Che
cosa succederebbe se tutti dicessero "no"? Mettiamo che
l'intera categoria dei ginecologi facesse obiezione di coscienza:
sarebbe ancora possibile per le donne interrompere la gravidanza in
Italia? Non siamo così lontani da questo scenario. Nel nostro Paese,
secondo il ministero della Salute, sono obiettori all'aborto sette
medici su dieci: dato già abbastanza curioso in un Paese dove solo
il 36,8 dei cittadini si dichiara "cattolico praticante"
(Eurispes 2006).
«Ma
in realtà i numeri veri sono ancora più alti, e di molto: quei dati
infatti considerano anche le cliniche convenzionate che ora non sono
più autorizzate a eseguire le interruzioni di gravidanza», spiega
Silvana Agatone, presidente della Laiga, l'associazione che riunisce
i ginecologi in difesa della 194, la legge a tutela sociale della
maternità e per l'interruzione volontaria di gravidanza.
«Gli
obiettori potrebbe essere verosimilmente il 90 per cento del totale».
Pochi, pochissimi medici in ogni caso. E se per le interruzioni di
gravidanza entro il terzo mese gli ospedali possono ricorrere a
personale esterno chiamato a "gettone", per le altre
servono medici "strutturati", ossia in organico. Sono
proprio questi gli interventi che rischiano di diventare sempre più
difficili. «Persino nelle grandi città ci sono strutture che hanno
solo uno o due ginecologi non obiettori», continua Agatone. A Roma,
ad esempio, nei 7 ospedali che eseguono aborti terapeutici, gli
"abortisti" sono in media 2. Al Secondo Policlinico di
Napoli, appena 3 su 60. «Cosa accadrà quando questi andranno in
pensione?».
Quello
che succederà è tutto da vedere. Fatto sta che già adesso ci sono
interi ospedali del Sud privi di reparti di interruzione di
gravidanza, perché la totalità di ginecologi, anestesisti e
paramedici ha scelto l'obiezione di coscienza. In alcune zone della
penisola la percentuale di obiettori tocca l'80 per cento, come in
Molise, Campania, Sicilia, Bolzano. In Basilicata si raggiunge
addirittura l'85,2 per cento. Una corsa all'obiezione che solo negli
ultimi anni sembra essersi stabilizzata dopo un'impennata a dir poco
vertiginosa: si è passati dal 58,7 per cento del 2005 al 70,7 per
cento del 2009; per gli anestesisti dal 45,7 per cento al 51,7 per
cento e per il personale non medico dal 38,6 per cento al 44,4 per
cento.
«C'è
una parte consistente di medici che obietta per motivi che con la
coscienza non hanno nulla a che fare», denuncia da tempo Carlo
Flamigni, ginecologo e membro del Comitato nazionale di Bioetica. Non
è facile trovarsi da soli a dire "sì" in un reparto di
obiettori, malvisti quando non vessati dai colleghi. La parte del Don
Chisciotte non si addice a tutti, soprattutto quando i mulini a vento
sono il tuo primario o il direttore dell'ospedale. E poi,
semplicemente, non si fa carriera, tutto il giorno in trincea a fare
aborti. Specie se i vertici dell'ospedale sono di nomina politica e
di area cattolica (o addirittura ciellina). E così qualcuno, per non
finire al confino, sceglie il "no". Gli altri 1.655,
intanto, solo nel 2009 si sono sobbarcati 118.579 interruzioni di
gravidanza. A farne le spese ovviamente sono le donne, che si
ritrovano meno medici a disposizione, liste di attesa più lunghe e
interventi non di rado fissati allo scadere del 90° giorno.
