Che
difficile parlare della differenza femminile, c’è sempre il
rischio di cadere negli stereotipi e di supportare culture ostili
alle donne.
Nonostante
tutto, se ne parla ed è bene, perché gli uomini fanno fatica ad
ammettere la differenza maschile e insistono a presentarsi come
modello unico di umanità, anche nella trasformazione dell’esistente.
Succede di conseguenza che le donne siano misurate e si misurino loro
stesse con un metro non fedele a loro e per giunta difettoso di suo.
Oggi questo rischio è diventato più grande del primo, tanto che
alcune si sono dette (semplifico): siamo inadeguate? meglio essere
inadeguate che brutte copie degli uomini.
Nel
giugno scorso Internazionale ha pubblicato un lungo articolo di
provenienza Usa (The Atlantic) sulla scarsa fiducia che le donne
hanno in sé stesse per cui, pur essendo tanto brave, restano
indietro nelle carriere. L’articolo era “americano” nel senso
peggiore, tanto nell’analisi del problema quanto nelle ricette, e
ci sono state proteste di lettrici, in Italia come altrove, America
compresa. Nessuna però ha negato che un problema esista e la
discussione è continuata. E ha ritrovato spontaneamente i suoi
termini femministi originari: siamo combattute tra voglia di vincere
e paura di fallire. Trovo questa ripresa sorprendente e positiva,
spiegherò il perché.
“La
paura di fallire che blocca molti talenti femminili su posizioni di
retroguardia va affrontata a viso aperto”, ha affermato
recentemente Jessica Bacal. Viene citata in un articolo firmato da
Maria Luisa Agnese e Daniela Monti (Corriere della sera, 26.8.2014)
che già nel lungo titolo è tutto un programma: Il coraggio di
rispondere “non so”. L’insicurezza (buona) delle donne. Siamo
portate a dubitare, anche di noi stesse. E se fosse una possibile
risorsa? Tutto sul filo del rasoio.
Voglia
di vincere, paura di fallire, diceva il Sottosopra verde intitolato
Più donne che uomini, che risale al 1983, un testo di grande
risonanza anche all’estero, soprattutto in Germania. Non finisce
qui. Anche la risposta che dava il Sottosopra risuona, con parole
diverse, nella risposta di oggi.
Nell’articolo
del Corriere Maria Luisa e Daniela presentano il caso esemplare di
Teresa B., laureata della Bocconi che, nel suo primo stage di lavoro
a Londra, ritrova una nuova fiducia in sé facendo riferimento a
donne che si sono affermate grazie alle loro qualità. E così lo
commentano: “Ridurre tutto all’individuo, alle insicurezze che
ciascuna si porta dentro, è dunque un errore di prospettiva. Perché,
come dimostra il racconto di Teresa, l’autostima personale può di
più se poggia su un’autostima di genere, come un nano sulle spalle
di un gigante”.
Il
Sottosopra fu scritto che la ventiseienne Teresa B. non era ancora
nata e le autrici dell’articolo probabilmente erano bambine, ma nel
Sottosopra la loro scoperta si trova esattamente anticipata e poi
articolata nella proposta di un nuovo tipo di relazione tra donne,
quella di fare affidamento, presentata come una pratica per uscire
dalla stretta fra voglia di vincere e paura di fallire, e andare nel
mondo senza fare torto alle proprie qualità.
La
coincidenza è evidente così com’è evidente che le parole usate
sono molto diverse tra loro. Da dove venga tanta diversità, può
sembrare una questione secondaria ma attenzione che è collegata a
una questione più grande, quella della frequente cancellazione (o
meglio: obliterazione, che vuol dire: rendere illeggibile) delle idee
giuste nel corso della storia, un fenomeno che colpisce specialmente
la storia politica delle donne. (Non sono la prima a interrogarmi in
proposito, lo ha fatto ben prima di me Simone Weil per la civiltà
occitanica.)
Le
formule, “pratica di relazione e di affidamento”, da una parte,
“autostima di genere” dall’altra, rispecchiano una difformità
di percorsi mentali e politici che il cambio generazionale non basta
da solo a spiegare. Tanto più che si tratta di idee che si formano
in circostanze e contesti simili, concepite da persone che parlano la
stessa lingua. Tra il linguaggio del 1983 e quello del 2014 non c’è
un rapporto di sviluppo del tipo che può accompagnarsi al passaggio
di un’eredità, pacifico o conflittuale che sia. A me pare una
discontinuità allo stato puro, che risalta tanto più che le parole
tendono a coincidere nella sostanza di quello che vogliono dire.
Nascono
delle domande. Che cosa è capitato tra oggi e i primi anni Ottanta
del secolo scorso che spieghi la discontinuità?
Rispondo
con un’ipotesi dettata dalla storia più nota e risaputa: è
capitata la caduta del muro di Berlino (1989) con tutto quello che ha
voluto dire, in primis il trionfo dell’economia capitalistica di
mercato e l’egemonia mondiale degli Usa, che diventano l’orizzonte
ideologico globale, l’unico presente alle nuove generazioni.
Tramonta così il comunismo portandosi dietro la sua vasta e varia
costellazione di entità politiche, economiche e ideali che ne
avevano fatto la storia per cento e passa anni.
Il
femminismo che conosciamo oggi come femminismo radicale, nasce negli
anni Sessanta insieme ad altri movimenti giovanili rivoluzionari.
Nasce, come noto, in posizione di rottura rispetto a questi, senza
collocarsi né a destra né a sinistra, né sopra né sotto. Altrove.
Per capirlo, basta leggere Sputiamo su Hegel di Carla Lonzi. Che fa
capire anche un’altra cosa e cioè che il paesaggio politico allora
era molto diverso da ora. Voglio dire che il tramonto del comunismo
ha privato il femminismo radicale di un tratto non dico unificante ma
collegante con il suo più grande intorno storico e culturale. Un
altrove non è un’alterità assoluta, ha dei termini di confronto.
Con il tramonto della costellazione comunista alcuni di questi
termini sono spariti. L’espressione stessa di “pratica politica”,
che una come me continua a usare parlando di relazioni e di fiducia
nei rapporti donna con donna, questa espressione proviene da allora e
aveva una pregnanza semantica che prendeva anche da un contesto che
non c’è più. Il femminismo ha attraversato non dico indenne ma
vivo il 1989 perché non era solidale dei progetti rivoluzionari o
riformatori, tutti d’impronta maschile. Li ha infatti criticati
dalla prima ora, come sa chi ha letto Il maschile come valore
dominante, del gruppo Demau, apparso nel 1969, documento inaugurale e
al tempo stesso maturo del femminismo italiano. Il femminismo
radicale ha attraversato anche altri tentativi di obliterazione (la
parola è rara, mi scuso, ma non ce n’è una migliore), per
arrivare fino a noi.
Ora,
secondo la mia ipotesi, il passaggio non poteva farsi senza un giro
di boa, in altre parole, senza portarsi fino alla cultura egemone per
aggirarla. Che non vuol dire negarla, al contrario, ma farci i conti.
La formula dell’autostima di genere coniata per leggere
l’esperienza di Teresa B., ci parla di questo movimento, di questo
che potrebbe essere, dal punto di vista delle circostanze storiche e
dello stato dei rapporti di forza, un necessario giro di boa. Ci
parla anche di un prezzo pagato, perché il concetto di genere, nato
in una fase d’inserimento del pensiero femminista nella cultura
accademica, si è diffuso oltre misura come un surrogato della
differenza sessuale, e come tale si presta alla obliterazione del
pensiero politico femminista.
Tuttavia,
la formula si è presentata in un contesto che ne fa riconoscere il
significato più profondo e la rende accettabile anche da una come me
che discende direttamente dal femminismo radicale degli inizi. È
come la principessa malvestita di cui raccontano le fiabe, che, salva
grazie al travestimento, resta tuttavia riconoscibile.
Per
me è molto positivo costatare come il potente dispositivo
dell’obliterazione venga talvolta sconfitto. Dunque, si può
sconfiggerlo. A questo risultato ha contribuito, bisogna dirlo, che,
nel paesaggio mutato dal terremoto del 1989, in Italia ma non
soltanto, anche in altri paesi europei e sicuramente anche negli Usa
(sebbene gli elementi probanti siano frammentari in quest’ultimo
caso), il femminismo radicale delle origini non è mai venuto meno.
C’è di mezzo una continuità. Non mi riferisco soltanto alla
memoria: non è venuto meno nelle esistenze di persone in carne e
ossa, alcune sempre più vecchie e man mano altre, più giovani, e
nelle loro usanze (le pratiche!), discorsi, scritti, luoghi,
iniziative e progetti.
Per
concludere e restare al nostro esempio: tra la riflessione delle due
giornaliste del Corriere e il testo del 1983, “Più donne che
uomini”, c’è un rapporto asimmetrico ma reciproco: l’autostima
di genere traduce e conferma il Sottosopra, mentre questo dà a
quella uno sfondo illuminante.
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