«Mia
madre sognava che diventassi una persona importante». E così è
stato: Hawa Abdi Diblawe, medico e attivista per i diritti umani ha
passato la vita ad aiutare i rifugiati e, nel 2012, è stata
candidata al Nobel per la Pace. In oltre 22 anni passati nel
Corridoio di Afgooye, travagliata regione a nord ovest della
Mogadiscio, oltre 90mila persone hanno trovato un riparo nel campo
profughi nato spontaneamente nel giardino di casa sua.
«Per
lo più sono venuti donne e bambini in fuga dagli orrori della guerra
civile. Fanno tutti ormai parte della mia famiglia. Le mie figlie,
Deqo e Amina, sono diventate dottoresse e ora lavoriamo tutte
insieme». A Cosenza, per ritirare il premio Cultura Mediterranea,
Hawa (ormai la «nonna dei rifugiati») è arrivata proprio insieme a
Deqo che ora gestisce la Fondazione nata da un piccolo ambulatorio di
provincia per la salute delle donne. «Mia madre rimase incinta del
suo settimo figlio quando io avevo appena 11 anni. Mentre la sua
pancia cresceva, lei era sempre più debole e sofferente. La morte in
Somalia può arrivare attraverso le violenze, le malattie o anche il
parto – ricorda – È per questo che sono diventata un dottore,
una ginecologa, perché volevo risparmiare ad altri le sofferenze che
avevo patito io».
Con
l’aiuto della Russia, Hawa si è laureata all’università di Kiev
ed è diventata la prima ginecologa donna in Somalia. «Io sono
cresciuta in tempi molto diversi, la Somalia era un Paese diverso
–ricorda – La mia Mogadiscio era il posto migliore di tutta
l’Africa. Nelle zone rurali, i bambini avevano latte fresco, carne
fresca e aria fresca. La vita era molto semplice e molto tranquilla».
Ma
nel 1991 tutto cambiò. «Quando il governo cadde, sempre più
persone vennero all’ambulatorio e a casa in cerca di un rifugio dai
combattimenti delle città. Mi sembrò doveroso dare a tutti un posto
per dormire e sentirsi sicuri. Piano piano si sparse la voce e
aumentava la gente che bussava alla nostra porta. Quando nella nostra
casa non ci furono più letti liberi, le famiglie dormivano fuori
sotto gli alberi del nostro giardino».
È
da quell’accampamento di fortuna che è nato il suo villaggio: «Non
è sempre stato facile, negli anni abbiamo temuto per la nostra vita:
più volte mi sono trovata di fronte ai guerriglieri».
La
Somalia di oggi si sta avviando verso la normalizzazione, ma « il
governo è ancora troppo debole. Non riusciamo ancora ad avere una
stabilità, alcuna sicurezza. E le vere vittime di questa tragedia
sono proprio le donne e i bambini – racconta Hawa – Il nostro
Paese sta soffrendo da 22 anni ininterrottamente. L’emergenza oggi
è la mancanza di lavoro. Con la guerra, era impossibile lavorare,
produrre, sfamare la propria famiglia. E la conseguenza è che nei
campi i bambini muoiono per fame. Non per malattie incurabili: è la
malnutrizione che se li porta via».
Tra
le emergenze, anche quella dell’educazione soprattutto per le
bambine. «Nel nostro campo c’è una scuola elementare che di fatto
copre fino alle medie, dalla prima all’ottava classe. Il prossimo
anno creeremo anche una scuola superiore – dice Deqo che aiuta la
mamma a organizzare le lezioni- Ovviamente dobbiamo fronteggiare
diversi problemi: mancanza di fondi, di insegnanti, di spazi e
attrezzature. Ma nonostante tutto, il 25% dei nostri bambini riceve
un’istruzione di base».
Per
le ragazze, poi, la situazione è ancora più complessa: «I figli
sono fonte di reddito per le loro famiglie, soprattutto le bambine
che si occupano, a loro volta, della gestione degli altri piccoli e
della casa. Per questa ragione, stiamo cercando di aprire questa un
asilo dove le famiglie possono portare i neonati. E finalmente anche
le bambine potranno andare a scuola» conclude Deqo.
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