La
storia delle prima nave privata che salva i migranti nel Canale di
Sicilia
Nell’ottobre
2013 Regina e Christofer Catrambone si trovano in vacanza al largo
dell’isola dei Conigli, una delle spiagge più belle di Lampedusa.
Mentre sono in barca, lei vede un giubbotto galleggiare in mare.
«Cos’è?», chiede. «È di qualcuno che non ce l’ha fatta»,
risponde il capitano. In quegli stessi giorni, dopo il naufragio del
3 ottobre 2013 in cui persero la vita 366 migranti, anche Papa
Francesco è sull’isola. Guardando dritto in camera chiede a «tutti
quelli che hanno la possibilità di aiutare i migranti». «È stato
come uno schiaffo», racconta Regina. È in quel momento che i due
imprenditori - lei calabrese, lui americano, da sette anni a Malta –
decidono usare i propri soldi per finanziare il salvataggio dei
migranti, mettendo in mare Phoenix, la prima imbarcazione privata
destinata alle operazioni di soccorso nel Canale di Sicilia.
Sapevano
come muoversi, visto che la società che gestiscono è specializzata
in assicurazioni e servizi di assistenza nelle zone di conflitto.
Individuano una nave di 40 metri in Virginia, negli Stati Uniti.
Attraversano l’Oceano per portarla a Malta e la rimettono a nuovo
per dotarla di una piattaforma di salvataggio. Creano una ong, Moas,
acronimo di Migrant Offshore Aid Station, una sorta di pronto
soccorso galleggiante. E formano un equipaggio di 20 persone, tra
ufficiali di marina, medici e paramedici, con l’aggiunta di due
droni dotati di eco e termo scandaglio notturno per individuare le
barche in difficoltà (la nave si muove a dieci nodi all’ora, il
drone a 60, arriva nel posto in anticipo, scatta una foto e la invia
al centro di comando).
In
60 giorni soccorrono 3mila persone, facendo da sostegno alle navi
dell’operazione Mare Nostrum a ridosso delle coste libiche. Due
mesi e 8 milioni di dollari dopo, Phoenix rientra in porto alla fine
di ottobre 2014. «Da soli non ce la facciamo», dice Regina
Catrambone dal suo ufficio di Malta, «Non poter essere in mare
adesso per noi è una pugnalata. Ma abbiamo creato un modello che può
essere replicato. Una sola famiglia però non può farsi carico di un
fenomeno del genere. Per questo stiamo raccogliendo donazioni per
tornare in mare tra maggio e ottobre 2015».
Nel
corso dell’ultima operazione di fine ottobre, Phoenix porta a terra
331 migranti. Negli stessi giorni, il governo Renzi annunciava la
fine dell’operazione «militare e umanitaria» Mare Nostrum e
l’avvio dell’operazione europea di controllo delle frontiere
Frontex Triton. Costo di Mare Nostrum: 9,3 milioni di euro al mese a
carico dell’Italia. Costo di Triton: 3 milioni mensili, finanziati
dai fondi europei. Da allora sulle coste italiane sono sbarcati quasi
20mila migranti. E i morti, dopo l’ultimo naufragio del 9 febbraio,
sono quasi 400 solo nei primi giorni del 2015.
«Tutti
noi che eravamo in mare sapevamo che la missione Triton non sarebbe
stata una missione di ricerca e soccorso ma solo una missione per il
controllo delle frontiere», dice Regina Catrambone, che ha
partecipato alle tre spedizioni di Phoenix. «Con Mare Nostrum si
poteva arrivare a 30 miglia dalle coste libiche, con Triton si resta
a 30 miglia dalle coste italiane. Tutti sapevamo che ci sarebbero
state altre tragedie».
“Tutti
noi che eravamo in mare sapevamo che con Triton ci sarebbero state
tragedie come quella del 9 febbraio”
Probabilmente
non ci si aspettavano numeri così alti. Nel periodo invernale, come
ha fatto notare anche l’agenzia Frontex, di solito gli sbarchi si
riducono. I picchi si registrano tra la primavera e l’estate, con
le temperature più alte e il mare piatto. Non quest’anno. Con la
Libia diventata un grande porto di scambio in mano a gruppi di
estremisti, gli scafisti non si sono fatti fermare dal mare in
tempesta. Solo nel mese di gennaio 2015, 3.528 persone sono arrivate
sulle coste italiane, con un aumento del 60% rispetto allo scorso
anno. Numeri che salgono a 3.815 se aggiornati al 9 febbraio, di cui
241 minori non accompagnati. E su 32 imbarcazioni soccorse,
venticinque sono salpate da Tripoli.
Le
prime tre nazioni di provenienza dei profughi arrivati dall’inizio
del 2015, Siria, Gambia e Senegal, sono lo specchio delle guerre che
si stanno consumando oltre le spiagge italiane. A seguire ci sono
Mali, Somalia, Eritrea, Costa D’Avorio, Guinea, Nigeria, ma anche
Pakistan, Sudan, Palestina, Iraq, Etiopia e Afghanistan. Le
situazioni di conflitto e persecuzione di questi Paesi hanno spinto
1.300 persone in più rispetto a gennaio dello scorso anno a sfidare
il mare forza otto e onde alte come palazzi.
