In
un recente rapporto dell’Unicef, “Hidden in Plain Sight”, si
legge che un’adolescente su tre in India viene regolarmente
picchiata e violentata dal proprio marito, e che in 190 Paesi del
mondo circa 84 milioni di ragazze che hanno o hanno avuto una
relazione stabile, è stata vittima di violenza psicologica, fisica o
sessuale da parte del marito o del partner, e che circa il 70% delle
giovani vittime di violenza fisica o sessuale nelle reazioni intime
non hanno mai chiesto aiuto perché non lo ritenevano un problema. Un
modo di pensare, quello che all’interno di una coppia sia tutto
lecito basta sia l’uomo ad avere questa libertà di decisione, che
svela il fulcro della discriminazione delle donne legato allo
stereotipo della madre-moglie che nel momento in cui oltrepassa la
soglia di casa diventa automaticamente oggetto privato dell’uomo
che se l’è scelta. Ma non bisogna andare lontano, per capire come
la violenza sulle donne – fisica, sessuale, psicologica o economica
– all’interno di una relazione intima, sia ancora un tabù
intoccabile nel mondo.
In
Italia si è dibattuto aspramente sulla sentenza della Cassazione che
ha accolto il ricorso di un 48enne veneto condannato per
maltrattamenti e per violenza sessuale sulla moglie (artt. 572 e 609
bis c.p), disponendo un nuovo esame del caso sulla possibilità di
applicare le attenuanti all’uomo e annullando con rinvio la
sentenza della Corte d’appello di Venezia (07/10/2013) che aveva
rifiutato la richiesta di uno sconto di pena dell’offender,
confermando la sentenza di condanna del Tribunale di Vicenza.
In
particolare la Suprema Corte – sentenza 39445 – ha accolto la
richiesta del ricorrente che “deduce come debba assumere rilevanza
la qualità dell’atto compiuto (e segnatamente il grado di
coartazione, il danno arrecato e l’entità della compressione) più
che la quantità di violenza fisica esercitata”, dichiarando che
“nella specie è mancata ogni valutazione globale del fatto in
particolare in relazione al fatto che le violenze sarebbero sempre
state commesse sotto l’influenza dell’alcol”, e che “ai fini
della concedibilità dell’attenuante di minore gravità, assumono
rilievo una serie di indici, segnatamente riconducibili (…) al
grado di coartazione esercitato sulla vittima, alle condizioni,
fisiche e mentali, di quest’ultima, alle caratteristiche
psicologiche, valutate in relazione all’età, all’entità della
compressione della libertà sessuale ed al danno arrecato alla
vittima anche in termini psichici”, concludendo infine “che così
come l’assenza un rapporto sessuale completo non può, per ciò
solo, consentire di ritenere sussistente l’attenuante,
simmetricamente la presenza dello stesso rapporto completo non può,
per ciò solo, escludere che l’attenuante sia concedibile, dovendo
effettuarsi una valutazione del fatto nella sua complessità”.
Sentenza
di fronte alla quale donne singole e appartenenti ad associazioni, si
solo alzate per condannare questo rinvio che aprirebbe una porta alle
attenuanti per l’offender, senza però andare a fondo su quello che
veramente sottintende un’indicazione che in un caso come questo
rimanda il pacco al mittente dicendo: riguardatelo bene che manca
qualcosa.
Il
primo fatto contestato è che “le violenze sarebbero sempre state
commesse sotto l’influenza dell’alcol”, e per questo forse meno
gravi: un dato in cui la giurisprudenza indica che se è vero che
l’art. 91 c.p. esclude l’imputabilità – o prevede la riduzione
della pena applicabile nel caso di parziale incapacità – quando
l’ubriachezza sia dovuta a caso fortuito o forza maggiore, cioè se
è “accidentale”, è anche vero che l’ubriachezza volontaria o
colposa, non esclude né diminuisce l’imputabilità (art. 92 c.p.).
Un fattore però, quello dell’alcol, che un esperto della materia
saprebbe essere ingrediente costante di una parte della violenza
domestica nel mondo – soprattutto nei Paesi nordici – dove però
l’uso di alcol da parte del partner violento non determina l’atto
in sé, in quanto l’offender è considerato violento a prescindere,
a riprova del fatto che non tutti gli ubriachi sono violenti. Un
concetto che è alla base della comprensione del fenomeno della
violenza sulle donne e di come agisce un offender per il quale i
problemi da cui è afflitto non possono essere attenuanti del
femminicidio.
Quello
che però sorprende di più, in Italia e per quanto riguarda i
maltrattamenti in famiglia e la violenza sessuale nei rapporti
intimi, è la reale applicazione della legge 119 che ha introdotto a
ottobre 2103 misure per rendere più incisivi gli strumenti della
repressione penale dei fenomeni di “maltrattamenti in famiglia,
violenza sessuale e di atti persecutori”, indicando nelle
“Circostanze aggravanti” (art. 609ter) proprio quelle commesse
“nei confronti di persona della quale il colpevole sia il coniuge,
anche separato o divorziato, ovvero colui che alla stessa persona è
o è stato legato da relazione affettiva, anche senza convivenza”
(5-quater). Normative che dovrebbero aver dato maggior peso alle
violenze che avvengono nella coppia, che sono l’80% della violenza
complessiva in Italia, ma che stentano ancora a essere completamente
assorbite nell’applicazione della giurisprudenza.
