Donne conferenza
Pechino Pari opportunità e diritti delle donne nel mondo.
Empowerment femminile, cioè potere e responsabilità delle donne. A
che punto siamo vent’anni dopo la Conferenza dell’Onu di Pechino
del 1995, che ha segnato uno spartiacque con la sua Piattaforma
d’Azione, dodici aree di intervento dalla povertà all’educazione,
dalla salute, al lavoro, all’ambiente, alla violenza? Quanto hanno
effetto sulla realtà concreta prese di posizioni così importanti ma
anche così istituzionali? Come si riflettono sulle donne fenomeni
mondiali come la globalizzazione, la crisi economica, i
fondamentalismi, fortemente accentuati negli ultimi anni? Ne parliamo
con Marina Sangalli, counselor milanese, socia fondatrice e attivista
della Ong Graal Italia, di ritorno dall’assemblea di New York del
marzo scorso, dove si è svolta la riunione della Commission on the
Status of Women delle Nazioni Unite. Marina introdurrà, insieme a
Cesarina Damiani, il dibattito del 18 aprile a Milano, “20 anni
dopo Pechino. Le sfide per i movimenti delle donne oggi nel mondo”,
organizzato dal Gruppo Donne Internazionale della Casa delle Donne di
Milano.
Vent’anni sono
tanti o sono pochi?
Per una piattaforma
completa e visionaria come quella di Pechino, a distanza di 20 anni
gli obiettivi restano tutti. Naturalmente nessun Paese ha raggiunto
la parità di genere. E valutando anche i progressi, che pure ci sono
stati, di questo passo serviranno altri 80 anni; è necessario,
dunque, accelerare e, allo stesso tempo, lavorare a fondo per il
cambiamento culturale della società.
Quanto l’Onu può,
con le direttive sulla parità di genere, influire sulle realtà dei
singoli Paesi?
L’Onu è un
riferimento istituzionale importante, può definire obiettivi come i
Millennium goals e gli indicatori per i prossimi quindici anni, però,
com’è sotto gli occhi di tutti, non ha una capacità di pressione
adeguata perché i governi realizzino nei fatti questi obiettivi. La
sua mission è stabilire le direzioni, gli orientamenti condivisi, e
questa è una grande opportunità di dibattito a un livello
istituzionale molto alto. L’altra cosa che ha sempre fatto l’Onu,
da Eleanor Roosvelt in avanti, è muoversi su un doppio binario: da
una parte parlare con i governi; dall’altra aprire un canale con la
società civile che ha identificato nelle Ong e nelle associazioni
non profit con finalità di cambiamento sociale. Quindi dai governi
l’Onu si aspetta interventi sul quadro normativo, mentre lascia
alla società civile l’obiettivo di innescare il cambiamento
culturale. Puoi avere tutte le leggi che vuoi, ma se poi la società
non è pronta per applicarle, le leggi muoiono, non producono
cambiamento sociale.
Quanto allora le Ong
riescono a influenzare le politiche nazionali?Da quello che ho visto
negli ultimi appuntamenti internazionali, come la conferenza di
Ginevra del novembre 2014 e la Commissione di New York, è aumentata
molto la capacità delle ong di fare rete a livello internazionale e
quindi essere degli interlocutori affidabili e accreditati per l’Onu.
E di fare lobby e advocacy, quindi di raccogliere le esperienze di
base per farne istanza politica da portare in sede Onu. Facciamoci la
domanda su quanto siamo brave in Italia a fare questo. Posso citare
come esempio positivo Di. Re, donne in rete contro la violenza, che
erano presenti a Ginevra e si sono collegate con le organizzazioni
che si occupano di questo problema a livello europeo.
Quali sono i limiti
dell’impegno dell’Onu?Il principale è che non c’è un sistema
strutturato e vincolante per finanziare i progetti di cambiamento
culturale. L’Onu non può dire, per esempio: Dovete destinare una
quota del Pil a progetti di questo tipo. Tanto più in una fase come
quella attuale di crisi economica e finanziaria. Il tema del funding
è molto forte, e molte organizzazioni hanno l’obiettivo di
recuperare i finanziamenti. E qui entriamo in un ginepraio, perché
se i finanziamenti si recuperano dalle multinazionali o dalle
fondazioni bancarie, quale sarà il controllo perché il cambiamento
culturale vada in un certo senso piuttosto che in altro?
Tra leggi fatte o
non fatte dai governi e impegno culturale della società civile i
tempi sono lenti…
Non stupisce che un
vero cambiamento culturale richieda un secolo, ma questo non
significa che non si possa favorirlo e accelerarlo mettendo a
disposizione risorse adeguate. E queste arrivano quando il movimento
delle donne è forte, parla ad alta voce e continua a chiedere. Forse
è questo che, soprattutto in Europa, è rallentato negli ultimi
tempi. Un esempio interessante è quello dei Paesi nordici dove i
movimenti delle donne sono riusciti a elaborare una piattaforma e la
stanno portando avanti in maniera molto determinata nei confronti dei
loro governi. Sono curiosa di sentire la rappresentante della
Norvegia, un Paese che per molti anni ha avuto un presidente donna e
dove anche nell’attuale governo di destra le donne sono al 50 per
cento. Oggi le bimbe e le ragazze norvegesi, alla domanda cosa vuoi
fare da grande, rispondono “La presidente”, perché hanno avuto
un modello positivo per tanti anni nel loro Paese. Cosa che non
verrebbe da dire alle piccole italiane.
Eppure anche in
Italia con il governo Renzi siamo arrivati al 50 e 50, un obiettivo
simbolico, anche se ne restano fuori tanti altri.
