Non
c’è laboratorio per bambini in cui alle femmine non venga proposto
di costruire una corona. Non la corona d’alloro. No. La corona da
principesse. Non che sia disdicevole. Anzi. Fino a un certo punto è
normale. Ma quello che mi colpisce è che quasi sempre, e dico quasi
sempre, si propone solo la figura della principessa. Almeno fosse una
regina. Invece è proprio la figura della donzella tutta fiocchi e
merletti che vedo in giro. È questo che si intende per differenza di
genere? O forse è un modello arcaico che ripropone vecchi schemi per
allevare una prole accomodante?
Intendiamoci.
Non è che le ragazzine di oggi siano sottomesse. Piuttosto è il
contrario e, spesso, le trovo perfino troppo aggressive. Ma molto
concentrate sull’aspetto. Fin troppo vacue, in certi casi. Complici
le crisi ormonali, le dodicenni che osservo in vari contesti, dalla
scuola alle occasioni di gruppo, mi fanno talvolta un po’ paura
(sì, sono la solita bacchettona). Tuttavia, se penso ai modelli che,
in generale, sono loro proposti capisco che non si possa andare molto
più in là. Le pubblicità sono piene di bimbe ammiccanti con le
unghie laccate e le magliette strette da piccola donna. C’è una
serie italiana di cartoni animati in cui i due unici personaggi
femminili si chiamano Diva e Strega. Diva e Strega. Non c’è
bisogno di essere allievi di Umberto Eco: da un lato, la papera
vanesia con lo specchio sempre pronto e, dall’altro, la brutta
fattucchiera cattiva. Modelli vecchi di cento anni. Ed è una serie
recente, degli anni Duemila. Dico che c’è ancora molta strada da
fare per gli autori italiani. Rimpiango la cara vecchia famiglia dei
Barbapapà che è sempre stata molto avanti per temi affrontati e
tipi “umani”.
Se
anche le immagini, i messaggi pubblicitari e i contesti minimi
parlano di noi, allora – di nuovo – si dimostra che in Italia
manca una vera cultura dell’infanzia, sul modello di quella
anglosassone. Che gli sforzi attuati in questo senso sono ancora poca
cosa, soprattutto perché riguardano una minoranza di persone e di
istituzioni. E che la cultura di massa, almeno in Italia, non ha
ancora elaborato un pensiero critico sul ruolo che i bambini devono
svolgere nella nostra società. Non solo dame e cavalieri ma persone
che possano crescere nel rispetto dei propri gusti e della loro
infinita curiosità.
I
bambini di oggi, si sa, saranno gli adulti di domani. Sarebbe bello
vedere maschi e femmine uniti nella consapevolezza che solo la
collaborazione e il rispetto possano costruire un futuro degno di
essere vissuto. Non è semplice. In certe regioni siamo ancora al
Medioevo e si allevano piccoli adulti destinati a replicare il
destino dei padri e delle madri. Forse lo faccio anche io. Anche se
mi sforzo continuamente di fare il contrario, nella speranza che i
miei figli siano migliori di me.
Per
questo rivendico il diritto alla libertà delle scelte, anche per i
bambini. Il diritto all’esplorazione, all’avventura, ad avere un
mondo “a misura di bambino”, come predicava tanti anni fa Maria
Montessori. Un mondo che permetta di saggiare, a piccoli passi, la
bellezza delle proprie conquiste, la vertigine delle possibilità. In
una parola il diritto a crescere. A essere nel mondo.
Solo
se tutti gli adulti riusciranno a essere consapevoli che siamo tutti
educatori, in quanto adulti e perché tutto rappresenta un esempio
per il bambino, allora potremmo farci carico di una responsabilità
che è collettiva. Sapere che i padri e le madri lasceranno
un’impronta sulle generazioni future che non è solo biologica ma
soprattutto culturale. Sociale. E mai come in questi tempi difficili,
nei quali la regressione dei costumi e dei diritti acquisiti è un
argomento di cui si deve parlare, è diventato importante stare dalla
parte dei bambini, non più e non solo delle bambine, come citava un
vecchio saggio degli anni Settanta, il quale nel frattempo, magari,
si potrebbe anche rileggere (si vedano Elena Gianini Belotti, Dalla
parte delle bambine, 1973 e il recente Ancora dalla parte delle
bambine di Loredana Lipperini, 2007).
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