martedì 10 marzo 2015

“Io non sono femminista, però penso che…” (la premessa delle più giovani)di Kibra Sebhat

Tutte le volte è la stessa sensazione. Tutte le volte che prima di dire la propria durante una conversazione sulla parità di genere sento una coetanea mettere le mani avanti così, «io non sono femminista, però penso che…», non posso fare a meno che pensare: che noia.
Pur di non scadere nella polemica, ma con l’aspirazione di far nascere anche un minimo di dibattito, vi chiedo: esattamente, a chi o che cosa pensate che la nostra generazione debba chiedere il permesso per avere una opinione sul proprio genere? 
Per quale motivo sentiamo il bisogno di giustificare le nostre posizioni e perchè assecondiamo la regola non scritta per cui, se vuoi dire qualcosa sulla tua femminilità, devi prendere le distanze da un movimento politico che è costato parecchia fatica ad altre donne, e non a te?
Mi sono sforzata di fare un passo indietro, o per meglio dire di fianco.
Non faccio fatica a ripercorrere un breve passato in cui anche io, come tutte, ho subito un sorta di opera di convincimento (anche qui, da parte di chi, non saprei spiegarlo bene) che mi ha fatto credere che le femministe fossero delle streghe brutte e cattive, che magari “mangiavano i bambini”.
Poi però sono cresciuta e penso di aver maturato un minimo di capacità critica per essere in grado di distinguere quella che è la mia storia da quella di altre donne: più consapevoli, prima di tutto. Ma soprattutto che quando è stato necessario hanno avuto il coraggio di formare un movimento che è stato in grado di scrivere un pezzo di storia.
Se penso a me, a noi, mi chiedo perché dovremmo perdere tempo sforzandoci di prendere le distanze da quel passato (che può testimoniare anche degli errori importanti) invece che concentrarci su quello che possiamo costruire noi, oggi.
Forse ci mancano i temi su cui ritrovarci?
Anche qui ho riflettuto molto: se il confronto sull’immagine pubblicitaria delle donne vi sembra ripetitiva; la difesa o meno della l.194 urta le vostre posizioni politiche; i problemi lavorativi pre e post maternità li sentite lontani e non avete bisogno di insegnare al vostro convivente cosa vuole dire condividere le faccende di casa, io ho una proposta.
Non vi sembra assurdo che molte di noi vengano pagate meno dei colleghi uomini? Non importa se le mansioni sono uguali, le responsabilità e il percorso per ottenere la posizione pure: il riconoscimento monetario per il lavoro è diverso. Approssimato per difetto. Questo risparmio discutibile ha coinvolto anche personalità di spicco come Christine Lagarde, Direttrice del Fondo Monetario Internazionale o Jill Abramson, ex direttrice del New York Times: bastano per giustificare la nostra richiesta di parità di trattamento?
Sono esempi sufficienti per unire una domanda trasversale, tra generi e generazioni? Se la risposta è ancora una volta no, cosa proponete?

Non sottovalutate l’importanza delle alternative.
Perché se anche una volta all’anno vi capita di pensare che ci sia una nota stonata nel racconto del rapporto tra i sessi, ma non vi ritrovate nelle rivendicazioni avanzate, contribuire con nuove voci e azioni è fondamentale.
In gioco c’è la nostra serenità e quella di chi ci circonda. Che siano costruttive però, non polemiche, perché nessuno ha tempo da perdere. E tempo sommato a tempo, speso male, equivale a giocarci il nostro futuro.
Perciò, tornando alla domanda del principio, cosa c’è di male nel ragionare sulle conquiste raggiunte fino ad ora e quelle invece da firmare con la “tag” della nostra generazione?
Io direi niente, anzi. Potremmo dire al mondo che ci osserva che nessuno è riuscito a rubarci il senso di responsabilità (da proteggere ancora prima del “nostro futuro”).
Responsabilità verso noi stessi, che ci permette di credere nelle nostre idee e nelle nostre argomentazioni.
Responsabilità verso gli altri: quella spinta ad agire per difendere le persone attorno a noi, sia quelle ancora più giovani, sia quelle più adulte. 
Spike Lee, nel lontano 1989, sintetizzava tutto questo in “Fà la cosa giusta”. Oggi, la cosa giusta da fare, è fare.

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