Questo
post nasce dall’esigenza di porre qualche domanda. Tutto nasce
dall’ennesima manifestazione dei movimenti No-Choice a Milano, dal
titolo “NO194 per l’abrogazione referendaria della legge 194″
(qui). Per l’ennesima volta, in occasione di questo corteo che
sfilerà per la città, si sono organizzati I sentinelli per una
contro-manifestazione. Io li ringrazio per il loro sostegno alla
causa in difesa della 194, ma questa è anche l’occasione per fare
qualche riflessione. Non che manchino le mobilitazioni e i progetti
di donne per le donne, penso ad esempio a Consultoria Autogestita, ma
manca un respiro più ampio, che sappia abbracciare un gran numero di
persone, che sappia fare informazione, approfondimento, insomma
diffusione di consapevolezza tra le donne. Non mi aspetto i grandi
numeri, ma almeno che si incominci a recuperare una progettualità
comune, a piccoli passi, tornando a rioccuparci delle nostre
questioni, in modo più assiduo e meno frammentario.
Mi
chiedo, a quando una mobilitazione delle donne sui diritti delle
donne?
Io questa mancanza la sento. Non so voi, ma mi sento orfana.
Orfana perché non c’è una rete di riferimento tra donne, ognuna
sembra rintanata nella propria dimensione personale, reale o
virtuale, estesa al massimo alla cerchia delle proprie amicizie.
Orfana perché ultimamente ho chiesto a una politica del mio partito,
che siede in direzione nazionale, di organizzare iniziative
sistematiche e periodiche sulla 194 e sul macigno dei numeri
dell’obiezione di coscienza. Risposta: “le abbiamo fatte”, ma
tutto sommato non servono, quindi sembrerebbe un approccio da
abbandonare. Quindi il silenzio è la soluzione?! Ricordo che la 194
è stata sostenuta anche da una base esterna, donne che hanno
appoggiato la legge, che si sono fatte sentire. Forse non è più
tempo di mobilitazioni? Dobbiamo seguire un iter istituzionale e
sperare che questo vada a buon fine? Non sarebbe il caso di farci
sentire comunque, a cadenze periodiche, e magari attivarci perché
quella volontà politica che al momento manca (così si dice, ho
l’impressione che a volte sia un alibi) si crei? Personalmente non
ci sto ad assumere una posizione rinunciataria. Le cose si cambiano
insieme, se vogliamo investire in sinergie positive e fruttuose.
Altrimenti sono solo chiacchiere. Io e altre ci siamo e siamo a
disposizione. I No-choice scelgono di organizzarsi e noi ci
frammentiamo e ci disperdiamo? Siamo così certe che la nostra
società attuale abbia anticorpi a sufficienza per bocciare la loro
campagna referendaria abrogativa della 194? Oppure possiamo e
dobbiamo sensibilizzare le donne che poco sanno fino a che non vivono
sulla propria pelle i risultati di anni di disinvestimento nei
consultori pubblici e laici, di obiezioni di struttura e di strane
linee guida divergenti (vedi l’obbligo di prescrizione per la
pillola del giorno dopo e non per quella dei 5 giorni dopo)? Dobbiamo
tornare a curare l’aspetto comunitario, superare le grida e gli
slogan, superare i messaggi e gli annunci da campagna elettorale
perenne, dobbiamo tornare ad occuparci della sostanza, della
riflessione, che non può essere ridotta alla mera piazza virtuale.
Il Web serve a collegare velocemente le persone, ma per affrontare la
complessità occorre qualcos’altro. Dobbiamo tornare a guardarci in
faccia, riunirci periodicamente e invitare tutte a sentirsi parte del
progetto. Non è stato fatto tutto e anche se così fosse, oggi
potremmo perderlo di nuovo, anzi qualche diritto è già incrinato.
Dobbiamo tornare ad essere “scomode”, come ho più volte detto.
Scomode significa porre domande nuove, complesse, critiche, restare
lì senza mollare, pretendere risposte serie e non pannicelli caldi.
Significa essere intrecciate tra di noi, sì donne originali, ognuna
con la propria personalità e individualità, ma capaci di un
discorso unitario che amplifichi le istanze di ognuna, e renda
significativa la nostra voce. Non significa ammazzare la molteplicità
dei femminismi di oggi, semplicemente occorre recuperare una capacità
di incidere sulla politica, facendo politica, occupando gli spazi
pubblici o privati, riempendoli della nostra prospettiva, altrimenti
quello spazio sarà vuoto o mancherà del nostro sguardo sulle cose e
sui temi che più ci coinvolgono. Manca una voce ferma e presente,
capace di mobilitarsi costantemente e che non venga ingurgitata da un
certo modo di far politica per annunci e offerte imbellettate. Perché
non costruire proposte strutturate per una società e un’economia a
misura anche di donne? Non ci ascolta nessuno perché siamo disperse.
Non ci siamo. Non siamo riconoscibili come interlocutrici, non siamo
in grado di incidere sulla politica istituzionale perché per prima
cosa rifuggiamo dal tessere un dialogo costruttivo tra di noi.
Piuttosto alcune di noi preferiscono abbracciare una collaborazione
con gli uomini, a volte altamente pericolosa e difficile da gestire
senza ricadere in pratiche vecchie di secoli. Di cosa abbiamo timore,
di non farcela, che il lavoro tra donne sia inutile e improduttivo?
Abbiamo paura di sembrare fuori dal mondo, quel mondo dipinto a
immagine e somiglianza maschile? La soluzione non è partecipare ai
tavoli intellettualoidi politici, entrare nelle maglie della politica
istituzionale appuntandosi sulla giacca l’etichetta femminismo,
questo è veramente un gioco sporco se lo si fa per puro opportunismo
e si è disposti a dimenticarsene una volta raggiunto l’obiettivo
personale. Questo non è femminismo, è semplicemente
strumentalizzare una galassia di movimenti a fini personali.
Cerchiamo di non cadere nella trappola.
Ultimamente
ho la sensazione che anche l’attivismo sia diventato un prodotto
commerciale come un altro. L’esserci come campagna pubblicitaria
del sé, per cui è importante apparire, comparire con il proprio
volto, con il proprio nome ecc. L’attivismo per gonfiare il proprio
ego e giustificare il proprio vuoto di idee. L’attivismo e la
partecipazione personale come etichette di un grande mercato in cui
anche gli ideali sono merce, business, ingurgitati da una macchina
propagandistica e autoreferenziale. L’esserci non per convinzione e
impegno personali per una causa, ma finalizzato a una affermazione
del sé e come garanzia di un trampolino, perché no, anche
professionale. Vi risulta? Tutto fa brodo, e il femminismo non è
immune da questi personaggi. Purtroppo.
Abbiamo
un futuro solo se comprendiamo la necessità di tornare a noi come
comunità, perché come singole rischiamo di essere assorbite da
fenomeni molto pericolosi. Non dobbiamo permettere che altri parlino
per noi.
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