Questo è l’aspetto
che più viene più evidenziato nell’ultimo rapporto ufficiale del
governo all’Onu. Effettivamente è un segnale, anche se guardando
quali sono i Ministeri importanti, possiamo fare una serie di
distinguo. E poi c’è l’assenza di un ministero delle Pari
Opportunità, che è rimasto solo come Dipartimento, in capo
direttamente alla Presidenza del Consiglio. Di fatto manca un
interlocutore importante per le associazioni delle donne e per i loro
progetti.
Dove affronta più
difficoltà la sua organizzazione, Graal, che opera in tutto il
mondo?
Nella Vecchia
Europa, proprio perché è vecchia. Qui si sono raggiunte alcune
condizioni di maggior “favore” rispetto alle donne africane o
latinoamericane e si fa fatica a mobilitare le nuove generazioni.
L’Africa per esempio è una realtà in grande movimento. La mia Ong
è molto presente in Sudafrica; dove le donne hanno partecipato al
movimento di liberazione e sono interlocutori importanti per le
istituzioni. Nel rapporto delle africane a New York c’è un livello
molto alto di elaborazione e di realizzazioni pratiche. Ho incontrato
donne che sono nella Banca di sviluppo africano, esponenti a livello
governativo, donne in posizioni di leadership molto importanti. Ho la
percezione che noi non riusciamo a vedere quello che succede in altre
parti del mondo.
Però in Africa
abbiamo visto situazioni di violentissimo attacco alle donne…
Certo. Nel
Nordafrica dopo le primavere arabe la situazione delle donne è
peggiorata. In Paesi come la Nigeria o il Kenya la stessa istruzione
superiore è una conquista a rischio della vita. Però la
mobilitazione è molto forte, forse proprio perché parte da
obiettivi di sopravvivenza.
E il
fondamentalismo?
Il fondamentalismo è
un problema dappertutto, in Africa, Sudamerica, Asia, anche da noi,
oramai. Ma proprio in quelle aree c’è molto fermento; le donne non
si lasciano fermare dal fondamentalismo.
Quali sono gli
effetti sulle donne della crisi economica?
La crisi economica,
come mette ben evidenza anche il rapporto delle Ong italiane, spinge
le donne a uscire e a restare fuori dal mercato del lavoro, a causa
della riduzione dei servizi sociali e della disparità tra donne e
uomini, per cui chi guadagna meno rinuncia al lavoro a favore
dell’equilibrio familiare. Questo vuol dire tornare a ruoli
tradizionali anche laddove c’è stata una maturazione culturale e
provoca maggiore sofferenza.
E la violenza contro
le donne?
Le statistiche in
Italia dicono che i casi di violenza sono in aumento, anche se non
sappiamo qual era la situazione prima delle statistiche. Negli anni
più recenti c’è stato un aumento, che si può legare a una
tensione sociale più forte, alla crisi economica o al fatto che più
le donne acquistano autonomia più creano delle paure e delle
resistenze. In questo senso c’è un forte appello a livello
mondiale perché il cambiamento culturale includa gli uomini.
Le donne producono i
due terzi del cibo del pianeta, ma questo dato sembra invisibile..
Le donne che
producono il cibo del pianeta sono quelle che hanno occupazioni
lavorative più basse, quelle che coltivano il campo intorno a casa
per dare da mangiare alla loro famiglia. E’ chiaro che se
diventassero consapevoli dei loro diritti – e giustamente si dice
‘Women rights are human rights’ – avrebbero una capacità di
pressione molto importante. A New York ho sentito dire che i mercati
emergenti, anche a livello finanziario, sono ‘la Cina, l’India e
le donne’. Ma che tipo di mercato vogliamo essere? Il mercato che
si adegua alle pressioni dell’economia globale o un mercato che
propone e chiede un’alternativa?
Un fenomeno che si è
accentuato in questi vent’anni soprattutto in Occidente è
l’invecchiamento della popolazione. Come si affronta questo trend?
C’è parecchio
dibattito anche nel mondo economico, perché ci sono sempre più
lavoratori anziani e sempre meno giovani nelle nelle aziende, e
ancora non si è ragionato su come organizzarsi. A livello sociale,
inoltre, la popolazione più anziana tende a impoverirsi, perché si
abbassano le tutele sociali, e tra la popolazione anziana che si
impoverisce le più colpite sono e saranno le donne.
Come mobilitare da
un lato i giovani e i maschi, dall’altro gli anziani e le anziane?
In alcuni paesi come
la Gran Bretagna ci sono organizzazioni che già si stanno occupando
del tema dell’invecchiamento. Per quello che riguarda il
coinvolgimento degli uomini e dei ragazzi ci sono molti progetti. Per
esempio, in Brasile, Indonesia, Ruanda e Sudafrica, c’è un
progetto finanziato per tre anni dal governo olandese e portato
avanti da una Ong per introdurre la cultura del caring, del prendersi
cura, tra i neopapà.
Qual è l’agenda
post 2015 dell’Onu?
Nel prossimo
settembre verranno emanati i nuovi obiettivi per il periodo
2015-2030. I movimenti delle donne lavorano perché tra questi sia
inserito anche un obiettivo specifico sulla parità di genere.
Ci sono dati e
statistiche “di genere” su cui appoggiare gli obiettivi?
A livello europeo
c’è un’esperienza molto avanzata, quella dell’European
Institute for Gender Equality www.eige.eu. Tutti i report dei governi
europei sono rielaborati, per quanto possibile, in modo da
evidenziare i risultati che riguardano le donne. A livello Onu è
stata lanciata una raccolta di dati sul rapporto tra genere e
cambiamenti ambientali (The global gender and environment outlook, in
sigla GGEO), sponsorizzata dal governo della Norvegia. Naturalmente
uno degli obiettivi, complesso e costoso, è che fin dall’origine i
dati siano raccolti e organizzati in un’ottica di genere.
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