“Non
sembri lesbica, sei così femminile”
“Per
me le lesbiche possono fare come vogliono, basta che non ostentino la
loro sessualità”
“Ma
chi è che fa l’uomo tra voi due?”
“Magari
è una fase…”
No,
non è una fase. E non è nemmeno una moda.
Nessuna
“fa l’uomo”.
Ostentare
la sessualità spesso vuol dire anche solo baciarsi in pubblico.
Le
lesbiche non hanno tutte i capelli corti, qualcuna si mette anche lo
smalto.
Non
bisogna per forza scegliere tra maschi mancati o pornofantasie per
eterosessuali.
Di
rappresentazioni femminili si parla spesso, analizzandone la
mercificazione sotto un unico canone estetico, l’imposizione di
stigma sociali. Queste rappresentazioni sono pensate e realizzate per
lo più per uno sguardo attivo maschile, dunque in una prospettiva di
attrazione eterosessuale, dominante nella propaganda sociale, ancor
di più in quella mediatica.
Le
donne rappresentate, 99 volte su 100 sono donne eterosessuali, o
comunque percepite tali solo per il fatto di porle e spogliarle in
funzione del piacere e del godimento di uno sguardo maschio.
Una
donna lesbica subisce dunque un’ ulteriore marginalizzazione dalle
rappresentazioni mediatiche e un’ennesima discriminazione nelle
forme di espressione in cui viene ritratta.
Partiamo
dal presupposto che per lo più le lesbiche “non esistono” ( e
questo è anche il titolo di un riuscito documentario ), cioè sono
per lo più invisibili o con una visibilità mediatica minima, sempre
superate in ambito omosessuale dall’ apparente dominanza dell’uomo
gay così come medium comanda.
Quando
poi una donna lesbica si vede rappresentata, si ritrova cuciti
addosso stereotipi che riguardano a tratti la sua identità
femminile, a volte quella dell’orientamento omosessuale.
Se
si uniscono danno vita normalmente al giudizio supremo: la troia
anormale.
Quella
che osa avere una sessualità fuori dalla “natura” del sesso
fatto con la scusa della riproduzione e che in ogni modo sfugge al
controllo patriarcale.
Ma
partiamo dalle prime banalità.
Ancora
oggi, la maggior parte delle persone crede che le lesbiche siano
tutte maschiacce, abbiano i capelli corti, modi di fare considerabili
“da uomo”, siano grezze, sfacciate, pelose. Tra i modi di fare
“maschili” è incluso il bere alcolici, saper guidare, fare
carriera. E che siano tutte acide, sagaci, incutendo un po’ di
timore ai maschietti, proprio per una sorta di “invasione di
campo”.
Tranne
quelle dei film porno. Quelle no, non hanno un pelo neanche a
cercarlo col microscopio, sono tutte molto femminili, fanno sesso
sempre in pose a favore dello sguardo – maschile, certo, anche
quello – di chi guarda, perchè in fondo non bastano neanche a se
stesse. L’omosessualità femminile non estingue la considerazione
delle donne quali oggetti sessuallesbo2i, ma semplicemente le porta
su un campo di fantasie maschili differenti, ma che comunque hanno
gli uomini come protagonisti attivi.
Le
pornolesbiche esistono per eccitare le fantasie altrui. Maschili
eterosessuali, ovviamente.
Per
scardinare questi e altri stereotipi repressivi dell’identità
delle donne lesbiche, un gruppo di donne ha lanciato un progetto
fotografico dal nome “Lesbica non è un insulto”. Come racconta
Martina Marongiu, una delle ideatrici, questo progetto nasce con
l’idea di dare visibilità all’omosessualità femminile partendo
proprio dai pregiudizi più diffusi e dimostrando, in alcuni casi,
esattamente il contrario tramite le immagini, le foto, con scritte
dirette ed esplicative.
Le
foto ritraggono quindi corpi di donne lesbiche su cui scritte nere
decostruiscono uno a uno i pregiudizi più comuni:
“Non
tutte le lesbiche hanno i capelli corti”, “Con lei tocco il cielo
con due dita”, “Non cercare chi fa l’uomo”, “Amo le donne
non odio gli uomini”, “Sono lesbica e non è una fase”, “Non
ostento, esisto”.
Martina
ha scelto corpi nudi, esposti, perchè proprio il “corpo gioca un
ruolo essenziale nella scoperta della propria omosessualità” e per
questo ha voluto renderlo soggetto parlante proprio delle identità
che contiene.
Attualmente
il progetto è composto da 12 scatti, ma le artiste vorrebbero
ampliarlo, anche grazie ai finanziamenti dal basso possibili con il
crowfunding lanciato su bewcrowdy, dove si trovano tutte le
informazioni circa la filosofia dell’opera e le sue ambizioni.
Una
donna lesbica è spaccata a metà tra chi la immagina come un ometta
pelosa e dal rutto libero e chi la sogna a realizzare le fantasie
sull’ amore tra donne per maschietti.
Una
donna lesbica deve lottare prima di tutto per esistere, poi per
essere accettata, solo infine per capire i propri desideri, i propri
sogni al di là di quello che le strumentalizzazioni le cercano di
imporre. Fin qui sembra lo stesso percorso di una qualsiasi donna
etero.
Solo
che una donna lesbica per molti sarà sempre prima lesbica che donna.
E le
sembrerà di doversi definire per sempre prima lesbica che donna, per
rivendicare se stessa. La categorizzazione sessuale pesa ancora di
più su chi viola “la norma”, che su chi la rispetta e magari si
concede qualche trasgressione nel limite dell’emancipazione
consentita.
Chiuse
in scatole sempre più piccole, con etichette sempre più nette, come
se non fosse possibile amare, fare sesso, inseguire i propri desideri
fuori da un orientamento fisso e inequivocabile.
Perchè
ogni infrazione alla “norma” deve essere catalogata e fissata
perchè non sia nociva dell’ordine costituito, perchè sia
controllabile e reprimibile.
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