mercoledì 24 settembre 2014

I talenti delle donne: solo un valore aggiunto? di Lea Melandri


L’intervista, strumento abituale della ricerca sociologica, quando le interlocutrici sono donne riserva sempre delle sorprese. I cambiamenti profondi, che negli ultimi due secoli hanno interessato la condizione femminile – dall’ingresso nella sfera pubblica alla presa di coscienza del rapporto di potere tra i sessi-, si traducono in un racconto di sé che si muove nelle direzioni più diverse: dai legami più intimi ai problemi lavorativi e alle contraddizioni che si accompagnano all’assunzione di responsabilità dentro e fuori l’ambito famigliare. In un’epoca in cui sembra scomparsa la spinta a confrontare esperienze, a dare al vissuto del singolo una dimensione collettiva, le testimonianze su “Donne e Leadership” raccolte dall’Istituto di ricerche sociali Aaster di Milano per conto di Unicredit, nella rilettura che ne fa Anna Simone nel suo libro I talenti delle donne. L’intelligenza femminile al lavoro (Einaudi 2014) restituiscono sia pure in modo frammentario i percorsi che la riflessione femminile ha conosciuto nei gruppi di autocoscienza.
Pur trattandosi di voci “privilegiate”, “donne piene di talento e di passione per quello che fanno”, per il fatto stesso di appartenere ad ambiti diversi, permettono –come scrive l’autrice nell’Introduzione- di “comprendere il ‘passaggio’ di fase sociale, politico ed economico, che le donne e i discorsi sulle donne stanno attraversando nel paese (…) Non si tratta più solo di contraddizioni legate alle vecchie, tanto quanto dure a morire, abitudini basate sull’esclusione delle donne dalla sfera pubblica (il patriarcato), quanto di contraddizioni segnate dall’inclusione o dalle modalità, dagli strumenti che la determinano (il paternalismo).” Le conseguenze a cui va incontro l’integrazione delle donne in un ordine sociale che non viene messo in discussione nelle sue strutture portanti, nate sulla divisione sessuale del lavoro, erano già state lucidamente descritte dal femminismo ai suoi inizi. Nel “Manifesto programmatico del gruppo Demau” (1966) si leggeva:
Integrazione significa immettere la donna nella società così com’è, cioè una società di tradizione decisionale maschile, con degli accorgimenti che, non eliminando per questo l’inconciliabilità di due ruoli prefissati, ne permettono la coesistenza nelle sole donne. Per la donna integrazione non può voler dire conquista di una propria libertà a e autonomia poiché la obbliga a trovare un compromesso tra due sfere definite finora in modo nettamente separazionistico, e, poiché mai valutate intercambiabilmente, contro la donna stessa in quanto ad essa sola compete una di esse tutta intera.
La novità è che oggi -come rileva Anna Simone- accanto alle battaglie per la parità di genere, uguaglianza nei diritti e nei ruoli decisionali, l’emancipazione è andata assumendo forme impreviste: da un lato, la valorizzazione della diverstity -Fattore D, doti, talenti femminili riconosciuti come risorsa per l’economia e la politica proprio in virtù della loro “differenza”-, dall’altro la “neo oggettivazione del corpo femminile” come corpo erotico. In sostanza: “da un lato le donne oggetto del desiderio; dall’altra le donne incluse perché utili all’aumento del Pil”. Il movimento di liberazione delle donne -nato negli anni ’70 e ancora presente con le sue associazioni, la sua produzione di pensiero e di pratiche politiche- aveva posto al centro l’analisi del corpo, della sessualità e dell’immaginario su cui si sono costruite le identità e le differenziazioni di genere, muovendo dall’idea che si trattasse di venire lentamente a capo di complicità inconsapevoli con la propria oppressione. La libertà per le donne sembra oggi ispirarsi invece a una sorta di rivalsa, o capovolgimento delle parti: vengono impugnate attivamente e volte a proprio vantaggio quelle che sono state per secoli le ragioni del loro confinamento nella natura e nell’insignificanza storica, cioè la seduttività dei loro corpi e le doti materne (cura, amore, sensibilità).
Dell’inclusione delle donne e della valorizzazione di doti, “talenti” ritenuti complementari sulla base della differenziazione tra i sessi che abbiamo ereditato, hanno bisogno oggi la crisi che il maschile sta attraversando, come valore dominante, e la società che vi si è costruita sopra, svincolata dalle necessità primarie della conservazione della vita. Siamo dunque di fronte a un modello di mutamento sociale in cui –come scrive Anna Simone- “ le donne sono numericamente più consistenti senza avere la possibilità di apportare un loro specifico in grado di cambiare alla radice l’organizzazione della società e del potere. In sintesi, fare carriera equivale spesso ad accettare un modello maschile e patriarcale del lavoro, della società e della politica, nonché un modello di società ‘prestazionale’”. La conferma viene da molte delle donne intervistate:
La bravura non conta. Una può essere bravissima ma non conta nulla, quello che conta è giocare nello stesso modo in cui gioca il maschile, quindi scendere agli stessi compromessi. Per cui il problema è culturale (…) Siccome il sistema è maschile, le donne non riescono a farne parte, se non per motivi specifici che sono funzionali al mantenimento del potere, di ‘quel’potere. (Loretta Napoleoni)
Si usano le caratteristiche del modello maschile che non mettono in discussione le nostre vite. E’ questo il nodo. Ci si chiede di essere scisse (…) Il lavoro femminile entrato nel mercato è diventato lavoro povero. Anche questo conferma che esiste il pregiudizio di de valorizzazione. (Susanna Camusso)
Il potere ha caratteristiche soprattutto maschili: l’urlo, l’arroganza, il battere i pugni sul tavolo, nel sindacato accade e io, anche se ci provassi, non mi sentirei nei miei panni (…) Dopodiché molte donne si comportano come gli uomini. Usano quei metodi per autodeterminarsi. Credo, però, che accada solo perché a volte la prevaricazione nei confronti delle donne è talmente elevata da dover rispondere allo stesso modo. (Roberta Turi, segreteria nazionale Fiom)
Il problema di fondo è che sulle donne, a prescindere dai mutamenti sociali, cade la responsabilità maggiore della cura dei figli, della famiglia e della casa. Come si rileva da un rapporto recente di Manager-Italia, “alle donne viene ancora attribuita l’esclusiva sulla gestione della casa (77%), sui consumi e sugli acquisti (55%), sui rapporto coi figli (50%). Il lavoro domestico, in altre parole, è ancora appannaggio delle donne e solo delle donne.” Il rapporto è del 6 marzo 2013. Dunque –è la considerazione di Anna Simone- “una vita da equilibriste, vissuta in solitudine”, nello sforzo sempre meno sostenibile di una “conciliazione” vista ancora come problema femminile. Nonostante le delusioni a cui finora è andata incontro, l’emancipazione sembra aver bisogno oggi solo di un potere maschile meno conservatore, aziende disposte ad alleviare la fatica delle donne attraverso una maggiore flessibilità nella concessione di part-time e congedi parentali, affinché siano più produttive.
“Oggi si include più per retorica politically correct che non per reale attribuzione di senso e valore (…) In questo caso dovremmo parlare più di paternalismo che di patriarcato classicamente inteso (…) Oggi dobbiamo pensare le donne solo come un valore aggiunto utile alla crescita del paese?” Ma ci sono altri interrogativi che dovremmo porci: quanto le donne, forzatamente o meno, consapevolmente o meno, siano ancora legate al potere che viene loro dal rendersi indispensabili nella cura dei figli e dei famigliari, convinte che tale compito appartenga alla loro ‘natura’ materna, anziché essere responsabilità comune di uomini e donne; e, inoltre, perché, nonostante gli evidenti spostamenti di confine tra privato e pubblico, sia ancora così difficile mettere a tema la divisione sessuale del lavoro e il modello di sviluppo , oggi in crisi evidente di sostenibilità, che vi si è costruito sopra.


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