensiero, in fondo anche l’islam è individualista, ma il suo individualismo è puro, non c’è nessuno tra questo dio invisibile e la persona. Il primo verso del Corano dice: «Eclal», che significa appunto «decodifica tu stesso». Per secoli il mondo musulmano è stato segnato da questo principio e, negli ultimi decenni, questa nozione è stata promossa con un’aperta discussione amplificata dalle 500 tv satellitari e dalla rete. E nessuno può tenere a freno questi sconvolgenti cambiamenti. La propaganda politica è finita, l’interattività è diventata centrale. Non sono più i produttori a decidere, ma il consumatore, è lui che comanda. Ciò rende dinamica questa realtà. Anche al Jazeera deve sforzarsi di non perdere audience e pubblicità. Abbiamo 90 canali soltanto dedicati alla musica; ciò sta incidendo sulla cultura molto più delle discussioni teologiche. I mezzi di comunicazione hanno un ruolo davvero importante in questo processo.
Come mai ti sei allontanata dal femminismo?
In Marocco ci sono femministe giovani e attive che hanno agito e agiscono meglio e più di me. Io ho scritto dei libri, loro si sono impegnate per cambiare la legge. Il Marocco è stato il primo paese ad avere un giudice della sharia donna e un imam di sesso femminile. Nel 1991 ho iniziato a occuparmi dell’impatto della Tv satellitare. Credo che le donne stiano conquistando potere in questo nuovo spazio. Ciò che è importante è che abbiano ruoli chiave in questi show. Le donne nell’islam sono forti e costituiscono un potere strategico, hanno invaso la Tv, la nuova industria, e al contempo detengono il potere all’interno della famiglia.
I tuoi libri e in generale il tuo lavoro sul femminismo e l’islam hanno avuto molto successo in paesi come l’Indonesia o l’Arabia Saudita, in cui i diritti delle donne sono ancora marginali e dove l’adulterio viene punito con la morte per lapidazione.
L’Arabia Saudita è uno strano paese, così come lo sono Afghanistan e Pakistan. Le persone che praticano la lapidazione invece non sono solo strane, direi che sono folli criminali. Non appartiene alla mia cultura, non ne ho mai sentito parlare in Marocco. Certo i folli, come è noto, sono ovunque. Ad esempio, qualche tempo fa in Germania una donna è stata uccisa da un pazzo soltanto perché indossava il velo. Anche quella dei talebani è follia. I musulmani invece sono contrari alla violenza – ora più che mai, anche per reazione. Il ritratto di un islam sanguinario è un prodotto dell’Occidente, non appartiene al paesaggio dell’islam che conosco direttamente. Io stessa non andrei in Arabia Saudita perché lì non sarei libera. Tutto sta nella libertà di scelta – di indossare o non indossare il velo, di pregare nella moschea o celebrare le feste con gli amici. E l’islam lascia questa libertà. Se qualcuno volesse togliercela, scenderei in strada a protestare. Osserva le spiagge di Rabat, sono lo specchio della nostra società: alcune donne nuotano in bikini, altre in jeans o con una gonna lunga. Ma sono felici, gli uomini e le donne giocano sulla sabbia e si godono le vacanze. Ripongo anche delle speranze negli intellettuali occidentali poiché essi non credono di appartenere all’unico, fantastico, infallibile sistema, che tutti gli altri dovrebbero seguire. La tecnologia è stato il miglior dono dell’Occidente, poiché ha messo in moto l’individuo e la sua libertà. E credo che sia proprio questo «boom» a spaventare l’Ovest: l’islam è la bestia nascosta dell’Occidente. Perché infatti fa così tanta paura? Forse perché proietta all’esterno l’inconscio dell’Occidente? Ho scritto per la Tate Gallery un testo proprio dedicato all’inconscio.
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