lunedì 2 marzo 2015

La donna che salva i migranti nel canale di Sicilia La storia di Regina Catrambone, proprietaria della prima nave privata per il soccorso dei naufraghi di Lidia Baratta

La storia delle prima nave privata che salva i migranti nel Canale di Sicilia
Nell’ottobre 2013 Regina e Christofer Catrambone si trovano in vacanza al largo dell’isola dei Conigli, una delle spiagge più belle di Lampedusa. Mentre sono in barca, lei vede un giubbotto galleggiare in mare. «Cos’è?», chiede. «È di qualcuno che non ce l’ha fatta», risponde il capitano. In quegli stessi giorni, dopo il naufragio del 3 ottobre 2013 in cui persero la vita 366 migranti, anche Papa Francesco è sull’isola. Guardando dritto in camera chiede a «tutti quelli che hanno la possibilità di aiutare i migranti». «È stato come uno schiaffo», racconta Regina. È in quel momento che i due imprenditori - lei calabrese, lui americano, da sette anni a Malta – decidono usare i propri soldi per finanziare il salvataggio dei migranti, mettendo in mare Phoenix, la prima imbarcazione privata destinata alle operazioni di soccorso nel Canale di Sicilia.
Sapevano come muoversi, visto che la società che gestiscono è specializzata in assicurazioni e servizi di assistenza nelle zone di conflitto. Individuano una nave di 40 metri in Virginia, negli Stati Uniti. Attraversano l’Oceano per portarla a Malta e la rimettono a nuovo per dotarla di una piattaforma di salvataggio. Creano una ong, Moas, acronimo di Migrant Offshore Aid Station, una sorta di pronto soccorso galleggiante. E formano un equipaggio di 20 persone, tra ufficiali di marina, medici e paramedici, con l’aggiunta di due droni dotati di eco e termo scandaglio notturno per individuare le barche in difficoltà (la nave si muove a dieci nodi all’ora, il drone a 60, arriva nel posto in anticipo, scatta una foto e la invia al centro di comando).
In 60 giorni soccorrono 3mila persone, facendo da sostegno alle navi dell’operazione Mare Nostrum a ridosso delle coste libiche. Due mesi e 8 milioni di dollari dopo, Phoenix rientra in porto alla fine di ottobre 2014. «Da soli non ce la facciamo», dice Regina Catrambone dal suo ufficio di Malta, «Non poter essere in mare adesso per noi è una pugnalata. Ma abbiamo creato un modello che può essere replicato. Una sola famiglia però non può farsi carico di un fenomeno del genere. Per questo stiamo raccogliendo donazioni per tornare in mare tra maggio e ottobre 2015».
Nel corso dell’ultima operazione di fine ottobre, Phoenix porta a terra 331 migranti. Negli stessi giorni, il governo Renzi annunciava la fine dell’operazione «militare e umanitaria» Mare Nostrum e l’avvio dell’operazione europea di controllo delle frontiere Frontex Triton. Costo di Mare Nostrum: 9,3 milioni di euro al mese a carico dell’Italia. Costo di Triton: 3 milioni mensili, finanziati dai fondi europei. Da allora sulle coste italiane sono sbarcati quasi 20mila migranti. E i morti, dopo l’ultimo naufragio del 9 febbraio, sono quasi 400 solo nei primi giorni del 2015.
«Tutti noi che eravamo in mare sapevamo che la missione Triton non sarebbe stata una missione di ricerca e soccorso ma solo una missione per il controllo delle frontiere», dice Regina Catrambone, che ha partecipato alle tre spedizioni di Phoenix. «Con Mare Nostrum si poteva arrivare a 30 miglia dalle coste libiche, con Triton si resta a 30 miglia dalle coste italiane. Tutti sapevamo che ci sarebbero state altre tragedie».
“Tutti noi che eravamo in mare sapevamo che con Triton ci sarebbero state tragedie come quella del 9 febbraio”
Probabilmente non ci si aspettavano numeri così alti. Nel periodo invernale, come ha fatto notare anche l’agenzia Frontex, di solito gli sbarchi si riducono. I picchi si registrano tra la primavera e l’estate, con le temperature più alte e il mare piatto. Non quest’anno. Con la Libia diventata un grande porto di scambio in mano a gruppi di estremisti, gli scafisti non si sono fatti fermare dal mare in tempesta. Solo nel mese di gennaio 2015, 3.528 persone sono arrivate sulle coste italiane, con un aumento del 60% rispetto allo scorso anno. Numeri che salgono a 3.815 se aggiornati al 9 febbraio, di cui 241 minori non accompagnati. E su 32 imbarcazioni soccorse, venticinque sono salpate da Tripoli.
Le prime tre nazioni di provenienza dei profughi arrivati dall’inizio del 2015, Siria, Gambia e Senegal, sono lo specchio delle guerre che si stanno consumando oltre le spiagge italiane. A seguire ci sono Mali, Somalia, Eritrea, Costa D’Avorio, Guinea, Nigeria, ma anche Pakistan, Sudan, Palestina, Iraq, Etiopia e Afghanistan. Le situazioni di conflitto e persecuzione di questi Paesi hanno spinto 1.300 persone in più rispetto a gennaio dello scorso anno a sfidare il mare forza otto e onde alte come palazzi.
