L’intervista,
strumento abituale della ricerca sociologica, quando le
interlocutrici sono donne riserva sempre delle sorprese. I
cambiamenti profondi, che negli ultimi due secoli hanno interessato
la condizione femminile – dall’ingresso nella sfera pubblica alla
presa di coscienza del rapporto di potere tra i sessi-, si traducono
in un racconto di sé che si muove nelle direzioni più diverse: dai
legami più intimi ai problemi lavorativi e alle contraddizioni che
si accompagnano all’assunzione di responsabilità dentro e fuori
l’ambito famigliare. In un’epoca in cui sembra scomparsa la
spinta a confrontare esperienze, a dare al vissuto del singolo una
dimensione collettiva, le testimonianze su “Donne e Leadership”
raccolte dall’Istituto di ricerche sociali Aaster di Milano per
conto di Unicredit, nella rilettura che ne fa Anna Simone nel suo
libro I talenti delle donne. L’intelligenza femminile al lavoro
(Einaudi 2014) restituiscono sia pure in modo frammentario i percorsi
che la riflessione femminile ha conosciuto nei gruppi di
autocoscienza.
Pur
trattandosi di voci “privilegiate”, “donne piene di talento e
di passione per quello che fanno”, per il fatto stesso di
appartenere ad ambiti diversi, permettono –come scrive l’autrice
nell’Introduzione- di “comprendere il ‘passaggio’ di fase
sociale, politico ed economico, che le donne e i discorsi sulle donne
stanno attraversando nel paese (…) Non si tratta più solo di
contraddizioni legate alle vecchie, tanto quanto dure a morire,
abitudini basate sull’esclusione delle donne dalla sfera pubblica
(il patriarcato), quanto di contraddizioni segnate dall’inclusione
o dalle modalità, dagli strumenti che la determinano (il
paternalismo).” Le conseguenze a cui va incontro l’integrazione
delle donne in un ordine sociale che non viene messo in discussione
nelle sue strutture portanti, nate sulla divisione sessuale del
lavoro, erano già state lucidamente descritte dal femminismo ai suoi
inizi. Nel “Manifesto programmatico del gruppo Demau” (1966) si
leggeva:
Integrazione
significa immettere la donna nella società così com’è, cioè una
società di tradizione decisionale maschile, con degli accorgimenti
che, non eliminando per questo l’inconciliabilità di due ruoli
prefissati, ne permettono la coesistenza nelle sole donne. Per la
donna integrazione non può voler dire conquista di una propria
libertà a e autonomia poiché la obbliga a trovare un compromesso
tra due sfere definite finora in modo nettamente separazionistico, e,
poiché mai valutate intercambiabilmente, contro la donna stessa in
quanto ad essa sola compete una di esse tutta intera.
La
novità è che oggi -come rileva Anna Simone- accanto alle battaglie
per la parità di genere, uguaglianza nei diritti e nei ruoli
decisionali, l’emancipazione è andata assumendo forme impreviste:
da un lato, la valorizzazione della diverstity -Fattore D, doti,
talenti femminili riconosciuti come risorsa per l’economia e la
politica proprio in virtù della loro “differenza”-, dall’altro
la “neo oggettivazione del corpo femminile” come corpo erotico.
In sostanza: “da un lato le donne oggetto del desiderio; dall’altra
le donne incluse perché utili all’aumento del Pil”. Il movimento
di liberazione delle donne -nato negli anni ’70 e ancora presente
con le sue associazioni, la sua produzione di pensiero e di pratiche
politiche- aveva posto al centro l’analisi del corpo, della
sessualità e dell’immaginario su cui si sono costruite le identità
e le differenziazioni di genere, muovendo dall’idea che si
trattasse di venire lentamente a capo di complicità inconsapevoli
con la propria oppressione. La libertà per le donne sembra oggi
ispirarsi invece a una sorta di rivalsa, o capovolgimento delle
parti: vengono impugnate attivamente e volte a proprio vantaggio
quelle che sono state per secoli le ragioni del loro confinamento
nella natura e nell’insignificanza storica, cioè la seduttività
dei loro corpi e le doti materne (cura, amore, sensibilità).
Dell’inclusione
delle donne e della valorizzazione di doti, “talenti” ritenuti
complementari sulla base della differenziazione tra i sessi che
abbiamo ereditato, hanno bisogno oggi la crisi che il maschile sta
attraversando, come valore dominante, e la società che vi si è
costruita sopra, svincolata dalle necessità primarie della
conservazione della vita. Siamo dunque di fronte a un modello di
mutamento sociale in cui –come scrive Anna Simone- “ le donne
sono numericamente più consistenti senza avere la possibilità di
apportare un loro specifico in grado di cambiare alla radice
l’organizzazione della società e del potere. In sintesi, fare
carriera equivale spesso ad accettare un modello maschile e
patriarcale del lavoro, della società e della politica, nonché un
modello di società ‘prestazionale’”. La conferma viene da
molte delle donne intervistate:
La
bravura non conta. Una può essere bravissima ma non conta nulla,
quello che conta è giocare nello stesso modo in cui gioca il
maschile, quindi scendere agli stessi compromessi. Per cui il
problema è culturale (…) Siccome il sistema è maschile, le donne
non riescono a farne parte, se non per motivi specifici che sono
funzionali al mantenimento del potere, di ‘quel’potere. (Loretta
Napoleoni)
Si
usano le caratteristiche del modello maschile che non mettono in
discussione le nostre vite. E’ questo il nodo. Ci si chiede di
essere scisse (…) Il lavoro femminile entrato nel mercato è
diventato lavoro povero. Anche questo conferma che esiste il
pregiudizio di de valorizzazione. (Susanna Camusso)
Il
potere ha caratteristiche soprattutto maschili: l’urlo,
l’arroganza, il battere i pugni sul tavolo, nel sindacato accade e
io, anche se ci provassi, non mi sentirei nei miei panni (…)
Dopodiché molte donne si comportano come gli uomini. Usano quei
metodi per autodeterminarsi. Credo, però, che accada solo perché a
volte la prevaricazione nei confronti delle donne è talmente elevata
da dover rispondere allo stesso modo. (Roberta Turi, segreteria
nazionale Fiom)
Il
problema di fondo è che sulle donne, a prescindere dai mutamenti
sociali, cade la responsabilità maggiore della cura dei figli, della
famiglia e della casa. Come si rileva da un rapporto recente di
Manager-Italia, “alle donne viene ancora attribuita l’esclusiva
sulla gestione della casa (77%), sui consumi e sugli acquisti (55%),
sui rapporto coi figli (50%). Il lavoro domestico, in altre parole, è
ancora appannaggio delle donne e solo delle donne.” Il rapporto è
del 6 marzo 2013. Dunque –è la considerazione di Anna Simone- “una
vita da equilibriste, vissuta in solitudine”, nello sforzo sempre
meno sostenibile di una “conciliazione” vista ancora come
problema femminile. Nonostante le delusioni a cui finora è andata
incontro, l’emancipazione sembra aver bisogno oggi solo di un
potere maschile meno conservatore, aziende disposte ad alleviare la
fatica delle donne attraverso una maggiore flessibilità nella
concessione di part-time e congedi parentali, affinché siano più
produttive.
“Oggi
si include più per retorica politically correct che non per reale
attribuzione di senso e valore (…) In questo caso dovremmo parlare
più di paternalismo che di patriarcato classicamente inteso (…)
Oggi dobbiamo pensare le donne solo come un valore aggiunto utile
alla crescita del paese?” Ma ci sono altri interrogativi che
dovremmo porci: quanto le donne, forzatamente o meno, consapevolmente
o meno, siano ancora legate al potere che viene loro dal rendersi
indispensabili nella cura dei figli e dei famigliari, convinte che
tale compito appartenga alla loro ‘natura’ materna, anziché
essere responsabilità comune di uomini e donne; e, inoltre, perché,
nonostante gli evidenti spostamenti di confine tra privato e
pubblico, sia ancora così difficile mettere a tema la divisione
sessuale del lavoro e il modello di sviluppo , oggi in crisi evidente
di sostenibilità, che vi si è costruito sopra.
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