Chissà perché la
ricorrenza di un evento luttuoso – quale è stato storicamente l’8
marzo – è diventata, prima la “giornata” e poi “la festa
della donna”.
Per anni ho
costretto me stessa a darle un senso, più che altro per il rispetto
dovuto a tutte le associazioni, gruppi femminili e femministi che
avrebbero preso quell’occasione per incontri e dibattiti su temi di
comune interesse.
Oggi, di fronte ai
rimasugli penosi che escono dalle radio, dalle televisioni e dai
giornali, di quella che pervicacemente, vergognosamente resta la
“questione femminile” – le donne considerate alla stregua di un
gruppo sociale svantaggiato o come un “genere” da uguagliare o
tutelare sulla base dell’ordine creato dal sesso vincente – ho un
desiderio forte e deciso:
- che non se ne
parli più;
- che nessuna data
venga d’ora innanzi a fare da velo a uno dei rapporti di potere che
oggi, molto più che in passato, appare scopertamente come la base di
tutte le forme di dominio che la storia ha conosciuto, nella nostra
come nelle altre civiltà;
-che si dica con
chiarezza che non di “cose di donne” stiamo parlando, ma
dell’idea di virilità che ha deciso dei destini di un sesso e
dell’altro, della cultura – e della storia che vi è stata
costruita sopra, nel privato come nel pubblico;
-che gli uomini si
prendano la responsabilità di interrogarsi sulla violenza di ogni
genere perpetrata nei secoli dai loro simili, e che lo facciano, come
hanno fatto le donne, partendo da se stessi, consapevoli che solo
indagando a fondo nella singolarità delle vite e delle esperienze
personali possiamo scoprire le radici di una visione del mondo che ci
accomuna, al di là di spazi e tempi.
Non sono
pregiudizialmente contraria alle ricorrenze ma vorrei che, senza
storpiarne o banalizzarne il significato, diventassero per tutti un
momento di riflessione: ossia di riconoscimento degli interrogativi
che vi sono connessi e delle aspettative di cambiamento che da lì si
possono aprire.
Non è stato così
per l’8 marzo, che ha visto un tema di primaria importanza per la
crisi che stanno attraversando la politica, l’economia e la civiltà
stessa – la relazione tra i sessi, la divisione sessuale del
lavoro, la dicotomia tra privato e pubblico, natura e cultura,
eccetera – restringersi progressivamente a pochi scampoli
rivendicativi dettati dall’endemica “miseria femminile”.
A quante mi
obietteranno che così si toglie un’opportunità di portare allo
scoperto, sia pure per un giorno solo, il faticoso lavoro carsico del
movimento delle donne, rispondo che può essere, al contrario, la
spinta per creare da noi stesse le occasioni di incontro che ci
servono, senza attendere che ce le offrano altri, con un mazzetto di
mimose.
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