Gentile Signora
Littizzetto,
ho letto con una
lieve sorpresa ciò che ha scritto sull’uso della lingua in
relazione ai mestieri e soprattutto alle professioni svolte - oh, ma
guarda! - anche dalle donne.
La sorpresa non sta
nel fatto che Lei abbia tentato di buttare sul comico l’intera
questione; per carità, rientra nel suo mestiere far questo.
Non nasce nemmeno
dal fatto che Lei sembrerebbe sconoscere non soltanto lo studio “Il
sessismo nella lingua italiana”, già da altri citato,
commissionato nel 1987 ad Alma Sabatini dalla Presidenza del
Consiglio dei Ministri (di cui, come saprà, non faceva parte
l’attuale Presidente della Camera Boldrini), ma anche le Linee
guida emanate dal Parlamento Europeo - testo del 19 maggio 2008 che
recitano a proposito del linguaggio:
“Utilizzare un
linguaggio neutro dal punto di vista del genere vuol dire evitare
l’uso di termini che, in quanto implichino la superiorità di un
sesso sull’altro, possono avere una connotazione di parzialità,
discriminazione o deminutio capitis, giacché, nella maggior parte
dei contesti, il sesso di appartenenza della persona interessata è o
dovrebbe essere irrilevante”.
Usare costantemente
il maschile come se il femminile non esistesse o non dovesse
esistere, invece, rende RILEVANTE L’APPARTENENZA A UN SESSO, a uno
solo, a quello reso dominante anche CON L’AUSILIO del linguaggio.
Cito ancora, dallo
stesso documento: «Utilizzare un linguaggio neutro dal punto di
vista del genere va ben oltre il concetto di “politicamente
corretto”. Il linguaggio di per sé, infatti, ha una fortissima
influenza sulla mentalità, il comportamento e le percezioni. Il
Parlamento in quanto istituzione sottoscrive pienamente il principio
dell’uguaglianza di genere e pertanto utilizza un linguaggio che
rifletta questa sua posizione».
Da lì una serie di
indicazioni concrete, per evitare la trappola del consueto e
fagocitante maschile, che invece la trova alleata.
Certamente
un’attrice comica non deve necessariamente sapere tutto ciò…
benché non sarebbe poi male se ne fosse informata.
Quel che ha
suscitato però la mia meraviglia sta altrove e cioè nella candida
disinvoltura con cui Lei ha scritto alcuni brani che riporto.
«Mi cascano un po’
le balle. Anzi rettifico. “I balli”. Perché “balle” è
femminile e invece gli amici di Maria sono quanto di più tipicamente
maschile mi venga in mente. Ma entrando nel merito. O nella merita.
Fa lo stesso». E ancora: «So che mi sono attirata le ire
dell’Accademia della Crusca. Che però per parità di genere
dovrebbe essere chiamata l’Accademia della crusca e del germe di
grano».
«E allora?», si
starà probabilmente chiedendo anche adesso, visto che domande non se
ne è poste quando ha scritto queste divertenti parole.
Allora, cara Luciana
nazionale, non le sorge il sospetto che accomunare nomi riferiti a
persone, come quelli indicanti mestieri e professioni, a nomi che
riferiti a persona non sono denoti in Lei una certa confusione a
livello di linguaggio e di logica?
Il gusto della
battuta è sacrosanto. Da quella molla nasce l’umorismo e non sarò
certo io a disconoscere il valore dell’ironia e del sarcasmo. A
patto, però, che non vi sia contraddizione patente (che non è il
ben noto pezzo di carta con bolli che consente a chi lo possiede di
guidare, ma un termine per indicare l’evidenza).
Ora, la crusca, il
germe di grano e le graminacee non hanno consapevolezza di genere,
non avendo capacità di pensiero. Le donne, invece, ne sono
perfettamente informate. Sanno di essere donne e non uomini, sanno di
volere - provo a usare le sue stesse parole - non l’annullamento ma
il rispetto delle differenze. «Io che sono donna voglio essere
rispettata perché sono DIVERSA da te, non UGUALE a te» ha
affermato. E se sono diversa, ne convenga, non sono “il ministro
che ha partorito” - sì, è stato scritto anche questo - ma LA
MINISTRA, che ha o non ha partorito, o che passa in rassegna i
militari.
Ecco, cara Luciana
nazionale, affinché la si smetta di cambiar le carte in tavola,
affinché la vergogna del sottopagamento delle donne per un lavoro e
del sovrapagamento degli uomini per lo stesso lavoro abbia termine,
non basta puntare i piedi sul lavoro: occorre cambiare anche, se non
in primo luogo, le menti.
Occorre dire: noi
siamo perché esistiamo. Io sono chirurga o avvocata (se lo sono) e
non ho bisogno di nascondermi o esser nascosta da altri dietro il
maschile, utilizzato ad arte come un universale - l’italiano non è
l’inglese, pare che se ne sia accorta anche Lei - per
“giustificare” il fatto che svolgo un’attività riservata in
passato, per storico sopruso, solo agli uomini. Io, donna, non ho
bisogno di entrare in punta di piedi sulla scena delle professioni
maschili mascherando la mia reale identità; non ne ho bisogno perché
quelle professioni mi appartengono e se sono state appannaggio
soltanto dell’altro sesso per secoli, ciò costituisce una colpa
che non riguarda me ma coloro che l’hanno commessa.
Il linguaggio, cara
Luciana, è importante. Il linguaggio definisce e conferisce identità
alle persone. Contano i nomi e contano i cognomi, conta il cognome
materno, non a caso occultato nella storia. Conta disoccultare ciò
che si vuole testardamente nascondere e che si continua a tentar di
celare ricorrendo alla derisione più vacua, che proprio in quanto
estremamente banale getta a caso un salvagente bucato a una
collocazione ormai perdente.
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