È
corretto coinvolgere i bambini in attività semi professionali. Voi
cosa fareste? O cosa avete fatto?
Le
luci e la musica sulle passerelle della moda bimbo, dopo il
passaggio, al Pitti di Firenze, dell’incantevole mini top model
russa Kristina Pimenova (nove anni e due milioni di fan su Facebook),
intervistata dal Corriere, hanno dato il via, oltre che alle sfilate
del children’s wear, a un acceso dibattito se fosse corretto o meno
coinvolgere i bambini in attività semi professionali.
Tra
chi provava «rabbia», «disgusto», «fastidio» contro i genitori
definiti nel migliore dei casi «avidi, narcisisti, sfruttatori»
prevedendo per la bimba «un futuro sul lettino dello psicologo» e
chi invece sosteneva che quest’esperienza, come molte altre, se
guidata da un adulto con consapevolezza e protezione, può
trasformarsi non soltanto in un’occasione di divertimento e
socializzare con i coetanei.
Come
ad esempio racconta Marina Fini, tre figli di 11, 8 e 4 anni, tutti
impegnati tra tv, backstage e cataloghi. «All’inizio ero scettica,
poi con il passaparola ho sentito altre mamme che erano contente. I
bambini lo fanno perché lo vogliono fare, per loro è un bellissimo
gioco. Il più grande, per la pubblicità di un noto marchio
alimentare doveva imparare ad andare a cavallo con Antonio Banderas:
siamo stati a Madrid, poi a Malaga per girare le scene».
Ma
non va sempre così, a volte sono proprio le mamme a sgomitare perché
credono di lanciare l’erede di Kate Moss rischiando di trasformarla
in una piccola lolita. «Il terreno più scivoloso è proprio quello
dei genitori — spiega Lapo Cianchi, direttore Comunicazione di
Pitti Immagine — noi insistiamo sull’autocontrollo dei marchi,
responsabilità di fotografi e registi, ma sono le madri che alle
volte inducono atteggiamenti sbagliati. Ci sentiamo più tranquilli
con gli addetti ai lavori, i genitori sono più difficili da
controllare».
Qual
è allora un comportamento corretto per affrontare quest’esperienza
che per il bambino può essere emozionante, divertente o, al
contrario, faticosa, frustrante e inadeguata, a seconda di come viene
guidata dagli adulti?
«Per
prima cosa bisogna tenere a freno il narcisismo materno — spiega la
psicologa Silvia Vegetti Finzi — e certo non far lavorare il
piccolo per avidità. Stare sotto ai riflettori non è una cosa di
per sé negativa. Anche in epoche passate i bambini hanno sempre
recitato in teatro. Bisogna vedere il piano complessivo degli impegni
e se questa nuova attività può essere inserita e in quale misura.
Ma è importante anche il carattere del bambino: serve un continuo
monitoraggio sul suo stato d’animo perché cambia anche da un mese
all’altro. Negli ultimi anni c’è stata un’evoluzione —
conclude Vegetti Finzi — e sulle passerelle non ci sono più dei
burattini. Spesso viene allestito un gioco e i bambini si muovono
intorno a questo centro creando più una rappresentazione teatrale
che una sfilata utilitaristica».
Un
trend tracciato dalla storica fondatrice de «I Pinco Pallino»
Imelde Bronzieri, prima in Italia, oltre 10 anni fa, ad organizzare
una sfilata con baby modelle, che sentì anche la responsabilità di
istituire un’Osservatorio sulla tutela dell’immagine
dell’infanzia in collaborazione con l’università La Sapienza di
Roma.
Un
altro punto, infine, sul quale la nostra legislazione è carente,
riguarda le prestazioni e i compensi dei mini modelli: «In Italia
non c’è l’obbligo di vincolare al minore i soldi guadagnati come
accade in Francia o in Spagna — conclude Benedetta Ajani titolare
dell’agenzia “B Talent” — noi facciamo il bonifico
direttamente ai genitori. In quei Paesi poi è consentito sfilare
solo dopo l’orario scolastico mentre qui lavorano anche al
mattino».
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