Il
giornalismo italiano sembra completamente sordo ai progressi della
società in fatto di questione di genere e, infatti, continua a
utilizzare un linguaggio, delle immagini e un immaginario retrogrado,
violento e discriminante.
E’
tempo di pretendere un cambiamento.
E’
tempo di pretendere che il giornalismo italiano si metta al passo coi
cambiamenti della società, della realtà, che rappresenti il meglio
di questa e superi i retaggi della cultura patriarcale, maschilista e
omo-transfobica.
E’
tempo di pretendere un Giornalismo Differente, perché del valore di
informare rimanga anche quello di innovare.
La
realtà dipende dalle sue rappresentazioni.
Di
pari passo vanno le modifiche di una e delle altre, a specchio.
Ma
se la realtà inizia a usare vocaboli, idee, immaginari che non
trovano mai una rappresentazione massiccia, lo scollamento è
inevitabile.
Solo
da poco il giornalismo ha introdotto il termine femminicidio nel
proprio vocabolario.
Un
passaggio fondamentale per ripristinare una rappresentazione che
rispondesse alla realtà: donne uccise in quanto donne.
Eppure
a questo non è seguito un miglioramento complessivo del linguaggio o
dell’approccio giornalistico al genere, soprattutto per quello che
riguarda i giornalisti di cronaca –cronaca nera in particolare.
E’
tempo di suggerire quindi al giornalismo italiano, tutto, alcune
semplici regole di linguaggio e approccio, che nel 2014 sarebbe
proprio il caso di applicare.
Oggi
è il 25 novembre, Giornata internazionale della lotta alla violenza
sulle donne.
Abbiamo
deciso di lanciare oggi questa campagna perché crediamo che il
linguaggio mediatico comunichi la cultura che ci rispecchia,
consolidando la nostra visione del mondo e che, per questo, il
giornalismo italiano debba cambiare, migliorare, evolvere.
Diffondiamo
per questo un manifesto che speriamo incontri la vostra condivisione
e un video per aiutare a rilevare alcune delle nostre principali
rivendicazioni.
Chiediamo
un Giornalismo Differente, lo facciamo lanciando un hashtag
#giornalismodifferente e delle prime rivendicazioni:
1.Un
femminicidio non è colpa della disoccupazione / della depressione /
della passione.
La
violenza sulle donne è sempre esistita, con o senza crisi economica.
Un
uomo non picchia, umilia o uccide una donna perchè è rimasto
disoccupato. Lo fa perchè la sua cultura lo autorizza a sentirsi
superiore alle donne, a sentirsi padrone delle loro vite, a dominarle
psicologicamente e fisicamente. Anche le donne rimangono disoccupate
ed entrano in depressione, anche le donne, anzi soprattutto le donne,
soffrono la crisi dentro e fuori casa, ma per un uomo queste
diventano possibile “giustificazioni” ad un femminicidio,
autorizzato invece dalla sua cultura patriarcale.
Quella
stessa cultura che insegna alle donne a subire passivamente in nome
dell’accoglienza e la mitezza per cui è programmata.
2.
Non è il raptus che uccide!
Allo
stesso modo, il raptus è un alibi che il giornalismo fornisce a chi
uccide la propria compagna, moglie, fidanzata, amica.
La
violenza sulle donne è un fenomeno strutturale. Ha radici profonde e
non può essere ricondotta a un momento di violenza improvviso.
Piuttosto, si tratta di anni di piccole avvisaglie, di atteggiamenti
psicologicamente o fisicamente violenti, di affermazione di cultura
maschilista, o spesso di stalking e intimidazioni che sfociano in
maniera assolutamente premeditata nell’uccisione della donna che si
è sottratta al possesso patriarcale.
3.
No alle pornovittime!
Una
donna rimane un oggetto sessuale anche da morta. Così non mancano
gli esempi di vittime di femminicidio o di violenza sessuale, anche
giovanissime –ritratte spesso dai giornali anche in bikini–,
sottolineandone l’avvenenza.
Come
se da quella dipendesse la sorte di una violenza, di un’aggressione.
Se
poi la donna uccisa è una donna famosa anche per la sua avvenenza,
non le si risparmiano gallery su gallery della sua immagine
ammiccante, anche da morta. Pensiamo ad esempio allo sciacallaggio
mediatico su Reeva Steenkamp, la donna uccisa dal campione
paraolimpico Pistorius.
