Le compagnie più
piacevoli sono quelle nelle quali regna, tra i componenti, un sereno
rispetto reciproco. (Johann Wolfgang Goethe, Le affinità elettive)
Quando mio figlio
frequentava la scuola materna era iscritto ad un corso di nuoto.
Aveva forse 4, o 5
anni – non ricordo di preciso – quel giorno che entrando nello
spogliatoio della piscina l’ho visto che si stava azzuffando con un
altro bambino. Io e la mamma di questo bambino siamo corse a
dividerli, quindi abbiamo cercato di capire perché se le stessero
dando di santa ragione.
A causare la lite
era stato il fatto che mio figlio, per tutto il tempo, si era rivolto
a quel bambino al femminile, chiamandolo bambina; insisteva che il
suo intento non era affatto prenderlo in giro, perché lui in realtà
era una lei: ne era proprio convinto. Lo scambio di battute fra i due
era più o meno questo: “Mi chiamo Michele e sono un maschio!”,
“No, tu sei una bambina!”.
La mamma di Michele
allora ha chiesto a mio figlio il perché di tanta sicumera, e mio
figlio ha risposto: “I maschi non hanno le trecce!”
Il bambino in
questione, infatti, aveva una lunga treccia che gli scendeva dietro
la schiena.
Allora questa mamma
ha sfilato il costume a Michele: “Visto? E’ un maschio.”
Quel pomeriggio io e
mio figlio siamo andati a prenderci un gelato e, seduti ad un
tavolino che dava sulla piazza, ci siamo messi ad osservare la gente
che passeggiava. Gli ho indicato tutti gli uomini con i capelli
lunghi che passavano, e anche le donne con i capelli corti,
spiegandogli che non è da un simile dettaglio che si può definire
“maschio” o “femmina” una persona. Gli ho anche spiegato che
anche se prima di quel giorno non aveva mai incontrato un maschio con
le trecce, questo non avrebbe dovuto farlo giungere alla conclusione
che ai maschi la treccia è preclusa, perché ognuno è libero di
pettinarsi come preferisce – o di indossare quello che preferisce –
e in ogni caso non è educato attribuire a qualcuno un genere quando
quella persona sostiene di appartenere ad un altro.
Quel giorno, in un
modo credo appropriato alla sue età, ho affrontato con mio figlio il
problema degli stereotipi di genere, cioè quell’insieme di
caratteristiche che viene arbitrariamente attribuita alle donne e
agli uomini sulla base del loro sesso biologico, che ci rimanda
un’immagine semplicistica ed errata della realtà.
Vi racconto questa
storia perché spero che aiuti a chiarire il nesso fra gli stereotipi
di genere e il rispetto.
Premetto che con
“rispetto” intendo quel sentimento che ci permette di astenerci
da qualsiasi comportamento lesivo nei confronti degli altri.
Semplificare la
realtà attraverso l’uso degli stereotipi è un processo cognitivo
che gli individui adottano per mettere ordine, a fronte di un mondo
fatto di differenze e di relazioni sociali complesse.
Produrre semplicità
e ordine inevitabilmente produce la perdita di quei dettagli e la
ricchezza di quelle sfumature che spesso sono capaci di fare la
differenza nella valutazione delle cose.
Per mezzo degli
stereotipi un certo numero di caratteristiche – anche di tipo
psicologico o attinenti a qualità morali e a giudizi di valore –
vengono attribuite a determinati gruppi sociali ed estese,
indifferenziatamente, a tutti i loro membri. Questo comporta la
creazione, sulla base di quelle caratteristiche, di una
differenziazione tra Noi e Loro, ovvero il gruppo cui si sente di
appartenere, e gli altri, quelli che non sono come Noi.
Noi, i maschi, Loro
le femmine: una differenziazione che a volte si traduce in Noi –
che siamo migliori – e Loro – che ci sono inferiori.
Spesso e volentieri,
chi etichetta le persone sulla base degli stereotipi di genere
finisce col fare del male a Loro, tutti quelli che non appartengono
al gruppo Noi.
Spesso e volentieri,
etichettare le persone sulla base degli stereotipi di genere comporta
il fare del male a quelli che non sono “abbastanza Noi”, cioè
non corrispondono all’immagine di cosa dovrebbe o non dovrebbe
essere un maschio, e cosa dovrebbe o non dovrebbe essere una femmina.
Proprio come ha
fatto mio figlio, quando si è messo a picchiare un bambino perché
aveva i capelli lunghi.
Per tanto ritengo
che chi se la prende con chi vuole aiutare i bambini ad andare oltre
le semplificazioni, a comprendere che appartenere ad un Noi non
implica il disprezzare Loro e che all’interno di ogni Noi ci sono
molte differenze che gli stereotipi occultano, non sta “proteggendo”
i bambini, ma sta negando loro l’opportunità di imparare a
trattare l’altro da sé con rispetto.
A volte, per
imparare a rispettare gli altri, è utile “mettersi nei loro
panni”.
E se l’idea vi
atterrisce e vi disgusta, forse dovreste chiedervi se non sono quei
panni, o chi li indossa, a disgustarvi, e se il problema di fondo è
che non avete rispetto per quelli che non sono come voi.
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