martedì 28 ottobre 2014

Reyhaneh Jabbari: "Cara, mamma, dona i miei organi. E poi dammi al vento" di Valentina Ravizza


L'ultimo audio-messaggio dell'iraniana giustiziata per impiccagione per aver ucciso l'uomo che voleva stuprarla è una toccante lettera alla madre piena d'amore per lei. La ragazza ricorda gli ultimi orribili 7 anni in carcere e chiede che «cuore, occhi, reni e quant'altro possa servire venga dato in dono». E nessuna tomba su cui piangere
«L’ultima pagina del libro della mia vita» l’ha voluta scrivere lei stessa. Reyhaneh Jabbari, la 26enne che sabato è stata impiccata in Iran perché “colpevole” di essersi difesa da un tentativo di stupro, ha detto addio alla madre Sholeh Pakravan con un toccante messaggio audio (registrato ad aprile ma reso noto solo dopo l’esecuzione grazie all’impegno degli attivisti del Consiglio Nazionale di Resistenza iraniano). Ripercorrendo i suoi sette anni negli inferi delle prigioni di Teheran, a partire da quella sera in cui tutto ebbe inizio: quando Morteza Abdolali Sarbandi, un ex agente dell’intelligence, l’attirò nel suo appartamento con la scusa di offrirle un incarico come interior designer e tentò di abusare di lei.
«Il mondo mi ha concesso di vivere per 19 anni. Quella orribile notte io avrei dovuto essere uccisa. Il mio corpo sarebbe stato gettato in qualche angolo della città e dopo qualche giorno la polizia ti avrebbe portata all’obitorio per identificare il mio corpo e là avresti saputo che ero anche stata stuprata. L’assassino non sarebbe mai stato trovato, dato che noi non siamo ricchi e potenti come lui. Poi tu avresti continuato la tua vita soffrendo e vergognandoti, e qualche anno dopo saresti morta per questa sofferenza». La “colpa” di Reyhaneh Jabbari è non essersi arresa: né di fronte al suo aguzzino, né al processo, quando le fu offerta la possibilità di salvarsi dichiarando di essersi inventata tutta la storia dello stupro. «Ho imparato che a volte bisogna lottare. Mi ricordo quando mi dicesti di quel vetturino che si mise a protestare contro l’uomo che mi stava frustando, ma che quello iniziò a dargli la frusta sulla testa e sul viso fino a che non era morto. Tu mi hai detto che per creare un valore si deve perseverare, anche se si muore». Reyhaneh aveva fiducia nella giustizia. La stessa giustizia che l’aveva dipinta come «un’assassina a sangue freddo» (lei che non uccideva nemmeno gli scarafaggi ma li allontanava da casa tenendoli per le antenne) e che l’ha portata alla forca con la febbre (come ha scritto sua madre su facebook. «Questo paese per il quale tu hai piantato l’amore in me, non mi ha mai voluto e nessuno mi ha sostenuto quando sotto i colpi degli inquirenti gridavo e sentivo i termini più volgari. Quando ho perduto il mio ultimo segno di bellezza, rasandomi i capelli, sono stata ricompensata: 11 giorni in isolamento».

Ma prima di dire addio a questo mondo Reyhaneh ha espresso il suo ultimo desiderio, per il quale, lei che aveva imposto alla famiglia di non implorare mai i giudici, chiede di arrivare fino alla supplica purché venga esaudito. «Mia dolce madre, cara Sholeh, l'unica che mi è più cara della vita, non voglio marcire sottoterra. Non voglio che i miei occhi o il mio giovane cuore diventino polvere. Prega perché venga disposto che, non appena sarò stata impiccata il mio cuore, i miei reni, i miei occhi, le ossa e qualunque altra cosa che possa essere trapiantata venga presa dal mio corpo e data a qualcuno che ne ha bisogno, come un dono. Non voglio che il destinatario conosca il mio nome, compratemi un mazzo di fiori, oppure pregate per me. Te lo dico dal profondo del mio cuore che non voglio avere una tomba dove tu andrai a piangere e a soffrire. Non voglio che tu ti vesta di nero per me. Fai di tutto per dimenticare i miei giorni difficili. Dammi al vento perché mi porti via».

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