«Sarei scappata anch’io da lì», dice Regina Catrambone. «Hanno detto che era Mare Nostrum a incentivare gli sbarchi. Ma è evidente che la presenza o meno di navi vicine alle coste libiche non c’entra. Qui il push factor è più forte del pull factor». Per giunta, «noi ora siamo a conoscenza delle ultime morti perché alcuni si sono salvati. Ma di quanti non sappiamo nulla? Non possiamo continuare a fare gli struzzi e a mettere la testa sotto la sabbia. Le operazioni di soccorso in mare sono tanto importanti, così come è importante cercare di risolvere il problema a terra. E tutti devono sentirsi chiamati in causa».
Durante le tre spedizioni, Moas ha soccorso 3mila migranti. Una parte è stata accolta sulla sua nave Phoenix, fornendo loro cura e assistenza fino a terra. In altri casi i migranti sono stati trasferiti sulle navi di Mare Nostrum. «Il Canale di Sicilia è un vasto tratto di mare dove circolano molte navi», spiega Regina. «Oltre le 40 tonnellate le navi sono obbligate a tenere acceso il dispositivo GPS IIF per il controllo del traffico marittimo. Se c’è un’allerta, le navi presenti sono obbligate a dare soccorso, come è accaduto moltissime volte. Ma sono le shipping company che dovrebbero prendersi cura dei migranti». Si tratta di navi non equipaggiate al soccorso senza cibo, acqua e vestiti extra. Né hanno medici a bordo per ospitare persone stremate da ore di viaggio in mare. Molte, allora, mentre le navi italiane sono arretrate a 30 miglia dalle coste nazionali, finiscono per non accenderlo più il GPS per non rischiare di trovarsi ogni giorno a cambiare rotta per soccorrere i gommoni dei migranti.
Sui barconi c’è la prima e la terza classe. Gli africani stanno sotto, nella stiva, perché pagano di meno. In alto ci sono siriani e palestinesi
«Quando ti avvicini alle imbarcazioni dei migranti, hai davanti persone traumatizzate», racconta virginia Catrambone. «Devi avere vestiti e coperte. Spesso queste persone affrontano viaggi con le gambe immerse nel gasolio delle navi. E senza potersi sciacquare per diverse ore, fermi nella stessa posizione per 18-20 ore senza poter allungare neanche un braccio, la pelle si brucia. Molti sono intossicati dai fumi, tanti non si lavano per giorni e prendono la scabbia».
Nelle sue tre spedizioni Regina racconta di aver incrociato siriani, palestinesi, eritrei, somali, nigeriani. L’elenco che fa è un rosario di guerre che si consumano da anni e che spingono migliaia di persone a mettersi in viaggio verso le coste libiche, e poi dalla Libia verso l’Europa, di cui l’Italia spesso è solo la porta. In alcuni casi si parte direttamente dalla Turchia, ma quello è un viaggio destinato ai più ricchi. Perché anche nella fuga più disperata c’è una divisione in classi. «Nelle navi degli scafisti», racconta Regina Catrambone, «c’è la prima e la terza classe. La terza classe è quella che sta in basso, nella stiva, dove vengono stipati eritrei, somali, e in genere africani sub-sahariani, che sono quelli che pagano di meno il viaggio. In alto, sopra di loro, ci sono quelli della prima classe, in genere siriani e palestinesi, che possono spendere di più». Sono queste le regole degli scafisti del Canale di Sicilia. E anche i salvataggi devono adeguarsi. «Nel nostro primo salvataggio, quasi 300 persone di cui 50 bambini», ricorda Regina, «c’erano persone nella stiva con l’acqua fino alla cintola. Ma se non si toglievano quelli di sopra non potevamo salvare quelli che erano sotto e stavano per morire. È stato crudele».
Immagini del genere si ripetono ogni giorno. Il 13 febbraio altri 700 migranti sono stati recuperati a una manciata di chilometri dalla Libia. «Ci sono decine e decine di barche come queste pronte a partire», dicono i soccorritori, «in centinaia sono già nei pressi delle spiagge e ai trafficanti delle condizioni del mare non importa nulla».
“Chiedo agli imprenditori italiani di donare ancora sul nostro sito www.moas.eu. Nessuno deve morire in mare. Siamo già in ritardo”

«Servono operazioni in mare», ripete Regina Catrambone, «se uno è in mare va salvato e basta. Il resto, dove sistemare queste persone, viene dopo. Nessuno deve morire in mare. Siamo già in ritardo, abbiamo tutti sulla coscienza questi morti, tutti, nessuno escluso». E lancia un appello: «Con la nostra esperienza noi abbiamo provato che qualcosa si può fare. Ci sono molte navi ormeggiate nei porti italiani che non avrebbero neanche bisogno di essere ristrutturate. Finora abbiamo raccolto 65mila euro. Chiedo a tutti gli imprenditori italiani che possano donare di più tramite il nostro sito www.moas.eu. Il Moas dovrebbe avere 7-8 navi. Perché non è finita qui: con la primavera gli sbarchi aumenteranno ancora».

Nessun commento: