mercoledì 1 aprile 2015

ESERCIZI DI STILE SUL PENSIERO / Lettera aperta a Luciana Littizzetto di Iole Natoli

Gentile Signora Littizzetto,

ho letto con una lieve sorpresa ciò che ha scritto sull’uso della lingua in relazione ai mestieri e soprattutto alle professioni svolte - oh, ma guarda! - anche dalle donne.
La sorpresa non sta nel fatto che Lei abbia tentato di buttare sul comico l’intera questione; per carità, rientra nel suo mestiere far questo.
Non nasce nemmeno dal fatto che Lei sembrerebbe sconoscere non soltanto lo studio “Il sessismo nella lingua italiana”, già da altri citato, commissionato nel 1987 ad Alma Sabatini dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri (di cui, come saprà, non faceva parte l’attuale Presidente della Camera Boldrini), ma anche le Linee guida emanate dal Parlamento Europeo - testo del 19 maggio 2008 che recitano a proposito del linguaggio:
“Utilizzare un linguaggio neutro dal punto di vista del genere vuol dire evitare l’uso di termini che, in quanto implichino la superiorità di un sesso sull’altro, possono avere una connotazione di parzialità, discriminazione o deminutio capitis, giacché, nella maggior parte dei contesti, il sesso di appartenenza della persona interessata è o dovrebbe essere irrilevante”.
Usare costantemente il maschile come se il femminile non esistesse o non dovesse esistere, invece, rende RILEVANTE L’APPARTENENZA A UN SESSO, a uno solo, a quello reso dominante anche CON L’AUSILIO del linguaggio.
Cito ancora, dallo stesso documento: «Utilizzare un linguaggio neutro dal punto di vista del genere va ben oltre il concetto di “politicamente corretto”. Il linguaggio di per sé, infatti, ha una fortissima influenza sulla mentalità, il comportamento e le percezioni. Il Parlamento in quanto istituzione sottoscrive pienamente il principio dell’uguaglianza di genere e pertanto utilizza un linguaggio che rifletta questa sua posizione».
Da lì una serie di indicazioni concrete, per evitare la trappola del consueto e fagocitante maschile, che invece la trova alleata.
Certamente un’attrice comica non deve necessariamente sapere tutto ciò… benché non sarebbe poi male se ne fosse informata.
Quel che ha suscitato però la mia meraviglia sta altrove e cioè nella candida disinvoltura con cui Lei ha scritto alcuni brani che riporto.
«Mi cascano un po’ le balle. Anzi rettifico. “I balli”. Perché “balle” è femminile e invece gli amici di Maria sono quanto di più tipicamente maschile mi venga in mente. Ma entrando nel merito. O nella merita. Fa lo stesso». E ancora: «So che mi sono attirata le ire dell’Accademia della Crusca. Che però per parità di genere dovrebbe essere chiamata l’Accademia della crusca e del germe di grano».
«E allora?», si starà probabilmente chiedendo anche adesso, visto che domande non se ne è poste quando ha scritto queste divertenti parole.
Allora, cara Luciana nazionale, non le sorge il sospetto che accomunare nomi riferiti a persone, come quelli indicanti mestieri e professioni, a nomi che riferiti a persona non sono denoti in Lei una certa confusione a livello di linguaggio e di logica?
Il gusto della battuta è sacrosanto. Da quella molla nasce l’umorismo e non sarò certo io a disconoscere il valore dell’ironia e del sarcasmo. A patto, però, che non vi sia contraddizione patente (che non è il ben noto pezzo di carta con bolli che consente a chi lo possiede di guidare, ma un termine per indicare l’evidenza).
Ora, la crusca, il germe di grano e le graminacee non hanno consapevolezza di genere, non avendo capacità di pensiero. Le donne, invece, ne sono perfettamente informate. Sanno di essere donne e non uomini, sanno di volere - provo a usare le sue stesse parole - non l’annullamento ma il rispetto delle differenze. «Io che sono donna voglio essere rispettata perché sono DIVERSA da te, non UGUALE a te» ha affermato. E se sono diversa, ne convenga, non sono “il ministro che ha partorito” - sì, è stato scritto anche questo - ma LA MINISTRA, che ha o non ha partorito, o che passa in rassegna i militari.
Ecco, cara Luciana nazionale, affinché la si smetta di cambiar le carte in tavola, affinché la vergogna del sottopagamento delle donne per un lavoro e del sovrapagamento degli uomini per lo stesso lavoro abbia termine, non basta puntare i piedi sul lavoro: occorre cambiare anche, se non in primo luogo, le menti.
Occorre dire: noi siamo perché esistiamo. Io sono chirurga o avvocata (se lo sono) e non ho bisogno di nascondermi o esser nascosta da altri dietro il maschile, utilizzato ad arte come un universale - l’italiano non è l’inglese, pare che se ne sia accorta anche Lei - per “giustificare” il fatto che svolgo un’attività riservata in passato, per storico sopruso, solo agli uomini. Io, donna, non ho bisogno di entrare in punta di piedi sulla scena delle professioni maschili mascherando la mia reale identità; non ne ho bisogno perché quelle professioni mi appartengono e se sono state appannaggio soltanto dell’altro sesso per secoli, ciò costituisce una colpa che non riguarda me ma coloro che l’hanno commessa.
Il linguaggio, cara Luciana, è importante. Il linguaggio definisce e conferisce identità alle persone. Contano i nomi e contano i cognomi, conta il cognome materno, non a caso occultato nella storia. Conta disoccultare ciò che si vuole testardamente nascondere e che si continua a tentar di celare ricorrendo alla derisione più vacua, che proprio in quanto estremamente banale getta a caso un salvagente bucato a una collocazione ormai perdente.



Nessun commento: