Qualche
giorno fa la dottoressa Piera Serra della “Psychology and
Psychotherapy Research Society” ha inviato una lettera alla Rai
dove punto per punto chiarisce cosa non si dovrebbe fare per
rispettare un’informazione corretta su femmicidio-femminicidio in
Italia prendendo come esempio “negativo” il programma ad hoc
“Amore criminale”, ed esponendo il suo studio in PRIMI ESITI DI
UNO STUDIO RELATIVO AD ALCUNI POSSIBILI EFFETTI SUL PUBBLICO DI AMORE
CRIMINALE, RAI 3 (da “State of Mind”) che in realtà può essere
esteso alla maggior parte dell’informazione italiana su questo
argomento. La dottoressa Serra, come premessa, scrive che “Amore
Criminale” è una “trasmissione rivolta a prevenire le violenze
sulle donne attraverso la documentazione della sofferenza delle
vittime e delle loro famiglie, nonché attraverso la condanna morale
del comportamento degli aggressori e la cronaca delle condanne
inflitte”, e che malgrado ciò “potrebbe contenere elementi atti
non solo a neutralizzare l’effetto benefico desiderato, ma
addirittura, qualora lo spettatore sia un uomo che desidera uccidere
la partner o l’ex-partner, esitare in effetti in qualche modo
controproducenti”. Una premessa, quella della lettera, che già a
priori spiega come non solo non sia sufficiente affrontare la
violenza sulle donne con “buone intenzioni” ma che senza
strumenti idonei ad affrontare un’informazione corretta sul
problema, si rischi l’effetto contrario: un danno che può essere
sintetizzato come rivittimizzazione mediatica . Lo studio di Serra
presenta, passo passo, tutti i punti messi sotto la lente della
rivittimizzazione mediatica in “Amore criminale”, e prima di
tutto sulle violenze mette in evidenza:
- la
pretesa che esse furono dettate dalla passione amorosa;
- la
loro spiegazione come esito di un momento di discontrollo o follia;
L’interpretazione
di tali discontrollo o follia come innescati da qualche comportamento
della vittima. Nei filmati troviamo ripetutamente condannata la
violenza ed espressa solidarietà alle vittime. Tuttavia, intercalati
a questi contenuti e senza soluzione di continuità con essi,
troviamo purtroppo anche parole e immagini che veicolano l’adesione
a stereotipi culturali atti a validare le tre autogiustificazioni di
cui sopra.
Inoltre
si sottolinea “l’attribuzione all’autore di femmicidio di
sentimenti di amore per la donna che uccide”, che “anche se il
concetto che quando c’è violenza non c’è amore è spesso
ribadito, amore e violenza sono associati nel titolo (“Amore
Criminale”) e in diverse affermazioni della conduttrice” (che è
un’attrice e non una giornalista o un’esperta), nella sigla
(“Each man kills the thing he loves” – “Ogni uomo uccide la
cosa che ama” di Jeanne Moreau), nell’immagine della trasmissione
(un cuore rosso che si trasforma in un revolver e in un coltello), e
che “le motivazioni degli aggressori vengono definite come volontà
di possesso” anche se “viene regolarmente attribuita loro anche
la gelosia”: malgrado si tratti di una volontà di controllo
dell’uomo sulla donna che arriva fino ad azioni femminicida. Infine
la presenza in “Amore criminale” della “facile definizione
delle violenze come esito di discontrollo o follia”, quando “gli
stati mentali di infermità o seminfermità mentale possono essere
qualificati tali solo dopo complesse procedure psicodiagnostiche”.
