Quando
a inizio estate è scoppiata la polemica innescata dalle giovani
americane contro il femminismo, pur apprezzando le risposte delle
columnist o delle intellettuali che si sono cimentate in una sorta di
difesa dei femminismi anni ‘70, ho avuto la sensazione che mancasse
qualcosa di fondamentale importanza, che continua a sfuggire. Dopo
avere incrociato l’ultimo libro della sociologa Graziella Priulla
mi sembra di averla trovata. Titolo, per me molto accattivante:
Parole tossiche. Ecco esposto e analizzato un “fatto” che è
sotto gli occhi di tutti/e: quelle ragazze e chi loro risponde sono,
siamo, sommerse da una enorme quantità di parole che intossicano la
relazione tra i sessi e tra le donne stesse: «Da sempre, attraverso
il linguaggio, le donne interiorizzano una cultura patriarcale che
sancisce la loro subalternità», scrive Priulla. E, se negli anni
‘70 era facile individuare rispetto a chi, noi donne eravamo
subalterne, oggi, in pieno emancipazionismo, specie delle ragazze
nordamericane, ha probabilmente la meglio la complicità con il
maschile.
Per
le femministe anni ‘70 si trattava di conquistare diritto di
parola, per esempio, attraverso la rielaborazione di un classico di
quei tempi: Noi e il nostro corpo, sui nostri corpi di donne; oggi,
più che mai il corpo delle donne viene troppo spesso esplicitamente
identificato nei singoli organi sessuali, il che riduce, tra l’altro
proprio la sessualità, il far l’amore, a prestazioni meccaniche
tese alla performance, e, salve ovviamente le eccezioni, a «cronache
di ordinario sessismo». Infatti, «Alla perdita di riferimenti nella
comunità, alla debolezza dell’offerta educativa, alla scarsa
competenza riflessiva e comunicativa si accompagna una
spersonalizzazione dei rapporti tra i sessi cui molte affidano una
paradossale valenza emancipatoria»(p. 33).
Attualmente
l’insulto, tollerato da insegnanti e genitori, più frequentemente
rivolto alle ragazze, da ambo i sessi, è troia, mentre quello
rivolto ai ragazzi è figlio di troia. Rileva Priulla che, secondo le
regole del politically correct si deve dire «ottimizzazione delle
dimensioni aziendali» e non licenziamenti di massa, ma per qualunque
dissenso con una donna che esercita una funzione politica pubblica si
dice troiazza e, se nera, sporca troia.
Nelle
relazioni amicali di gruppo come anche in Parlamento gli insulti
sessuali sono al top. Quando Berlusconi ragionava con i suoi di
cambiare il nome del partito che sperimentava una caduta libera, in
«forza gnocca», Daniela Santanchè rispondeva che era «un’idea
del cazzo».
Da
un sondaggio lanciato da Snoq Genova sul web dall’8 marzo al 5
aprile 2014, che ha raccolto 411 risposte di cui 329 donne (pari
all’80%), 77 uomini (18,8%) e 5 transgender è emerso che il 48,5%
, cioè quasi la metà dei/delle rispondenti, si esprime con
esclamazioni di uso comune che contengono offesa per le donne.
L’altra metà sostiene di non usare mai tali interiezioni. Dai
commenti è emersa in numerosi casi, soprattutto da parte degli
uomini, la negazione che tali espressioni contengano un’offesa per
le donne, mentre molte donne, quando si rendono conto di subire
un’offesa, riconoscono che è un’abitudine da cambiare. Un uomo
over 60 commenta così: «A Roma ‘figlio di mignotta’ non è
un’espressione sessista, infatti è considerato un complimento.
Significa che quella persona è un furbo». Un ragazzo della fascia
di età 21/30 scrive: «nella mia città, Mantova, è comunque uno
slang, non è un’offesa»; sulla stessa linea un uomo over 60: «si
tratta di esclamazioni/interlocuzioni mai rivolte direttamente ad una
donna». Una donna, anch’essa over 60 riconosce il problema
dell’abitudine: «fa parte di un’abitudine, lenta a sparire»;
mentre un’altra, più giovane scrive: «cerco di starci attenta, ma
è un automatismo culturale difficile da scardinare». Una ragazza
under 30 sta cercando di eliminare queste espressioni dal suo modo di
parlare e c’è chi cerca di contrastare sostituendo a mignotta (o
troia) il mestiere di «parlamentare» intendendo, per l’appunto,
«categorie che, in linea di massima, sono poco stimabili».
Se
siamo diventati/e più sensibili alle differenze di razza (neri,
extracomunitari), di classe (operatore ecologico) e persino religiose
(culti acattolici, non cristiani), siamo invece talmente immersi/e
nella cultura sessista, misogina che neppure ci accorgiamo delle
mille situazioni di prevaricazione e di disparità nella vita
quotidiana. D’altra parte, nel linguaggio comune parolacce,
insulti, imprecazioni, invettive, persino anatemi, oltraggi,
improperi, contumelie (e per ognuna delle categorie Priulla offre una
definizione) sembrano essere diventate elementi quasi indispensabili,
rendendoci appena appena conto che sono parole che caratterizzano
discorsi violenti che inducono l’odio. Eppure se ne fa pieno uso
per esempio nei talk show, dove siedono fra i “moderatori” veri
professionisti del battibecco. In questo contesto generale, il
richiamo alle parti anatomiche e alle attività sessuali ha un ruolo
di particolare rilievo e, secondo Priulla che lo argomenta, al
centro, il motivo conduttor, è l’attrazione/odio per le donne.
Anche i verbi usati troppo spesso per indicare l’atto sessuale, e
l’Autrice li elenca ricercandone il senso linguistico, sono di per
sé violenti e oggettivanti. E non può stupire più di tanto se (p.
97) sul sito Pontifex.roma.it, Bruno Volpe scrive «Finiamola con la
litania del femminicidio […]. Le donne diventano libertine e gli
uomini già esauriti, talvolta esagerano […]. Le donne provocano
gli istinti peggiori e se poi si arriva anche alla violenza o
all’abuso sessuale facciano un sano esame di coscienza…».Risultato?
Cinquantamila Mi piace.
Parole
tossiche, dunque, parole che intossicano i rapporti e le relazioni.
Graziella Priulla si è addentrata con polso fermo in tutto ciò da
cui sono banditi gentilezza e pudore ma ci dà anche l’indicazione
di un sito gentilezza.org, che è una sezione del Movimento mondiale
per la gentilezza, nato a Tokyo nel 1988, utile anche per re-imparare
un uso consapevole della lingua c.d. madre.
Graziella
Priulla, Parole tossiche. Cronache di ordinario sessismo, Settenove
Edizioni, 2014, pp. 176, euro 15,00.
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