L'ultimo
audio-messaggio dell'iraniana giustiziata per impiccagione per aver
ucciso l'uomo che voleva stuprarla è una toccante lettera alla madre
piena d'amore per lei. La ragazza ricorda gli ultimi orribili 7 anni
in carcere e chiede che «cuore, occhi, reni e quant'altro possa
servire venga dato in dono». E nessuna tomba su cui piangere
«L’ultima
pagina del libro della mia vita» l’ha voluta scrivere lei stessa.
Reyhaneh Jabbari, la 26enne che sabato è stata impiccata in Iran
perché “colpevole” di essersi difesa da un tentativo di stupro,
ha detto addio alla madre Sholeh Pakravan con un toccante messaggio
audio (registrato ad aprile ma reso noto solo dopo l’esecuzione
grazie all’impegno degli attivisti del Consiglio Nazionale di
Resistenza iraniano). Ripercorrendo i suoi sette anni negli inferi
delle prigioni di Teheran, a partire da quella sera in cui tutto ebbe
inizio: quando Morteza Abdolali Sarbandi, un ex agente
dell’intelligence, l’attirò nel suo appartamento con la scusa di
offrirle un incarico come interior designer e tentò di abusare di
lei.
«Il
mondo mi ha concesso di vivere per 19 anni. Quella orribile notte io
avrei dovuto essere uccisa. Il mio corpo sarebbe stato gettato in
qualche angolo della città e dopo qualche giorno la polizia ti
avrebbe portata all’obitorio per identificare il mio corpo e là
avresti saputo che ero anche stata stuprata. L’assassino non
sarebbe mai stato trovato, dato che noi non siamo ricchi e potenti
come lui. Poi tu avresti continuato la tua vita soffrendo e
vergognandoti, e qualche anno dopo saresti morta per questa
sofferenza». La “colpa” di Reyhaneh Jabbari è non essersi
arresa: né di fronte al suo aguzzino, né al processo, quando le fu
offerta la possibilità di salvarsi dichiarando di essersi inventata
tutta la storia dello stupro. «Ho imparato che a volte bisogna
lottare. Mi ricordo quando mi dicesti di quel vetturino che si mise a
protestare contro l’uomo che mi stava frustando, ma che quello
iniziò a dargli la frusta sulla testa e sul viso fino a che non era
morto. Tu mi hai detto che per creare un valore si deve perseverare,
anche se si muore». Reyhaneh aveva fiducia nella giustizia. La
stessa giustizia che l’aveva dipinta come «un’assassina a sangue
freddo» (lei che non uccideva nemmeno gli scarafaggi ma li
allontanava da casa tenendoli per le antenne) e che l’ha portata
alla forca con la febbre (come ha scritto sua madre su facebook.
«Questo paese per il quale tu hai piantato l’amore in me, non mi
ha mai voluto e nessuno mi ha sostenuto quando sotto i colpi degli
inquirenti gridavo e sentivo i termini più volgari. Quando ho
perduto il mio ultimo segno di bellezza, rasandomi i capelli, sono
stata ricompensata: 11 giorni in isolamento».
Ma
prima di dire addio a questo mondo Reyhaneh ha espresso il suo ultimo
desiderio, per il quale, lei che aveva imposto alla famiglia di non
implorare mai i giudici, chiede di arrivare fino alla supplica purché
venga esaudito. «Mia dolce madre, cara Sholeh, l'unica che mi è più
cara della vita, non voglio marcire sottoterra. Non voglio che i miei
occhi o il mio giovane cuore diventino polvere. Prega perché venga
disposto che, non appena sarò stata impiccata il mio cuore, i miei
reni, i miei occhi, le ossa e qualunque altra cosa che possa essere
trapiantata venga presa dal mio corpo e data a qualcuno che ne ha
bisogno, come un dono. Non voglio che il destinatario conosca il mio
nome, compratemi un mazzo di fiori, oppure pregate per me. Te lo dico
dal profondo del mio cuore che non voglio avere una tomba dove tu
andrai a piangere e a soffrire. Non voglio che tu ti vesta di nero
per me. Fai di tutto per dimenticare i miei giorni difficili. Dammi
al vento perché mi porti via».
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