Il
dato costante, e questo non solo in Italia, è il fatto che davanti a
una violenza domestica si metta in discussione il danno arrecato alla
donna: perché forse una donna che viene stuprata e picchiata da un
marito ha conseguenze fisiche e psicologiche minori? Oppure è lei
che ha un profilo psicologico anomalo dato che ha sposato un uomo
violento? O magari non era proprio un no ma un nì e quindi la
responsabilità è a metà? In fondo le relazioni sentimentali, si
sa, sono conflittuali e per essere violenza deve “scorrere il
sangue”. Un modo di pensare, ancorato a stereotipi discriminatori
delle donne, che porta a una dubbia applicazione delle norme
esistenti, anche valide, e che costringe ancora oggi le donne a
esibire prove della violenza subita – in quanto non creduta fino in
fondo e quindi costretta a dimostrare pubblicamente e in maniera
estenuante di essere stata sottoposta a maltrattamento e a stupro –
fino a un’esposizione rivittimizzante. Eppure è la stessa
Convenzione di Istanbul, ratificata dall’Italia e ora in vigore, a
sottolineare non solo la gravità della violenza domestica (indicata
anche nel titolo) in tutte le sue forme, ma anche a specificare che
le Parti devono mirare “ad evitare la vittimizzazione secondaria”
(Articolo 18 – Obblighi generali) che significa non sottoporre le
donne a ulteriore violenza anche, tra le altre forme, nel momento in
cui si verifica l’accaduto nei tribunali e se ne narra in sedi
pubbliche.
Ma
la verità è un’altra e risiede in un tabù, e cioè che lo
stupro, ancor più della violenza fisica, all’interno di una
relazione intima o di un matrimonio, è considerato una violenza di
serie B: un fatto per cui se non arrivi massacrata e lacerata, o
addirittura morta, non è dimostrabile fino in fondo. Un problema
culturale che riguarda i doveri coniugali di una donna relegata al
ruolo di moglie-madre che non è solo italiano e che attraversa tutte
le società del Pianeta. Diciamo pure che rimane la punta di diamante
della discriminazione delle donne in una cultura che non ammette che
i diritti umani disturbino la quiete familiare e soprattutto mettano
in discussione la sua riproducibilità biologica attraverso il
“mezzo” femminile, costi quel che costi. Ed è per questo, come
ripetuto tante volte, che si possono fare le migliori leggi
dell’Universo ma che se non si cambia la cultura tutto rimane
inalterato.
Viviane
Monnier è co-fondatrice del primo numero verde nazionale francese
“Violences conjugales”, e oltre a fare parte dell’Osservatorio
sulla violenza contro le donne della Lobby Europea delle donne,
dirige il centro antiviolenza “Halte Aide aux Femmes battues”
(HAFB) di Parigi, e secondo lei anche in Francia, che è più avanti
di noi su molte cose, ci sono buone leggi che continuano a non essere
applicate per una questione di mentalità: un buco che produce un
sommerso indescrivibile. “Nei tribunali – dice Viviane Monnier –
i giudici hanno una professione libera, sono indipendenti ma
soprattutto sono intoccabili. Molti pensano di essere neutri, e
magari ti dicono anche che sono sensibili sulla violenza contro le
donne, eppure ancora adesso davanti a un tribunale gli elementi di
prova per una violenza domestica, dove magari ci sono dei bambini,
non bastano mai, e spesso si sente ancora la frase che se anche un
marito è violento in fondo può essere comunque un buon padre. Una
mentalità che si perpetua in maniera devastante tanto che se le
sanzioni applicate per le violenze fatte da sconosciuti fossero
applicate anche per la violenza domestica, avremmo le prigioni piene
di uomini che invece stanno a casa e continuano a fare quello che
sappiamo”.
“Anche
se oggi va meglio rispetto a quando ho cominciato questo lavoro –
continua Monnier – succede ancora che se un marito fa due anni di
prigione significa che ha massacrato la moglie, e il termine di
paragone è che se quell’uomo avesse fatto a una sconosciuta quello
che ha fatto alla moglie, sarebbero stati sicuramente dai 5 ai 10
anni. Ma nel penale la tragedia è nello stupro delle donne da parte
del partner – spiega – perché nell’immaginario collettivo per
chi vive con qualcuno le relazioni sessuali sono un atto dovuto, ed è
per questo che lo stupro coniugale viene denunciato da pochissime
donne che in realtà si vergognano e si convincono che sia normale
che un marito le costringa ad avere rapporti sessuali. Non entra in
testa che lo stupro esiste anche all’interno di relazioni coniugali
e convivenze. Questo è il tabù più forte. E allora come fai a
denunciare quando sai che non sarai creduta? In verità quando le
donne denunciano, spesso la reazione in tribunale è: sì, ma qual è
la prova del danno che hai subito? Se è uno sconosciuto la prova è
il Dna ma per il marito questa prova non c’è. E allora va
accompagnata da violenze fisiche e psicologiche che però devono
essere pesanti e devastanti, altrimenti non sussistono. E poi vuoi
sapere che fine fanno queste denunce? Molte vengono archiviate”.
Nessun commento:
Posta un commento