Il
datoI DATI sull’occupazione di febbraio, con il lieve aumento della
disoccupazione e della perdita di occupazione, soprattutto femminile,
rispetto ai dati positivi di dicembre e gennaio, segnalano come siamo
ancora in una fase di forte instabilità, anche se entro una lieve
tendenza positiva.
SPECIE
per l’occupazione maschile che sembra aver arrestato la lunga e
consistente diminuzione. L’occupazione maschile, ricordiamolo, è
stata la più colpita dalla crisi, passando da un tasso del 70,2% nel
2008 al 64,7% nel 2014, laddove per le donne si è passati dal 47,3%
del 2008 al 46,8% del 2014.
Paradossalmente
la crisi ha prodotto una riduzione del gender gap nell’occupazione,
non tramite un aumento dell’occupazione femminile, ma a causa di
una forte riduzione dell’occupazione maschile. Mentre si è
ulteriormente allontanato l’obiettivo europeo del raggiungimento
del 70% di occupazione femminile, anche gli uomini sono scesi al di
sotto di quella percentuale e faticano a tornare ai, non altissimi,
livelli pre-crisi.
Quanto
alle donne, se hanno mantenuto meglio le proprie, pur svantaggiate,
posizioni in termini percentuali, ne hanno perse in termini di
sicurezza. È infatti aumentato molto il part time involontario, non
quello scelto come temporanea strategia di conciliazione tra
partecipazione al mercato del lavoro e responsabilità famigliari in
una società in cui la divisione del lavoro famigliare tra uomini e
donne rimane rigido e il sistema dei servizi insufficiente e spesso
costoso. È aumentato, cioè, il part time imposto dalle aziende,
specie nel terziario, come strumento di flessibilizzazione della
manodopera, a prescindere dai bisogni di questa, in termini vuoi di
reddito, vuoi di conciliazione. È aumentata anche la disoccupazione
femminile (di sette punti percentuali nell’ultimo anno, a fronte di
una diminuzione di oltre il 2% per gli uomini), perché più donne
oggi si presentano nel mercato del lavoro riducendo la percentuale
delle inattive. Non si tratta solo di giovani istruite, ma anche di
donne di mezza età a bassa qualifica e con carichi famigliari, che
un tempo si sarebbero dedicate solo alla famiglia ed oggi invece,
spesso per far fronte alla perdita o alla riduzione dei salari
maschili, sono alla ricerca di una occupazione.
Il
dato della perdita di occupazione femminile nel mese di febbraio,
quindi, non va letto come una chiara inversione di tendenza rispetto
ai miglioramenti degli ultimi mesi. Piuttosto è il segnale della
persistenza delle difficoltà che le donne incontrano a entrare e
rimanere nel mercato del lavoro. Difficoltà che hanno a che fare con
resistenze più o meno esplicite dei datori di lavoro, aggravate, se
non legittimate, dalle difficoltà a conciliare responsabilità
famigliari e lavoro remunerato.
Le
politiche del governo da questo punto di vista hanno un andamento
schizofrenico. Il Jobs act è molto generico sul punto, ma la bozza
di uno dei decreti attuativi approvati il febbraio scorso affronta
alcuni nodi cruciali: introduce maggiore flessibilità nei congedi
genitoriali, allungandone il tempo di fruizione e consentendone
l’utilizzo part time; rafforza le tutele nei confronti delle madri
lavoratrici autonome; e introduce incentivi per le aziende che
ricorrono al telelavoro nel caso di lavoratori con figli piccoli. Non
sappiamo, tuttavia, quanto di questa bozza sarà trasformata in legge
dal Parlamento e quanto sarà, nel caso fosse approvata,
effettivamente utilizzabile dalle lavoratrici e lavoratori in un
mercato del lavoro in cui, soprattutto i e le giovani, devono passare
dalle forche caudine del contratto a tempo determinato rinnovabile
fino a cinque volte in tre anni, per entrare poi in quelle del
contratto a tutele crescenti che rende molto vulnerabili (perché
poco costosi per il datore di lavoro in caso di licenziamento)
proprio i primi anni. Sarebbe interessante, a questo proposito,
sapere quanto siano rappresentate le donne nell’aumento recente dei
contratti a tempo indeterminato.
Nel
frattempo, il sistema dei servizi per la prima infanzia, dopo i tagli
drastici di questi anni, rimane al palo, soprattutto dopo che il
decreto, poi diventato disegno di legge, sulla “buona scuola” —
che conteneva il definitivo inserimento di nidi e scuola per
l’infanzia nel sistema scolastico nazionale come diritto di tutti i
bambini e un organico scolastico a sostegno del tempo pieno —
sembra essersi perso per strada e difficilmente potrà essere
approvato in tempo per il nuovo anno scolastico. E dei servizi per le
persone non autosufficienti non si parla proprio, lasciandoli alla
responsabilità esclusiva delle famiglie, cioè spesso delle donne.
Il
basso tasso di occupazione femminile è una delle cause dell’alta
incidenza di povertà nelle famiglie in Italia. Per aumentarlo non si
può contare solo sulla buona volontà delle donne. Occorrono
politiche sia imprenditoriali sia pubbliche intelligenti e non di
corto respiro.
Nessun commento:
Posta un commento