giovedì 12 marzo 2015

Gli stereotipi di genere e il rispetto di il ricciocorno schiattoso

Le compagnie più piacevoli sono quelle nelle quali regna, tra i componenti, un sereno rispetto reciproco. (Johann Wolfgang Goethe, Le affinità elettive)
Quando mio figlio frequentava la scuola materna era iscritto ad un corso di nuoto.
Aveva forse 4, o 5 anni – non ricordo di preciso – quel giorno che entrando nello spogliatoio della piscina l’ho visto che si stava azzuffando con un altro bambino. Io e la mamma di questo bambino siamo corse a dividerli, quindi abbiamo cercato di capire perché se le stessero dando di santa ragione.
A causare la lite era stato il fatto che mio figlio, per tutto il tempo, si era rivolto a quel bambino al femminile, chiamandolo bambina; insisteva che il suo intento non era affatto prenderlo in giro, perché lui in realtà era una lei: ne era proprio convinto. Lo scambio di battute fra i due era più o meno questo: “Mi chiamo Michele e sono un maschio!”, “No, tu sei una bambina!”.
La mamma di Michele allora ha chiesto a mio figlio il perché di tanta sicumera, e mio figlio ha risposto: “I maschi non hanno le trecce!”
Il bambino in questione, infatti, aveva una lunga treccia che gli scendeva dietro la schiena.
Allora questa mamma ha sfilato il costume a Michele: “Visto? E’ un maschio.”
Quel pomeriggio io e mio figlio siamo andati a prenderci un gelato e, seduti ad un tavolino che dava sulla piazza, ci siamo messi ad osservare la gente che passeggiava. Gli ho indicato tutti gli uomini con i capelli lunghi che passavano, e anche le donne con i capelli corti, spiegandogli che non è da un simile dettaglio che si può definire “maschio” o “femmina” una persona. Gli ho anche spiegato che anche se prima di quel giorno non aveva mai incontrato un maschio con le trecce, questo non avrebbe dovuto farlo giungere alla conclusione che ai maschi la treccia è preclusa, perché ognuno è libero di pettinarsi come preferisce – o di indossare quello che preferisce – e in ogni caso non è educato attribuire a qualcuno un genere quando quella persona sostiene di appartenere ad un altro.
Quel giorno, in un modo credo appropriato alla sue età, ho affrontato con mio figlio il problema degli stereotipi di genere, cioè quell’insieme di caratteristiche che viene arbitrariamente attribuita alle donne e agli uomini sulla base del loro sesso biologico, che ci rimanda un’immagine semplicistica ed errata della realtà.
Vi racconto questa storia perché spero che aiuti a chiarire il nesso fra gli stereotipi di genere e il rispetto.
Premetto che con “rispetto” intendo quel sentimento che ci permette di astenerci da qualsiasi comportamento lesivo nei confronti degli altri.
Semplificare la realtà attraverso l’uso degli stereotipi è un processo cognitivo che gli individui adottano per mettere ordine, a fronte di un mondo fatto di differenze e di relazioni sociali complesse.
Produrre semplicità e ordine inevitabilmente produce la perdita di quei dettagli e la ricchezza di quelle sfumature che spesso sono capaci di fare la differenza nella valutazione delle cose.
Per mezzo degli stereotipi un certo numero di caratteristiche – anche di tipo psicologico o attinenti a qualità morali e a giudizi di valore – vengono attribuite a determinati gruppi sociali ed estese, indifferenziatamente, a tutti i loro membri. Questo comporta la creazione, sulla base di quelle caratteristiche, di una differenziazione tra Noi e Loro, ovvero il gruppo cui si sente di appartenere, e gli altri, quelli che non sono come Noi.
Noi, i maschi, Loro le femmine: una differenziazione che a volte si traduce in Noi – che siamo migliori – e Loro – che ci sono inferiori.
Spesso e volentieri, chi etichetta le persone sulla base degli stereotipi di genere finisce col fare del male a Loro, tutti quelli che non appartengono al gruppo Noi.
Spesso e volentieri, etichettare le persone sulla base degli stereotipi di genere comporta il fare del male a quelli che non sono “abbastanza Noi”, cioè non corrispondono all’immagine di cosa dovrebbe o non dovrebbe essere un maschio, e cosa dovrebbe o non dovrebbe essere una femmina.
Proprio come ha fatto mio figlio, quando si è messo a picchiare un bambino perché aveva i capelli lunghi.
Per tanto ritengo che chi se la prende con chi vuole aiutare i bambini ad andare oltre le semplificazioni, a comprendere che appartenere ad un Noi non implica il disprezzare Loro e che all’interno di ogni Noi ci sono molte differenze che gli stereotipi occultano, non sta “proteggendo” i bambini, ma sta negando loro l’opportunità di imparare a trattare l’altro da sé con rispetto.
A volte, per imparare a rispettare gli altri, è utile “mettersi nei loro panni”.
E se l’idea vi atterrisce e vi disgusta, forse dovreste chiedervi se non sono quei panni, o chi li indossa, a disgustarvi, e se il problema di fondo è che non avete rispetto per quelli che non sono come voi.


Nessun commento: