Ne
La tribù del calcio Desmond Morris, nel 1981, descrisse una partita
di calcio con gli occhi di un extraterreste: dall’astronave la
creatura aliena avrebbe visto due gruppi ristetti (di un solo genere
sessuato) in rappresentanza di due tribù avversarie mentre compivano
un rituale legato ad un oggetto rotondo da spingere in un determinato
luogo. Lo scienziato antropologo introduceva dunque il discorso sul
senso del simbolico delle azioni, individuali e collettive.
Che
penserebbe un extraterreste leggendo un articolo di giornale che
racconta la proposta, da parte di diverse associazioni di donne,
supportate da un lungo lavoro nelle scuole, di intitolare alcune
strade e luoghi pubblici ancora senza nome a donne che hanno lasciato
un segno nella società, articolo corredato con la foto del nome di
una strada scelta con chiaro intento a doppio senso?
Che
cosa racconta questa scelta, che a molti sembrerà divertente,
arguta, dissacrante, persino una lezione di leggerezza a queste
donne, così seriose e incapaci di pensare a questione più serie
rispetto alla toponomastica?
Il
movimento trasversale di toponomastica femminile, nato nel 2012 per
volontà della studiosa Maria Pia Ercolini che lo lanciò su Facebook
raccogliendo subito entusiasmo e consenso è un progetto culturale e
sociale che ha coinvolto centinaia di associazioni e gruppi, ma anche
scuole e istituzioni locali, nella consapevolezza che l’esclusione
delle donne e del femminile passa anche attraverso la cancellazione
dei nomi, delle storie e delle vite delle donne che raramente sono
nominate nelle strade delle città, e che quindi non entrano nel
quotidiano del nostro vivere i luoghi.
Quando
Lidia Menapace, decana del femminismo, scrive nel 1990 che per
esistere socialmente bisogna essere memorabili, e quindi nominate,
anticipa l’intento del progetto: posto che nella storia le donne
degne di memoria sono davvero un numero esiguo, dai testi scolastici
alle strade, è necessaria una riparazione del danno causato
dall’invisibilità.
Cominciare a chiamare le strade con nomi di
donne è già un passo significativo.
Si
tratta di una questione, mi pare, di buon senso e di civiltà, che
non prevede manifestazioni, turbativa di traffico, urla e disturbo
alcuno: in tutte le città le donne che hanno accolto il progetto
hanno coinvolto istituzioni e scuole, quindi cosa c’è che non va?
Perché il giornale di Imola La voce correda l’articolo che
racconta il percorso dell’associazione Perledonne per
l’intitolazione di strade e luoghi pubblici a personalità
femminili con l’immagine di Via della sega?
Una
delle risposte possibili (oltre a quella che chi ha preso questa
decisione sia un adolescente un po’ immaturo) è che se il
direttore del settimanale che pubblica le foto di una ministra che
mangia un gelato con commenti esplicitamente di allusione sessuale se
la cava con le scuse, applaudite in una trasmissione tv a sfondo
culturale (Che tempo che fa) e poi con una lunga intervista nella
quale presenta il suo ultimo libro (Le invasione barbariche), ovvio
che un piccolo giornale di provincia può farsi una grassa risata
alla faccia della toponomastica femminile.
Un consiglio alla
redazione, da collega: darsi una occhiata al video sulla
responsabilità della categoria sull’uso delle parole, ideato dalle
rete di giornaliste Gulia.
Magari
la visione e la riflessione possono aiutare a migliorare il livello
della comunicazione.
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