«Sarei
scappata anch’io da lì», dice Regina Catrambone. «Hanno detto
che era Mare Nostrum a incentivare gli sbarchi. Ma è evidente che la
presenza o meno di navi vicine alle coste libiche non c’entra. Qui
il push factor è più forte del pull factor». Per giunta, «noi ora
siamo a conoscenza delle ultime morti perché alcuni si sono salvati.
Ma di quanti non sappiamo nulla? Non possiamo continuare a fare gli
struzzi e a mettere la testa sotto la sabbia. Le operazioni di
soccorso in mare sono tanto importanti, così come è importante
cercare di risolvere il problema a terra. E tutti devono sentirsi
chiamati in causa».
Durante
le tre spedizioni, Moas ha soccorso 3mila migranti. Una parte è
stata accolta sulla sua nave Phoenix, fornendo loro cura e assistenza
fino a terra. In altri casi i migranti sono stati trasferiti sulle
navi di Mare Nostrum. «Il Canale di Sicilia è un vasto tratto di
mare dove circolano molte navi», spiega Regina. «Oltre le 40
tonnellate le navi sono obbligate a tenere acceso il dispositivo GPS
IIF per il controllo del traffico marittimo. Se c’è un’allerta,
le navi presenti sono obbligate a dare soccorso, come è accaduto
moltissime volte. Ma sono le shipping company che dovrebbero
prendersi cura dei migranti». Si tratta di navi non equipaggiate al
soccorso senza cibo, acqua e vestiti extra. Né hanno medici a bordo
per ospitare persone stremate da ore di viaggio in mare. Molte,
allora, mentre le navi italiane sono arretrate a 30 miglia dalle
coste nazionali, finiscono per non accenderlo più il GPS per non
rischiare di trovarsi ogni giorno a cambiare rotta per soccorrere i
gommoni dei migranti.
Sui
barconi c’è la prima e la terza classe. Gli africani stanno sotto,
nella stiva, perché pagano di meno. In alto ci sono siriani e
palestinesi
«Quando
ti avvicini alle imbarcazioni dei migranti, hai davanti persone
traumatizzate», racconta virginia Catrambone. «Devi avere vestiti e
coperte. Spesso queste persone affrontano viaggi con le gambe immerse
nel gasolio delle navi. E senza potersi sciacquare per diverse ore,
fermi nella stessa posizione per 18-20 ore senza poter allungare
neanche un braccio, la pelle si brucia. Molti sono intossicati dai
fumi, tanti non si lavano per giorni e prendono la scabbia».
Nelle
sue tre spedizioni Regina racconta di aver incrociato siriani,
palestinesi, eritrei, somali, nigeriani. L’elenco che fa è un
rosario di guerre che si consumano da anni e che spingono migliaia di
persone a mettersi in viaggio verso le coste libiche, e poi dalla
Libia verso l’Europa, di cui l’Italia spesso è solo la porta. In
alcuni casi si parte direttamente dalla Turchia, ma quello è un
viaggio destinato ai più ricchi. Perché anche nella fuga più
disperata c’è una divisione in classi. «Nelle navi degli
scafisti», racconta Regina Catrambone, «c’è la prima e la terza
classe. La terza classe è quella che sta in basso, nella stiva, dove
vengono stipati eritrei, somali, e in genere africani sub-sahariani,
che sono quelli che pagano di meno il viaggio. In alto, sopra di
loro, ci sono quelli della prima classe, in genere siriani e
palestinesi, che possono spendere di più». Sono queste le regole
degli scafisti del Canale di Sicilia. E anche i salvataggi devono
adeguarsi. «Nel nostro primo salvataggio, quasi 300 persone di cui
50 bambini», ricorda Regina, «c’erano persone nella stiva con
l’acqua fino alla cintola. Ma se non si toglievano quelli di sopra
non potevamo salvare quelli che erano sotto e stavano per morire. È
stato crudele».
Immagini
del genere si ripetono ogni giorno. Il 13 febbraio altri 700 migranti
sono stati recuperati a una manciata di chilometri dalla Libia. «Ci
sono decine e decine di barche come queste pronte a partire», dicono
i soccorritori, «in centinaia sono già nei pressi delle spiagge e
ai trafficanti delle condizioni del mare non importa nulla».
“Chiedo
agli imprenditori italiani di donare ancora sul nostro sito
www.moas.eu. Nessuno deve morire in mare. Siamo già in ritardo”
«Servono
operazioni in mare», ripete Regina Catrambone, «se uno è in mare
va salvato e basta. Il resto, dove sistemare queste persone, viene
dopo. Nessuno deve morire in mare. Siamo già in ritardo, abbiamo
tutti sulla coscienza questi morti, tutti, nessuno escluso». E
lancia un appello: «Con la nostra esperienza noi abbiamo provato che
qualcosa si può fare. Ci sono molte navi ormeggiate nei porti
italiani che non avrebbero neanche bisogno di essere ristrutturate.
Finora abbiamo raccolto 65mila euro. Chiedo a tutti gli imprenditori
italiani che possano donare di più tramite il nostro sito
www.moas.eu. Il Moas dovrebbe avere 7-8 navi. Perché non è finita
qui: con la primavera gli sbarchi aumenteranno ancora».
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