domenica 14 settembre 2014

Le donne e il sessismo nella lingua: intervista alla Prof.ssa Gabriella Alfieri dell’Università di Catania Alessia Costanzo

«Presidente della camera», «cittadino» e «cattolico»: in tal modo si definì Irene Pivetti quando fu eletta nel 1994 come Presidente della camera dei deputati. Ma se attualmente dovessimo riferirci ad una donna, che riveste una carica istituzionale, quali termini utilizzeremmo? Il presidente, la presidente o la presidentessa?
La lingua, soggetta a mutamenti, non sempre possiede dei confini ben definiti. Nell’incertezza linguistica, i parlanti compiono degli svarioni che non consistono solo nell’adottare forme deviate rispetto alla norma, ma anche nel servirsi delle tradizionali forme maschili, pur riferendosi ad una donna. Anche questa “messa in sicurezza” da parte del parlante, dovrebbe rappresentare un errore, che non è ancora stato riconosciuto chiaramente. Già nel 1993 nell’opuscolo “Il sessismo della lingua”, curato da Alma Sabatini, vi era un capitolo dedicato al campo delle professioni femminili. Si richiedeva di scegliere forme linguistiche femminili che avessero pari dignità rispetto a quelle maschili , e in seguito veniva elencata una serie di termini come “ingegnera, architetta, avvocata”, che avrebbe dovuto essere utilizzata. L’appello rimase però inascoltato. Ѐ difatti raro sentire l’uso di tali termini, e non solo da parte degli uomini, ma anche delle donne, che dovrebbero dare l’input per un cambiamento, anzi per il cambiamento.
In ambito filosofico la donna é stata definita «un vivente che ha un linguaggio nella forma dell’auto-estraniazione, non si autorappresenta nel linguaggio ma accoglie rappresentazioni di lei prodotte dall’uomo; così la donna parla e pensa, si parla e si pensa, ma non a partire da sé.». Definizione dalla quale ci mette in guardia la docente di Storia della lingua italiana all’Università di Catania, Gabriella Alfieri, che con molta disponibilità ha accettato di essere intervistata su una questione così rilevante. «Ѐ una citazione condivisibile. Se noi prendiamo tale osservazione come una storicizzazione di quello che finora è stato il ruolo della donna sono d’accordo, ma occorre contestualizzare: se la donna appartiene ad una classe sociale elevata, ha gli strumenti sociali, come l’istruzione, e si realizza socialmente, difficilmente questo tipo di donna si autorappresenterà con gli stereotipi ereditati. Se la donna appartiene ad ambienti socio-culturali dove c’è ancora la predominanza maschile assoluta, allora la citazione può essere accettabile»: in tal modo si è espressa a riguardo la prof.ssa Alfieri. Dunque se la donna non si nasconde dietro ad un linguaggio maschile, perché forme femminili per le professioni non sono state ancora accolte dai parlanti? Ciò è dovuto alla cacofonia di termini come “ingegnera”, o la società non è ancora pronta ad abbandonare una visione maschilista anche in ambito linguistico? La docente a tal proposito ci ha suggerito di prendere in considerazione la norma, non dettata dall’alto, ma come consuetudine sedimentata: difatti è un gruppo di parlanti che influisce fortemente sull’uso di un termine. L’esempio, è rappresentato da forme come “ministra”, che in passato non veniva utilizzata dalle donne che dovevano salvaguardare la propria dignità socio-professionale, perché era un espressione molto recente; oggi il termine ministra è invece entrato nell’uso, grazie alla presenza delle donne nei governi precedenti.
La prof.ssa Gabriella Alfieri sostiene difatti che forme come “ingegnera” potrebbero essere utilizzate in futuro, nel momento in cui le neolaureate vorranno essere chiamate o si firmeranno in tal modo, e aggiunge inoltre che «se le donne continueranno ad incrementare la propria presenza sociale e professionale, tali forme verranno utilizzate». Il sessismo della lingua non riguarda solo le professioni, ma coinvolge anche espressioni come “diritti dell’uomo”, che anche in questo caso escludono la donna dal punto di vista linguistico. Secondo la docente, sarebbe difatti corretto utilizzare forme alternative , come “diritti della persona”, che dovrebbero essere adottate dai legislatori. “Paternità dell’opera” si è diffuso invece perché la maggior parte degli scrittori sono sempre stati uomini. La prof.ssa propone di sostituire tali termini non con “la maternità dell’opera”, ma con “la genitorialità dell’opera”.
 Oggigiorno il ruolo della donna è sempre più determinante, soprattutto in ambito sociale, dunque perché mai dovremmo essere restii ai cambiamenti linguistici atti a rappresentarci nel migliore dei modi?

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