«Presidente della camera», «cittadino» e «cattolico»: in tal
modo si definì Irene Pivetti quando fu eletta nel 1994 come
Presidente della camera dei deputati. Ma se attualmente dovessimo
riferirci ad una donna, che riveste una carica istituzionale, quali
termini utilizzeremmo? Il presidente, la presidente o la
presidentessa?
La lingua, soggetta a mutamenti, non sempre possiede
dei confini ben definiti. Nell’incertezza linguistica, i parlanti
compiono degli svarioni che non consistono solo nell’adottare forme
deviate rispetto alla norma, ma anche nel servirsi delle tradizionali
forme maschili, pur riferendosi ad una donna. Anche questa “messa
in sicurezza” da parte del parlante, dovrebbe rappresentare un
errore, che non è ancora stato riconosciuto chiaramente. Già nel
1993 nell’opuscolo “Il sessismo della lingua”, curato da Alma
Sabatini, vi era un capitolo dedicato al campo delle professioni
femminili. Si richiedeva di scegliere forme linguistiche femminili
che avessero pari dignità rispetto a quelle maschili , e in seguito
veniva elencata una serie di termini come “ingegnera, architetta,
avvocata”, che avrebbe dovuto essere utilizzata. L’appello rimase
però inascoltato. Ѐ difatti raro sentire l’uso di tali termini,
e non solo da parte degli uomini, ma anche delle donne, che
dovrebbero dare l’input per un cambiamento, anzi per il
cambiamento.
In ambito filosofico la donna é stata definita «un vivente che ha
un linguaggio nella forma dell’auto-estraniazione, non si
autorappresenta nel linguaggio ma accoglie rappresentazioni di lei
prodotte dall’uomo; così la donna parla e pensa, si parla e si
pensa, ma non a partire da sé.». Definizione dalla quale ci mette
in guardia la docente di Storia della lingua italiana all’Università
di Catania, Gabriella Alfieri, che con molta disponibilità ha
accettato di essere intervistata su una questione così rilevante.
«Ѐ una citazione condivisibile. Se noi prendiamo tale osservazione
come una storicizzazione di quello che finora è stato il ruolo della
donna sono d’accordo, ma occorre contestualizzare: se la donna
appartiene ad una classe sociale elevata, ha gli strumenti sociali,
come l’istruzione, e si realizza socialmente, difficilmente questo
tipo di donna si autorappresenterà con gli stereotipi ereditati. Se
la donna appartiene ad ambienti socio-culturali dove c’è ancora la
predominanza maschile assoluta, allora la citazione può essere
accettabile»: in tal modo si è espressa a riguardo la prof.ssa
Alfieri. Dunque se la donna non si nasconde dietro ad un linguaggio
maschile, perché forme femminili per le professioni non sono state
ancora accolte dai parlanti? Ciò è dovuto alla cacofonia di termini
come “ingegnera”, o la società non è ancora pronta ad
abbandonare una visione maschilista anche in ambito linguistico? La
docente a tal proposito ci ha suggerito di prendere in considerazione
la norma, non dettata dall’alto, ma come consuetudine sedimentata:
difatti è un gruppo di parlanti che influisce fortemente sull’uso
di un termine. L’esempio, è rappresentato da forme come
“ministra”, che in passato non veniva utilizzata dalle donne che
dovevano salvaguardare la propria dignità socio-professionale,
perché era un espressione molto recente; oggi il termine ministra è
invece entrato nell’uso, grazie alla presenza delle donne nei
governi precedenti.
La prof.ssa Gabriella Alfieri sostiene difatti che forme come
“ingegnera” potrebbero essere utilizzate in futuro, nel momento
in cui le neolaureate vorranno essere chiamate o si firmeranno in tal
modo, e aggiunge inoltre che «se le donne continueranno ad
incrementare la propria presenza sociale e professionale, tali forme
verranno utilizzate». Il sessismo della lingua non riguarda solo le
professioni, ma coinvolge anche espressioni come “diritti
dell’uomo”, che anche in questo caso escludono la donna dal punto
di vista linguistico. Secondo la docente, sarebbe difatti corretto
utilizzare forme alternative , come “diritti della persona”, che
dovrebbero essere adottate dai legislatori. “Paternità dell’opera”
si è diffuso invece perché la maggior parte degli scrittori sono
sempre stati uomini. La prof.ssa propone di sostituire tali termini
non con “la maternità dell’opera”, ma con “la genitorialità
dell’opera”.
Oggigiorno il ruolo della donna è sempre più determinante,
soprattutto in ambito sociale, dunque perché mai dovremmo essere
restii ai cambiamenti linguistici atti a rappresentarci nel migliore
dei modi?
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