Anche
le foto di repertorio scelte dai giornali per parlare di violenza
sessuale e femminicidio rimandano spesso a un immaginario
sessualizzato: minigonne cortissime, calze autoreggenti, magliette
scollate. E poi pose rannicchiate nel buio, mani sulla faccia. Come
se la vergogna fosse la loro e non quella di chi le ha aggredite.
Porno
+ vittimizzazione, un pessimo risultato.
4.
Cosa indossa una vittima di violenza? Chissenefrega!
Più
chiare di così non si poteva essere. Ancora oggi spesso i
giornalisti specificano oltre all’aspetto fisico anche
l’abbigliamento di una vittima di violenza di genere. Perchè? A
cosa serve dirci che indossava una minigonna? O che era bella? A
nulla.
Perchè
la violenza è trasversale e non colpisce solo donne avvenenti o
vestite in modo succinto.
Anzi,
perlopiù avviene dentro le mura domestiche, in famiglia, dove
davvero nulla importa come si è vestite.
Se
la vittima di una violenza sessuale di qualsiasi tipo è una donna
avvenente si susseguono nell’articolo le sue immagini, persino in
bikini, per attirare lettori, altrimenti si allude al suo aspetto e
al suo abbigliamento, se si tratta di una sex worker, anche al suo
lavoro ovviamente, nel quadro di un generale slut shaming, ovvero di
una colpevolizzazione costante delle donne.
5.
Il capofamiglia non esiste più!
Il
capofamiglia. Una parola usata molto spesso dal giornalismo italiano,
ma che ci riporta indietro a quando l’Italia rispettava ancora la
norma contenuta nell’art. 144 del Codice civile, che prevedeva il
ruolo di capofamiglia e lo attribuiva al marito, abrogata poi dalla
legge 19 maggio 1975, n. 151 con la Riforma del diritto di Famiglia.
Il
capofamiglia non esiste più da 40 anni, ma il giornalismo italiano
continua a usare questa espressione.
Come
continua a usare la giustificazione dell’onore e della gelosia
maschile per parlare di violenza, riportandoci a un’altra pietra
miliare del nostro diritto, il delitto d’onore, abrogato solo nel
1981.
Questi
retaggi maschilisti, seppur eliminati dal diritto ufficiale,
persistono nel linguaggio giornalistico, tradendo la sostanziale
adesione a un modello culturale da cui sarebbe anche tempo di
affrancarsi.
6.
unA transessuale, al femminile
Alla
condizione femminile, non può non essere associato il trattamento
linguistico-mediatico riservato anche a persone LGBTQI, soprattutto
per quel che riguarda LE transessuali, relegate tanto alla macchietta
che a cui i media le condannano da non meritare nemmeno l’articolo
femminile.
Una
piccolezza, risponderà il/la giornalista dalla sua scrivania.
Invece
no. Perché il genere maschile e femminile non sono solo acquisizioni
basate sul sesso biologico, ma anche faticose conquiste identitarie.
E ciò va rispettato.
Il
transessualismo indica l’esperienza vissuta da tutte quelle persone
che non sentono di appartenere al sesso biologico acquisito con la
nascita e che, quindi, intraprendono un percorso di adattamento del
proprio fisico alla percezione psicologica ed emozionale che hanno di
sé. Dunque se quella persona ha scelto di appartenere al sesso e al
genere femminile,i media dovrebbero evitare di rimetterle addosso
un’etichetta maschile ( e viceversa ), allo stesso modo in cui la
società, tutta, dovrebbe acquisire la capacità di relazionarsi alle
persone in base alle scelte che compiono e non ai ruoli precostituiti
che si vogliono imporre loro.
7.
Vogliamo parlare di donne vive ( e fuori dai ghetti rosa )?
Più
in generale, il giornalismo tende a narrare e rappresentare le donne
solo come vittime di violenza. Affollano le pagine dei quotidiani e
le schermate dei pc tutte le donne stuprate, uccise, aggredite,
sfgurate. Di donne forti, uscite dalle difficoltà, capaci di reagire
o che propongono un immaginario differente da quello descritto finora
non c’è quasi traccia.
COME
ADERIRE A #GIORNALISMODIFFERENTE
Per
aderire alla campagna inviateci la vostra adesione, singola o
collettiva a narrazionidifferenti@gmail.com
Questo
manifesto per il Giornalismo Differente, con tutte le sue adesioni,
sarà inviato all’attenzione delle principali testate nazionali.
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