Serra
rintraccia inoltre il luogo comune della pericolosa
“co-partecipazione delle vittime alla violenza”, la “definizione
delle violenze dell’aggressore come un’interazione di coppia”,
la “minimizzazione delle violenze, corollario dalla loro
definizione come parte di un’interazione di coppia”, “l’idea
che la spiegazione dei fatti sia da ricercarsi parimenti nella
personalità della vittima e in quella dell’aggressore”, “la
tesi che le vittime non si rendano conto della pericolosità
dell’aggressore ed è per questo che non denunciano o non si
allontanano”, “la tesi che le vittime restano con l’aggressore
perché psicologicamente dipendenti” e che “che per evitare le
violenze sia sufficiente coraggio e forza di volontà”. Ma quello
che preoccupa la dottoressa è soprattutto l’autorevolezza morale
della fonte delle informazioni in quanto “Amori Criminali” si
presenta come “un’inchiesta giornalistica, genere da cui lo
spettatore è abituato ad aspettarsi la rivelazione di fatti veri
nonché un impegno sociale da parte degli autori”, e che sia
trasmessa dalla Rai e in più anche in prima serata –
preoccupazione che possiamo allargare anche a giornali e telegiornali
nazionali e altri programmi televisivi che arrivano a milioni di
fruitor*. Serra mette anche sul piatto la morbosità della
trasmissione che, malgrado l’indignazione morale ricorrente nel
programma, si concentra “pedissequamente su particolari che non
hanno alcunché di rilevante” – ovvero particolari che non sono
fondamentali alla notizia – “l’omessa citazione dei
documenti”, e “le scene di sangue, che si ripetono richiamate
anche dal rosso nell’immagine in sovraimpressione”.
La
dottoressa Serra, forse senza saperlo, analizzando “Amore
criminale” stende quindi quelle che possono in teoria essere
considerate le linee guida per una corretta informazione sulla
violenza maschile contro le donne che molti reclamano – e che anche
la Convenzione di Istanbul chiede – ma su cui molt* ancora
improvvisano con decaloghi troppo spesso improvvisati e senza una
solida base di sapere, in quanto sempre redatti – anche questi –
sulla base dell’illusione che basti avere buone intenzioni o essere
sensibili per affrontare la violenza sulle donne che, a oggi e in
Italia, non ha ancora un sapere autorevole riconosciuto. Linee guida
che non possono essere risolte neanche con obsoleti comitati di
controllo volti a moralizzare la comunicazione mediatica –
probabilmente inefficaci e controproducenti sui giornalisti – e che
se devono essere redatti dovrebbero tenere conto di contributi
specifici come questi. Che i punti declinati da questo studio siano
adatti anche per tutta l’informazione italiana su tv, stampa e web
– che per la maggior parte ancora ricalca gli stessi “errori”
della trasmissione Rai producendo gli stessi danni – è dimostrato
dal fatto che si riferiscono ai maggiori stereotipi comuni basati su
una cultura a cui gli stessi operatori e operatrici dell’informazione
non sono immuni: una situazione che ancora una volta pone in evidenza
la necessità di un cambiamento profondo che ponga i diritti delle
donne – compreso il diritto a una vita libera dalla violenza
maschile – come un argomento di seria A su cui non sia più
possibile improvvisare con personale impreparato e con un approccio
moralistico privo di reale efficacia.
Ma
per un vero cambiamento di questa cultura che funzioni come
prevenzione stessa alla violenza, non basta né lo studio della
dottoressa Serra, né il decalogo di quello che si deve o non si deve
fare, in quanto occorre un approccio integrato su più fronti –
come indicato dalla Convenzione di Istanbul che oltre alle linee
guida chiede anche politiche specifiche – che abbia come base un
dialogo costruttivo, continuo e partecipativo della società civile
delle donne con le istituzioni. In questa costruzione di una cultura
“differente” non basta quindi concentrarsi su cosa si deve o non
si deve fare, perché occorre una proposta positiva che si concentri,
per quanto riguarda la cultura degli stereotipi, su due focus
propulsori: l’informazione e l’istruzione. E per capire meglio
come fare, propongo di seguito una parte dell’intervento fatto
all’Ambasciata americana del 1 dicembre 2014 in un tavolo
organizzato dalla giornalista Linda Douglass (moglie
dell’ambasciatore americano John R. Phillips) e presieduta dalla
presidente della camera, Laura Boldrini, con la presenza di Ong
italiane, centri antiviolenza, istituzioni ed espert*, insieme alla
consigliera di Pari opportunità del presidente del consiglio,
Giovanna Martelli, a pochi giorni dalla pubblicazione del Piano
antiviolenza online su cui sarà possibile mandare obiezioni e
suggerimenti dal 10 dicembre 2014 al 10 gennaio 2015, arco di tempo
in cui si aprirà la consultazione pubblica per la definitiva
approvazione del testo che avverrà a gennaio.
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