Che
non fili tutto liscio, lo accenna lo stesso ministero nella sua
ultima relazione al Parlamento: «Percentuali elevate di tempi di
attesa oltre le due settimane vanno valutate con attenzione a livello
regionale in quanto possono segnalare presenza di difficoltà
nell'applicazione della legge». Ebbene, ad aspettare oltre due
settimane è il 40 per cento delle donne. E, in alcuni casi, l'attesa
dura anche un mese e più. «Come conseguenza le donne spaventate
hanno ricominciato a prendere l'aereo per rivolgersi a strutture
estere, mentre qualche obiettore in ospedale ha tirato fuori dai
cassetti del suo studio privato gli strumenti per abortire»,
continua Flamigni. «Per non parlare dell'uso dei farmaci non legali,
del fiorire delle pillole abortive sul mercato nero e degli aborti
fai da te delle immigrate straniere». Insonna, torna l'incubo delle
mammane, quel fantasma combattuto ma mai del tutto sconfitto dalla
legge 194. Le ultime stime disponibili, parziali e riferite solo alle
italiane, risalgono al 2005: 15 mila aborti clandestini, la maggior
nell'Italia meridionale. Da allora non se ne sa più nulla. Sul fatto
che l'obiezione di coscienza così allargata stia, nei fatti,
svuotando di contenuti la 194, non sono però tutti d'accordo: «Non
credo proprio che l'aborto sia ostacolato dalla presenza di
obiettori. E poi non esiste alcun diritto di aborto, esiste invece un
diritto alla vita e un diritto all'obiezione di coscienza. Le tre
cose stanno su un piano diverso: prima viene il diritto alla vita,
poi all'obiezione, quindi, in ultimo, la possibilità per la donna di
abortire», ribatte Carlo Casini, presidente del Movimento per la
Vita e deputato europeo.
C'è
anche chi fa notare «ben altre mancanze» del servizio pubblico,
come la dottoressa Paola Bonzi, dal 1984 alla guida del Centro di
aiuto alla vita, il consultorio privato all'interno della
Mangiagalli, la più grande "maternità" di Milano:
«L'articolo 5 della legge prevede che gli enti pubblici mettano in
campo tutti gli aiuti affinché le persone rinuncino ad abortire.
Invece le donne si trovano da sole, prima e dopo. L'ospedale, ad
esempio, non ce ne invia nessuna, le donne arrivano da noi con il
passaparola. C'è una gravissima mancanza del servizio pubblico
nell'offrire sostegno alle donne». Che sia dunque tempo di
modificare la 194? «Di sicuro è necessario organizzare l'assistenza
sanitaria in modo da garantire che la legge venga rispettata su tutto
il territorio nazionale», dice Ignazio Marino, che è anche
presidente della Commissione parlamentare di inchiesta
sull'efficienza del Servizio sanitario nazionale: «Chi ha compiti
istituzionali, come il direttore generale di un ospedale, ha il
dovere di disporre del personale sufficiente per eseguire le
interruzioni di gravidanza. E lo deve fare anche programmando le
assunzioni».
Qualcuno
ci ha provato con un bando per i consultori regionali, in un
territorio che conta il 79,4 per cento di medici obiettori. Ma non è
andata a finire bene. Quel qualcuno è Nichi Vendola e la delibera
della giunta pugliese che prevedeva «il progressivo riposizionamento
del personale sanitario che solleva obiezione di coscienza» è stata
subito impugnata davanti al tribunale amministrativo. Ricorso
accolto, il Tar ha giudicato la clausola discriminatoria ed
«espulsiva», quindi lesiva dei diritti degli obiettori e del
principio di uguaglianza.
La
questione è ingarbugliata, come sottolinea Chiara Lalli nel suo
libro "C'è chi dice no" (il Saggiatore), «perché
l'articolo 9 della 194 non entra nei dettagli di come gestire sia la
possibilità di fare obiezione sia la possibilità per la donna di
abortire». Se, infatti, il singolo medico può rifiutarsi di
praticare l'aborto, la struttura sanitaria è in ogni caso obbligata
a garantire il servizio. Ma in che modo, non è chiaro. «Stiamo
studiando i casi per sollevare la questione di legittimità della
legge di fronte alla Corte costituzionale», spiega Marilisa D'Amico,
docente di Diritto costituzionale all'Università Statale di Milano,
«bisogna agire non negando l'obiezione di coscienza, che è un
diritto fondamentale, ma modificando l'articolo 9 perché imponga
agli ospedali l'onere di dotarsi del personale non obiettore
necessario per l'effettiva attuazione della 194». Magari nel
rispetto di quella parola che il testo della legge ripete per ben
quattro volte: dignità.
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