Gli
uomini galanti non esistono più. Non ci sono più i cavalieri di una
volta. Quelli che ti fanno sentire speciale, che ti mettono su un
piedistallo, che ti aprono la portiera della macchina, la porta
dell’ascensore, perché sei donna.
Si
dice che ormai siano gentilezze superate e lo si dice con tristezza,
perché chi di noi non vuole sentirsi speciale?
Eppure
la galanteria io la vedo tutti i giorni. Non è mai morta e non
morirà finché il mondo sarà sbilanciato a favore dell’uomo. E
poi io l’ho sempre vista, fin da piccina.
Mi
ricordo come mi sentivo speciale l’otto marzo di venti anni fa,
quando i miei compagni delle elementari ci portarono le mimose, i
cioccolatini e ci coprirono di attenzioni e le maestre erano così
felici di questo quadretto. Mi sentivo proprio fortunata ad essere
nata donna.
Alla
soglia dei trent’anni non sono cambiate di molto le cose. C’è
sempre qualcuno che prova a farmi sentire speciale perché sono una
donna. Al lavoro, se entro in ascensore con un collega, mi apre la
porta: “prima le donne” mi dice tutto contento. Se usciamo da un
locale, sarà lui a tenere la porta aperta, magari dopo aver pagato
il conto. In treno, quando viaggio con il mio piccolissimo trolley,
trovo sempre qualcuno che si offre di sistemarlo nel vano in alto. La
galanteria è un balsamo per gli uomini. Vedo i loro volti, così
fieri e soddisfatti.
Il
fatto è che io ci provo sempre a farli sentire speciali perché sono
uomini. Ma non ci riesco mai. Quando, di fronte ad un uomo che mi
tiene la porta, insisto perché sia lui ad andare per primo o quando,
in treno, chiedo ad un uomo se ha bisogno di una mano per sistemare
la valigia, ricevo in risposta solo sguardi risentiti e contrariati.
Mi guardano come se fossi aliena. E nonostante le mie insistenze, non
cedono.
Da
sempre ci hanno insegnato che noi donne siamo esseri meravigliosi,
dotate di un quid in più. Ce l’ha ricordato per la ricorrenza
dell’otto marzo scorso anche Sergio Mattarella, il presidente della
Repubblica: noi donne sappiamo “produrre senza distruggere”,
siamo “il volto della coesione sociale, della solidarietà”,
siamo “la radice sulla quale la nazione è costruita”,
“provvediamo all’educazione dei figli, curiamo anziani e invalidi
e lo facciamo in silenzio” .
Anche
Woman for Expo ci ricorda quanto siamo speciali. Noi nutriamo il
pianeta e ci prendiamo cura di tutto il mondo: “Ogni donna è
depositaria di pratiche, conoscenze, tradizioni legate al cibo, alla
capacità di nutrire e nutrirsi, di “prendersi cura”. Non solo di
se stessi, ma anche degli altri”.
Verso
la metà degli anni ’90 un gruppo di psicologi (Eagly, Mladinic,
Otto) fece una ricerca su quale gruppo sociale, tra uomini e donne,
venisse giudicato più positivamente. La risposta fu chiara: le donne
erano viste in modo molto più positivo rispetto agli uomini, a causa
di quello che viene chiamato “women are wonderful” effect,
“l’effetto donne meravigliose”. Siamo meravigliose perché
siamo accoglienti, solidali, empatiche e ci prendiamo cura degli
altri. Nella rappresentazione sociale l’uomo è vincente ma duro,
le donne sono deboli ma meravigliose.
Ma
allora perché ci lamentiamo? C’è qualcosa di male nell’essere
viste come esseri meravigliosi (a prescindere)?
Sì.
Perché il maschilismo non ha solo una faccia, ma due: una cattiva,
l’altra (apparentemente) buona. Quella cattiva, più facile da
individuare, viene detta sessismo ostile e si estrinseca nell’astio
verso le donne, soprattutto verso coloro che non si adeguano allo
status quo, che richiedono parità e che mettono in discussione la
presunta superiorità maschile.
Quella
buona, detta sessismo benevolo, è più difficile da riconoscere ed è
accettata a livello sociale, quindi può circolare maggiormente.
