sabato 4 aprile 2015

Le donne perdute In un mese più di 42mila senza lavoro di Chiara Saraceno



Il datoI DATI sull’occupazione di febbraio, con il lieve aumento della disoccupazione e della perdita di occupazione, soprattutto femminile, rispetto ai dati positivi di dicembre e gennaio, segnalano come siamo ancora in una fase di forte instabilità, anche se entro una lieve tendenza positiva.
SPECIE per l’occupazione maschile che sembra aver arrestato la lunga e consistente diminuzione. L’occupazione maschile, ricordiamolo, è stata la più colpita dalla crisi, passando da un tasso del 70,2% nel 2008 al 64,7% nel 2014, laddove per le donne si è passati dal 47,3% del 2008 al 46,8% del 2014.
Paradossalmente la crisi ha prodotto una riduzione del gender gap nell’occupazione, non tramite un aumento dell’occupazione femminile, ma a causa di una forte riduzione dell’occupazione maschile. Mentre si è ulteriormente allontanato l’obiettivo europeo del raggiungimento del 70% di occupazione femminile, anche gli uomini sono scesi al di sotto di quella percentuale e faticano a tornare ai, non altissimi, livelli pre-crisi.
Quanto alle donne, se hanno mantenuto meglio le proprie, pur svantaggiate, posizioni in termini percentuali, ne hanno perse in termini di sicurezza. È infatti aumentato molto il part time involontario, non quello scelto come temporanea strategia di conciliazione tra partecipazione al mercato del lavoro e responsabilità famigliari in una società in cui la divisione del lavoro famigliare tra uomini e donne rimane rigido e il sistema dei servizi insufficiente e spesso costoso. È aumentato, cioè, il part time imposto dalle aziende, specie nel terziario, come strumento di flessibilizzazione della manodopera, a prescindere dai bisogni di questa, in termini vuoi di reddito, vuoi di conciliazione. È aumentata anche la disoccupazione femminile (di sette punti percentuali nell’ultimo anno, a fronte di una diminuzione di oltre il 2% per gli uomini), perché più donne oggi si presentano nel mercato del lavoro riducendo la percentuale delle inattive. Non si tratta solo di giovani istruite, ma anche di donne di mezza età a bassa qualifica e con carichi famigliari, che un tempo si sarebbero dedicate solo alla famiglia ed oggi invece, spesso per far fronte alla perdita o alla riduzione dei salari maschili, sono alla ricerca di una occupazione.
Il dato della perdita di occupazione femminile nel mese di febbraio, quindi, non va letto come una chiara inversione di tendenza rispetto ai miglioramenti degli ultimi mesi. Piuttosto è il segnale della persistenza delle difficoltà che le donne incontrano a entrare e rimanere nel mercato del lavoro. Difficoltà che hanno a che fare con resistenze più o meno esplicite dei datori di lavoro, aggravate, se non legittimate, dalle difficoltà a conciliare responsabilità famigliari e lavoro remunerato.
Le politiche del governo da questo punto di vista hanno un andamento schizofrenico. Il Jobs act è molto generico sul punto, ma la bozza di uno dei decreti attuativi approvati il febbraio scorso affronta alcuni nodi cruciali: introduce maggiore flessibilità nei congedi genitoriali, allungandone il tempo di fruizione e consentendone l’utilizzo part time; rafforza le tutele nei confronti delle madri lavoratrici autonome; e introduce incentivi per le aziende che ricorrono al telelavoro nel caso di lavoratori con figli piccoli. Non sappiamo, tuttavia, quanto di questa bozza sarà trasformata in legge dal Parlamento e quanto sarà, nel caso fosse approvata, effettivamente utilizzabile dalle lavoratrici e lavoratori in un mercato del lavoro in cui, soprattutto i e le giovani, devono passare dalle forche caudine del contratto a tempo determinato rinnovabile fino a cinque volte in tre anni, per entrare poi in quelle del contratto a tutele crescenti che rende molto vulnerabili (perché poco costosi per il datore di lavoro in caso di licenziamento) proprio i primi anni. Sarebbe interessante, a questo proposito, sapere quanto siano rappresentate le donne nell’aumento recente dei contratti a tempo indeterminato.
Nel frattempo, il sistema dei servizi per la prima infanzia, dopo i tagli drastici di questi anni, rimane al palo, soprattutto dopo che il decreto, poi diventato disegno di legge, sulla “buona scuola” — che conteneva il definitivo inserimento di nidi e scuola per l’infanzia nel sistema scolastico nazionale come diritto di tutti i bambini e un organico scolastico a sostegno del tempo pieno — sembra essersi perso per strada e difficilmente potrà essere approvato in tempo per il nuovo anno scolastico. E dei servizi per le persone non autosufficienti non si parla proprio, lasciandoli alla responsabilità esclusiva delle famiglie, cioè spesso delle donne.

Il basso tasso di occupazione femminile è una delle cause dell’alta incidenza di povertà nelle famiglie in Italia. Per aumentarlo non si può contare solo sulla buona volontà delle donne. Occorrono politiche sia imprenditoriali sia pubbliche intelligenti e non di corto respiro.

Nessun commento: