Francesco,
le riforme avviate e quelle impossibili. Le teologhe cattoliche non
si accontentano delle itenzioni. E delle belle parole
Gli
ammiratori più entusiasti, se non fanatici, di papa Francesco
possono acquistare un’esile rivista intitolata “Il mio Papa”
interamente dedicata alla sua persona: raccoglie frammenti biografici
da parenti, amici o conoscenti, intervista coloro che hanno avuto
occasione di incontrarlo per i motivi più diversi, e riveste ogni
fatto o testimonianza di un calore agiografico che conferma il
lettore nella sensazione che papa Francesco, come Gesù, vuole vivere
intera la sua umanità, vuole camminare insieme alla gente ed
ascoltarla. L’ubriacatura mediatica è così contagiosa che la
frase “chi sono io per giudicare?” riferita ai gay, o quell’altra
con cui ha espresso alle donne che hanno abortito la sua vicinanza
umana, vengono interpretate come segnali prodromici di una
rivoluzione culturale della dottrina della Chiesa cattolica. E in
verità Bergoglio già procede sulla strada delle riforme (lo IOR, la
Curia, la CEI), ma una rivoluzione potrà realizzarsi solo se nel
mondo teologico della tradizione, monolitico maschile gerarchico,
sarà accolto il seme della sapienza femminile. Che però ancora oggi
non trova accoglienza, se non attraverso parole generiche di elogio.
Le teologhe cattoliche invece chiedono un chiaro riconoscimento della
loro creatività, né si accontentano dell’intenzione papale di
“lavorare più duramente per sviluppare una profonda teologia della
donna”: sia perché non vogliono essere escluse, o lasciate ai
margini, da questa elaborazione, sia perché chiedono venga
riconosciuto il lavoro di ricerca da cui, ispirandosi ai tratti
peculiari della loro identità femminile, hanno elaborato nuovi e
difformi modelli di spiritualità. Modelli che però sono rimasti
oscurati o inespressi, schiacciati dalla cultura tipica di una
società patriarcale da cui era influenzata la stessa interpretazione
dei testi sacri; testi che le teologhe hanno preso in mano, traendo
da essi, nel rifiuto di una cultura androcentrica, letture e commenti
di orientamento diverso (espressione della loro molteplicità
culturale), ma tutti accomunati dalla fede in un Dio che ama: non un
Dio maschio, potente e signore, ma un Dio d’amore, un Dio femminile
che, come la madre che dà la vita, chiede reciprocità, ama e vuole
essere amato.
Dunque
a cinquanta anni dal Concilio Vaticano II che ha aperto alle donne la
facoltà di accedere, sia come allieve che come insegnanti, alla
facoltà di teologia, le donne, impegnate nella ricerca del volto
femminile di Dio, non si accontentano più degli elogi (vedi la
“Mulieris Dignitatem” di Wojtyla) ma affermano con decisione che
ormai è scoccata l’ora di parlare “con le donne”, non “delle
donne”. Perché nel rifiuto di un modello ispirato dal turbamento
che suscita la maternità, vincolo e destino di una condizione
strettamente biologica, il pensiero femminile rivendica il diritto
della donna a definire in prima persona la propria identità anche
all’interno del percorso teologico. Una posizione, questa,
rivoluzionaria per la Chiesa cattolica che infatti guarda al
femminismo con sospetto, se non con riprovazione. Si legga il
Documento preparatorio “Le sfide pastorali sulla famiglia” dove
sono segnalate “le forme di femminismo ostile alla Chiesa”,
oppure le parole di Ratzinger nella “Lettera ai vescovi”: “Per
evitare ogni supremazia dell’uno o dell’altro sesso, si tende a
cancellare le loro differenze, considerate come semplici effetti di
un condizionamento storico-culturale.
In
questo livellamento la differenza corporea, chiamata sesso, viene
minimizzata, mentre la dimensione strettamente culturale, chiamata
genere, è sottolineata al massimo e ritenuta primaria.” Dunque già
nel 2004 papa Ratzinger individuava nella “gender theory” “la
minaccia alla pienezza dell’Umano” (C. Gentile) perché il
termine gender appartiene ad una filosofia dove il sesso non è visto
come un dato originario della natura, ma come un ruolo sociale che
l’individuo riempie liberamente di senso. “Maschio e femmina Dio
li creò” sono le parole della Genesi che la teoria del gender
mette in discussione perché se l’essere umano non ha una natura
precostituita dalla sua corporeità, decide lui stesso di crearla per
sé: eterosessuale, omosessuale, transessuale…. Ma rivendicare al
soggetto la libertà di definire in autonomia la propria identità,
indipendentemente dall’ordine sociale culturale e religioso, vuol
dire affilare un’arma contro la famiglia tradizionale e papa
Francesco su questo tema, non meno che sul rinnovamento della Curia,
dovrà affrontare grandi difficoltà. Nel 2010 infatti lui stesso,
dalla cattedra del magistero vescovile, ha chiamato gli argentini a
combattere una “guerra di Dio” contro la legge che avrebbe
legalizzato le coppie gay, definite “un atto ispirato dall’invidia
del diavolo”; e sempre in Argentina, riferendosi alla candidatura
della Kirchner, ebbe a dire: “Le donne sono naturalmente inadatte
ai compiti politici… le Scritture ci mostrano che le donne da
sempre supportano il pensare e il creare dell’uomo, ma niente più
di questo”. Inadatte alla politica, ammoniva ieri il vescovo
Bergoglio, inadatte al sacerdozio, puntualizza oggi papa Francesco
nell’ “Evangelii Gaudium”.
Eppure,
anche se molte suore non vi aspirano affatto, pare venuto il tempo di
discutere del sacerdozio femminile, anche perché non esistono
ragioni né scritturali né teologiche contro l’ordinazione delle
donne. E infatti Martha Heizer (cofondatrice e presidente di “Wir
sind Kirche”, il movimento di base presente in molti paesi che si
batte da tempo per riformare la Chiesa) già nel 2011 era stata
richiamata perché insieme al marito Gerd officiava messa nella loro
casa. La questione, ferma da tre anni, è sfociata recentemente nella
scomunica. Martha ha risposto indignata: “Siamo stupiti e
amareggiati dal fatto che la nostra attività rientri nella stessa
categoria dei preti che commettono abusi sui minori. Anzi è ancora
più grave che, a differenza di questi, a noi è arrivata una
scomunica”. Il sacerdozio femminile appare dunque un traguardo
assai difficile da raggiungere anche perché la storia ci insegna che
“solo i santi si spogliano spontaneamente dei loro privilegi” (L.
Muraro), e papa Francesco dovrebbe rompere una tradizione secolare da
cui deriva che, negando alle donne le prerogative riservate ai
consacrati, non è stato mai loro permesso di accedere ai ruoli di
potere.
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