Glick e Fiske, due psicologi che nel 1996 studiarono il sessismo
ambivalente – cioè articolato in queste due componenti – ( “The
ambivalent sexism inventory: differentiating hostile and benevolent
sexism”), indicano come sessismo benevolo l’insieme degli
atteggiamenti positivi di protezione, idealizzazione ed affezione
rivolti alle donne in quanto donne, in quanto portatrici di valori
stereotipati (e limitanti), collegati alla cura degli altri, alla
maternità, all’accoglienza, etc…
Secondo
Glik e Fiske tali atteggiamenti “sono sessisti in quanto
stereotipizzano le donne in ruoli ristretti, ma sono soggettivamente
positivi in quanto a tono (per il ricevente) e tendenti a sollecitare
comportamenti tipicamente categorizzati come prosociali (ad esempio
l’aiutare gli altri) o una maggiore intimità (ad esempio l’aprirsi
agli altri).”
Il
sessismo benevolo rinchiude le donne in gabbie dorate e luccicanti,
da cui è difficile uscire. Ed è una componente fondamentale per il
mantenimento del maschilismo e della società patriarcale.
La
relazione uomo-donna è una forma molto particolare di rapporto tra
oppressore ed oppresso, in quanto oltre ad esservi subalternità,
dovuta ad una notevole differenza di potere economico – sociale, vi
sono anche implicazioni emotive, sentimentali e/o sessuali.
Un
sistema così complesso non potrebbe reggersi su modalità meramente
oppressive e dominanti, ma è necessaria un’altra componente, che
consenta di evitare o perlomeno di limitare il risentimento del
gruppo dominato. Sono quindi necessarie gratificazioni
paternalistiche, che fungano in qualche modo da ricompensa per
l’accettazione del posto assegnato alle donne nella gerarchia
sociale.
Questa
ricompensa è il sessismo benevolo, l’attribuzione a priori alle
donne di qualità positive, riconoscendole adorabili, preziose e
bravissime (soprattutto a fare quello che gli uomini non vogliono
fare) e per questo destinatarie di attenzioni e premure particolari,
che normalmente non verrebbero riservate a un uomo nelle stesse
condizioni.
La
forza del sessismo benevolo risiede nella promessa di impiegare il
potere del gruppo dominante a vantaggio del gruppo dominato (le
donne), a patto che queste accettino il controllo sociale maschile.
La visione dell’uomo come cavaliere romantico che lotta per
difendere la famiglia ed assicurarle benessere ha contribuito per
secoli a confinare le donne tra le mura domestiche e a contenerne le
ambizioni
Il
sessismo benevolo e il sessismo ostile sono complementari e
necessitano l’uno dell’altro per sopravvivere. Sono le due facce
della stessa medaglia patriarcale. In una ricerca del 2001, sempre ad
opera di Glick e Fiske, è emerso che coloro che attuano forme di
sessismo benevolo nei confronti delle donne che si conformano alle
norme sociali di genere, attuano anche sessismo ostile nei confronti
di chi trasgredisce quelle norme.
Mettere
su un piedistallo le donne, avere nei loro confronti atteggiamenti
cavallereschi e protettivi – considerandole quindi bisognose -,
gratificarle per il fatto di essere altruiste e amorevoli per natura
– facendo quindi gravare sulle loro spalle welfare e costi sociali
e relegandole a ruoli di cura – è una forma (non troppo sottile)
di discriminazione, che sottintende l’esistenza di un rapporto di
subordinazione.
Perciò
cari colleghi, amici, conoscenti e non, vi prego non offendetevi se
non sgrano gli occhioni in segno di riconoscenza quando insistete per
aprirmi la porta. Non pretendete di pagare il conto al ristorante per
il solo fatto che sono una donna. Non sentitevi minati nella vostra
mascolinità se mi offro di aiutarvi con i lavori manuali: non ho
solo un cuore colmo di amore traboccante in quanto donna, ma ho anche
due braccia. Non mi fate complimenti sull’aspetto fisico quando non
sono opportuni: mi infastidiscono e mi relegano alla sfera sessuale.
E soprattutto, io non nutro il pianeta come vorrebbe Expo e non
sopporto in silenzio la mancanza di welfare, come dice Mattarella.
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