Tutte
le volte è la stessa sensazione. Tutte le volte che prima di dire la
propria durante una conversazione sulla parità di genere sento una
coetanea mettere le mani avanti così, «io non sono femminista, però
penso che…», non posso fare a meno che pensare: che noia.
Pur di
non scadere nella polemica, ma con l’aspirazione di far nascere
anche un minimo di dibattito, vi chiedo: esattamente, a chi o che
cosa pensate che la nostra generazione debba chiedere il permesso per
avere una opinione sul proprio genere?
Per quale motivo sentiamo il
bisogno di giustificare le nostre posizioni e perchè assecondiamo la
regola non scritta per cui, se vuoi dire qualcosa sulla tua
femminilità, devi prendere le distanze da un movimento politico che
è costato parecchia fatica ad altre donne, e non a te?
Mi
sono sforzata di fare un passo indietro, o per meglio dire di fianco.
Non faccio fatica a ripercorrere un breve passato in cui anche io,
come tutte, ho subito un sorta di opera di convincimento (anche qui,
da parte di chi, non saprei spiegarlo bene) che mi ha fatto credere
che le femministe fossero delle streghe brutte e cattive, che magari
“mangiavano i bambini”.
Poi però sono cresciuta e penso di aver
maturato un minimo di capacità critica per essere in grado di
distinguere quella che è la mia storia da quella di altre donne: più
consapevoli, prima di tutto. Ma soprattutto che quando è stato
necessario hanno avuto il coraggio di formare un movimento che è
stato in grado di scrivere un pezzo di storia.
Se penso a me, a noi,
mi chiedo perché dovremmo perdere tempo sforzandoci di prendere le
distanze da quel passato (che può testimoniare anche degli errori
importanti) invece che concentrarci su quello che possiamo costruire
noi, oggi.
Forse
ci mancano i temi su cui ritrovarci?
Anche qui ho riflettuto molto:
se il confronto sull’immagine pubblicitaria delle donne vi sembra
ripetitiva; la difesa o meno della l.194 urta le vostre posizioni
politiche; i problemi lavorativi pre e post maternità li sentite
lontani e non avete bisogno di insegnare al vostro convivente cosa
vuole dire condividere le faccende di casa, io ho una proposta.
Non
vi sembra assurdo che molte di noi vengano pagate meno dei colleghi
uomini? Non importa se le mansioni sono uguali, le responsabilità e
il percorso per ottenere la posizione pure: il riconoscimento
monetario per il lavoro è diverso. Approssimato per difetto. Questo
risparmio discutibile ha coinvolto anche personalità di spicco come
Christine Lagarde, Direttrice del Fondo Monetario Internazionale o
Jill Abramson, ex direttrice del New York Times: bastano per
giustificare la nostra richiesta di parità di trattamento?
Sono
esempi sufficienti per unire una domanda trasversale, tra generi e
generazioni? Se la risposta è ancora una volta no, cosa proponete?
Non
sottovalutate l’importanza delle alternative.
Perché se anche una
volta all’anno vi capita di pensare che ci sia una nota stonata nel
racconto del rapporto tra i sessi, ma non vi ritrovate nelle
rivendicazioni avanzate, contribuire con nuove voci e azioni è
fondamentale.
In gioco c’è la nostra serenità e quella di chi ci
circonda. Che siano costruttive però, non polemiche, perché nessuno
ha tempo da perdere. E tempo sommato a tempo, speso male, equivale a
giocarci il nostro futuro.
Perciò, tornando alla domanda del
principio, cosa c’è di male nel ragionare sulle conquiste
raggiunte fino ad ora e quelle invece da firmare con la “tag”
della nostra generazione?
Io direi niente, anzi. Potremmo dire al
mondo che ci osserva che nessuno è riuscito a rubarci il senso di
responsabilità (da proteggere ancora prima del “nostro futuro”).
Responsabilità verso noi stessi, che ci permette di credere nelle
nostre idee e nelle nostre argomentazioni.
Responsabilità verso gli
altri: quella spinta ad agire per difendere le persone attorno a noi,
sia quelle ancora più giovani, sia quelle più adulte.
Spike Lee,
nel lontano 1989, sintetizzava tutto questo in “Fà la cosa
giusta”. Oggi, la cosa giusta da fare, è fare.
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